Italcementi sapendo di mentire

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(monologo del vecchio professore, in una classe di Liceo, sventolando alla classe la prima pagina de L’eco con la notizia della cessione dell’Italcement ai tedeschi)

Italcementi sapendo di mentire,

il significato è chiaro e trasparente come il cemento tecnico,

parliamo della più grande azienda del territorio,

parliamo di uno dei più grandi produttori europei di cemento:

dopo aver scavato tutto lo scavabile, inquinato tutto l’inquinabile,

guadagnato tutto il guadagnabile, licenziato tutto il licenziabile,

il padrone vende baracca e burattini, come un impresario da quattro soldi,

e la città degli edili perde la sua materia prima, da un giorno all’altro,

senza che nessuno ne sapesse niente, e sono tutti contenti

perchè andiamo verso il futuro, con la locomotiva d’europa,

e poi qui da noi rimane la fondazione: e questa è la presa in giro,

è la goccia che fa traboccare il vaso, è la ciliegina che ti strozza…

ecco la Repubblica fondata sul lavoro, generazioni di lavoratori che hanno lavorato una vita, e non pochi sono crepati di malattie causate dal lavoro, per rendere il padrone, un solo uomo, ricco in una maniera eticamente e socialmente insostenibile… cose dell’Ottocento…

fosse ancora vivo quel fascista di mio padre, mi sembra di sentirlo: quando c’era Lui, una cosa del genere sarebbe stata impensabile, vendere allo straniero! Azienda espropriata, e nazionalizzata, imprenditore al confino, e la ricchezza prodotta resta dov’è, mentre adesso, dimmi tu cosa farà quello lì con tutti quei soldi che puzzano del sudore di generazioni di lavoratori? Ma quale Repubblica fondata sul lavoro, questa è una Privativa fondata sul gioco d’azzardo!

Ha ragione il vecchio… nemmeno ai tempi degli anni di piombo, però, sarebbe stata possibile una cosa del genere…

No ragazzi,i voi non avete capito quello che è successo,

Carlo Pesenti che vende l’Italcementi per i bergamaschi è una tragedia, perchè fino ad oggi ci avevano sempre parlato delle nostre aziende, delle nostre imprese,  quando c’era da soffrire, da fare sacrifici, erano nostre, quando erano un problema erano nostre, adesso che sono una risorsa ecco che appartengono al proprietario legittimo…

nemmeno un re può fare quello che fa un re del cemento, come se Carlo d’Inghilterra appena salito al trono vendesse l’Inghilterra…

ma la cosa orribile è che si tratta di un messaggio deprimente, di una manifestazione d’impotenza,  è come se dicesse:

non sono in grado di fare l’industriale, vendo, e faccio il finanziere!

capite, immaginate i danni che potrà fare come finanziere uno che non sa fare l’industriale,

perchè adesso con quei miliardi in tasca c’è il rischio che faccia fare alla nostra economia la fine che Moratti ha fatto fare all’Inter, drogata di soldi, investimenti senza idee, senza carattere, senza ambizione, pensando di vincere facile, schiacciando la concorrenza…

e questo  con un governo di sinistra, in una città cattolica che promette pace e solidarietà,

mentre  i sindacati sono troppo impegnati a fare le denunce dei redditi…

e adesso volete sapere cosa c’entra l’Italcementi con la nostra ora di storia e letteratura, benissimo, e allora aprite Dante,  canto VI del Purgatorio:

Ahi , serva Italia….

a Bergamo Bassa c’è vita, perfino culturale

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Da sempre ci si sente dire da amici scienziati: come fai a startene a Bergamo, non c’è vita culturale! Ultimamente anche assessori, immobiliaristi e commercianti lamentano la mancanza di vita a Bergamo Centro.

Controcorrente, vorrei segnalare la presenza di tracce di vita in città, perfino culturale.

Non mi riferisco alla vita culturale istituzionale di consumo (eventi, festival, cartelloni) ma al sostrato, all’humus, al fermento: intendo persone, luoghi, discorsi, incontri, iniziative sperimentali no budget, intendo quella “temperie” che facilmente riscontri e vagheggi quando leggi i diari di Canetti o Zweig sulla Vienna belle epoque anni 10-20, quando alle terme o al caffè incontravi Freud, o Wittgenstein, o Kokoschka, o Karl Krauss; oppure la Parigi fin de siecle, dove potevi trovare Baudelaire in un bistrot, o discutere con Cezanne e Zola, e finire la serata la Moulin Rouge con Boldini e Toulouse-Lautrec e …

Il fatto è che chi sogna di incontrare Baudelaire al bar, quando lo incontra realmente, non se ne accorge nemmeno.

Invece, se hai lo spirito giusto, ovunque, anche a Bergamo bassa, puoi avere una vita intellettualmente eccitante come Krauss a Vienna o Zola a Parigi… cioè, devi fare mente locale… se ad esempio  entri al bar Moderno, classico bar qualsiasi zona Piazza Sant’Anna, ,vedrai un tipo che confabula con altri due: gli sta spiegando modi di dire in dialetto, ci sono improvvisi scoppi di risate,  lui non è un divo, è solo il capo-macellaio della Dimo-car (tipo sanguigno, battute taglienti…), e gli altri due sono writer di note agenzie pubblicitarie, che sbevazzano insieme, però…

Attraversi la strada, e a BgBirra trovi l’editore-birraio de l’Osservatore Elaviano che parla con un vecchio pittore. Appartati, come in cospirazione, ecco gli organizzatori clandestini degli Invisible Show, sotto lo sguardo del capellone secolare delle edizioni musicali Carrara. Ancora più capellone, su uno sgabello, alto e magro come una pertica, puoi vedere un giovane clavicembalista di livello internazionale, che abita qui dietro, e normalmente  è perso nella musica che ha in testa, per cui se lo vuoi salutarlo devi picchiargli dentro. Entra una donna poco appariscente, è un luminare della medicina, gli chiede: cosa bevi? E lui risponde: Bach, Bach padre.

Scendi a prendere il pane,  anche il fornaio, il Vanotti, è nello spirito giusto, ha riempito la bottega di libri in book-sharing, e ogni giorno scrive la sua massima assurda su una lavagnetta.

Il fatto è che a un tiro di sigaretta dalla piazