suicidarsi a scuola

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controvento

sul pensiero del suicidio e sul suicidio si è sempre dibattuto e discusso, e da parte di tutti e senza eccezioni si è anche continuamente taciuto, 

so di parecchi esequie nel corso delle quali questi allievi – e cioè esseri umani tredicenni o quattordicenni o quindicenni o sedicenni, ammazzati dal loro ambiente – sono stati sotterrati, ma non sepolti, perché in questa città rigidamente cattolica questi giovani suicidi, com’è naturale, non sono stati sepolti, bensì soltanto sotterrati nelle circostanze più deprimenti, più umanamente degradanti.

Un sacerdote non ha nulla da cercare alle esequie di un suicida in una città come questa, totalmente abbandonata all’ottusità del cattolicesimo e totalmente soggiogata da questa cattolica ottusità.

I più esposti al suicidio sono i giovani, gli adolescenti lasciati soli dai loro genitori e dagli altri educatori. Ciascuno di noi avrebbe potuto commettere suicidio, in alcuni si era sempre letto in faccia con chiarezza anche prima, in altri no.

Quando qualcuno preso da improvvisa debolezza non riusciva più a sopportare  né il terribile peso del suo mondo interiore, né quello del mondo intorno a lui, poichè aveva perso l’equilibrio tra questi due pesi che entrambi lo opprimevano senza posa,  e quando poi d’improvviso, da un certo momento in poi, tutto in lui e nel suo aspetto alludeva al suicidio, e la sua decisione di compiere suicidio si poteva notare  e ben presto desumere con spaventosa chiarezza da tutto il suo essere, sempre noi eravamo preparati e mai sorpresi di fronte all’orrore che diventava realtà, di fronte al suicidio che veniva coerentemente attuato dal nostro compagno,

mentre il direttore con i suoi aiutanti non si è mai neanche in un solo caso accorto di una simile fase di preparazione al suicidio, e sempre anzi è stato sgradevolmente sorpreso, e ogni volta inorridito e al tempo stesso ha dato a credere di sentirsi raggirato da colui che altri non era se non un infelice, come se questi fosse invece un impudente truffatore, ed è sempre stato spietato nella sua reazione, disgustosa, di fronte al suicidio dell’allievo, freddo e pronto ad accusare un colpevole che com’è ovvio era innocente, perché la colpa non è mai del suicida ma sempre dell’ambiente, in questo caso dell’ambiente cattolico che aveva schiacciato questo essere umano istigandolo al suicidio.

(brani tratti da: Thomas Bernhardt – L’origine – 1975)

photo by Alessandra Beltrame

 

Bergamo chiama Bergoglio

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01 Bergamo Alta tar le mura venete

All’epoca in cui si è “rinchiusa” nelle mura, nel 1550, Bergamo Alta aveva 40.000 abitanti. Nel 1950 ne aveva 8000. Oggi ne ha 2000. Come città, è praticamente morta. Come città d’arte, non sta benissimo.

Le città d’arte che pensano di poter vivere facilmente di turismo, molto facilmente poi ne muoiono, vuoi per eccesso, o per carenza:

la bulimia turistica è conclamata quando in un dato luogo esistono solo attività turistiche e di fatto l’unica cosa autentica da vedere è la massa stessa dei turisti;

ne sono colpiti i grandi centri storici come Roma o Venezia, ma anche cittadine d’arte come San Gimignano, Gubbio, Orvieto, Volterra,

l’anoressia turistica, all’opposto, uccide tutti quei centri pur ricchissimi di arte, storia, architettura, e autenticità, ma poverissimi di notorietà, spirito e strutture d’accoglienza.

Bergamo Alta è sia bulimica che anoressica, a zone,

soffre di bulimia la nervatura urbana centrale, l’asse “corsarola” via colleoni/via gombito che collega la cittadella a piazza vecchia e al mercato delle scarpe, ingozzata di turisti, negozi, bar, boutique;

soffrono invece di anoressia, spopolate, totalmente prive di negozi, bar, persone, le direttrici laterali: sia la “dorsale” via boccola, vagine, tassis, solata, rocca, che la “ventrale” via arena, donizetti, s.giacomo; con le piazze angelini, lavatoio, rosate ridotte a parcheggi, cioè dormitori per mezzi meccanici;

ma anche il settore occidentale, che è zona preti (seminario, curia) e il quartiere orientale, presidiato dalle suore (conventi in zona rocca, fara, arena e donizetti) è città morta, chiusa, piena di case vuote, di spazi chiusi, di edifici e stanze disabitate.

Questo a causa di proprietari seconde case assenteisti, come a venezia, ma in gran parte per la presenza del grande immobiliarista, la curia:

parliamo tanto di città alta come di una questione civica, ci si scontra tra destra e sinistra, tra residenti e non residenti, tra commercianti e intellettuali, e così facendo facciamo finta tutti insieme di non vedere, di non sapere, che il senso, la crisi di città alta è una questione cattolica, di civiltà cattolica, di proprietà cattolica,

evidentemente ogni apertura e rinnovamento di Bergamo Alta deve coinvolgere riguardare sovvertire in primo luogo queste aree, questi soggetti (preti, suore, curia) queste strutture (seminari, conventi) che per numero, estensione, qualità e potenzialità ricettiva valgono nell’insieme 10 volte le strutture d’accoglienza laiche (alberghi, pensioni e b&b).

Occorre un grande terremoto dello spirito per riportare alla vita le risorse della città morta, del cattolicesimo possidente, bigotto, tetro,

c’è un solo soggetto, un solo uomo che oggi con un solo gesto può fare il miracolo di liberare la città dalla cappa cattolica e aprirla ai nuovi fermenti, ed è il papa,

questo gesto esemplare chiaramente sarà quello di aprire per sempre, abbattere, il cancello del Seminario in via Arena,

e riaprire la pubblica via e restituire alla comunità tutta l’enorme area della città proibita, e le sue connessioni su colle aperto, cittadella, mascheroni e salvecchio.

La zona più elevata della città tornerà ad essere il quartiere pubblico per eccellenza, come era in origine, quando via arena portava all’arena romana, distrutta nell’800 proprio dalla curia per costruirci sopra il seminario,

e questo mastodontico seminario, oggi vuoto e sterile, se aperto e convertito in ostello internazionale, potrà accogliere studenti, artisti, musicisti, viaggiatori, ed essere l’avamposto della riqualificazione della città come vera città d’arte e cultura,

in questo modo, aprendosi, condividendo e ospitando, la chiesa, la curia potrà dire di svolgere il suo vero ruolo, ecumenico, d’accoglienza,

e la parola “cattolico” riprenderà il suo significato autentico, originario, di “universale, aperto a tutti, accogliente”.

A quel punto non sarebbe più così vergognosa l’etichetta di città cattolica.

Se il clero apre le sue case, esce dal suo isolamento, tutta la città si apre ed esce dal suo isolamento. Una rivoluzione, uno scenario impensabile per la curia bergamasca.

Ma non per quella romana.

ma quale expo

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expoImage

A pagina 1 del faldone-masterplan presentato 3 anni fa dall’Italia al BIE (Bureau International d’Exposition) per candidarsi a ospitare Expo 2015 è scritto:

L’obiettivo principale di Expo Milano 2015 è dimostrare che è possibile – oggi, in questo mondo – garantire la sicurezza e la qualità alimentare e lo sviluppo sostenibile per l’intera umanità.

Ma se oggi vai sul sito di Expo quello che trovi in home page è:

Un’occasione unica per il tuo business! Partecipa alle gare, diventa Partner, Sponsor…

Le news sono: l’Indonesia ha firmato il contratto! Il sultanato di Brunei ha firmato il contratto per avere un padiglione in esclusiva!

Nessuna traccia dell’obiettivo principale, nutrire il pianeta, e nessuna traccia della guerra culturale e quindi economica che quell’obiettivo, se preso sul serio, dovrebbe scatenare, e cioè lo scontro tra culture, tra tecnologie: da una parte la transgenetica e le multinazionali, che promettono polpette facili, dall’altra gli eco-equo, che promettono un mondo sostenibile, naturale, solidale.

Sembra quasi che il “big problem” sia stato superato dalla “big solution”: il made in Italy!

La soluzione italiana come sempre è geniale, e trasforma il peggio del peggio nel meglio del meglio: con un tocco di magia, il food industriale sarà spacciato per naturale, buono, divino grazie alla firma “made in Italy”.

Nei fatti: i falchi della gdo, il falchi della grande industria, il falchi del sistema media/pubblicità, i falchi-burocrati di stato e di categoria, tutti questi falchi si sono fatti un sol boccone delle colombe del bio, del sostenibile, del km0, della democrazia alimentare,

e a questo punto cercano di mettere in scena un sistema omogeneo e virtuoso, come un super spot, come una riproposizione sistemica della mitologia barilla del mulino bianco,

che è la tipica operazione made in italy di valore aggiunto,

e di fatto una mistificazione integrale, per cui il biscotto ti viene proposto come fosse quello della nonna, cotto nel camino, con farina del proprio sacco, del proprio campo, mentre sappiamo benissimo che è prodotto in fabbriche dislocate ovunque da macchinari infernali manovrati da computer e alimentati automaticamente con ingredienti provenienti da tutto il mondo in container caricati su navi diesel e poi caricati su tir diesel e quindi scaricati in silos di plastica e poi di nuovo su tir diesel e infine, dopo essere stati confezionati sottovuoto, di nuovo su tir diesel fino al supermercato dove tu li compri, perchè ti ricordano tua nonna.

Questo è giocare sporco.

Mi viene da ridere quando qualcuno strilla alla pubblicità ingannevole. La pubblicità è ingannevole per definizione. Più è corretta, più è ingannevole.

Expo oggi svela palesemente le reali intenzioni e aspettative: rilancio del made in italy, puntando sul food. Una cosa che deve fare paura.

Nel settore moda, il made in Italy in 30 anni ha perfezionato la morte del settore tessile, della produzione artigiana, delle capacità sartoriali. Prima del made in italy, avevamo un esercito di sartine. Dopo il made in Italy, ci ritroviamo con un esercito di pr (un esercito sconfitto, tra l’altro).

Lo stesso sta per avvenire nel food. Prima dei dop, prima della gdo, prima del packaging, quando tutto era sfuso e non esistevano né marchi né marche, avevamo un esercito di panettieri, pasticceri, eccetera eccetera: oggi abbiamo solo un esercito di aspiranti master chef. Le zone coltivate si sono ridotte, non siamo nemmeno autosufficienti: e annunciamo di voler nutrire il pianeta!

In realtà, non ci ha mai creduto nessuno, a quella dichiarazione d’intenti.

Questo abbassamento dell’afflato, della mission, dal poetico “nutrire il mondo” al più prosaico “conquistare il mercato”, lo vedi soprattutto nella vicenda expo-bergamo,

la pre-annunciata expo-tech da tenersi al KmRosso, iniziativa in questi giorni messa in forse dalla mancanza di fondi, e con ogni probabilità destinata a non svolgersi.

L’expo-Bg al KmRosso avrebbe come tema le tecnologie industriali, macchine per la conservazione, il congelamento, la pressurizzazione dei prodotti alimentari, e il loro confezionamento in polistirolo, cellophane, plastica.

Tutte queste tecnologie sono pensate esclusivamente in una logica di profitto da grande distribuzione: proporle in un ambito “expo-nutrire il pianeta” significherebbe svelare la mistificazione in corso,

difficile improvvisare questa favola per cui la tecnologia dell’industria alimentare dei paesi sviluppati potrebbe risolvere il problema della fame dei paesi poveri, molto più facilmente potrebbe invece diffondersi la verità, e cioè che l’industria alimentare di fatto affama i paesi poveri a partire dalla base di ogni tecnologia, le sementi, la terra e l’acqua.

Questo è il messaggio, il dibattito che le colombe dovrebbero diffondere all’expo, ma il problema delle colombe, tragicamente, è nel loro essere colombe (vuoi fare la guerra alle multinazionali, e sei pacifista?!)

Mentre noi non abbiamo il coraggio di combattere questa guerra di idee, nel sud del mondo scoppiano guerre di ogni tipo.

Insieme al dossier-masterplan Expo2015, 3 anni fa, ti presentavano il dossier sulla fame nel mondo, con la lista dei 100 paesi in guerra con il problema della fame (che sono tutti paesi dell’africa, dell’asia o del sud america):

al n.100 il paese che se la passa peggio, il Congo,

ma la cosa inquietante è leggere oggi il nome del paese al n.1 del ranking, l’unico ad aver risolto il problema della fame: la Siria.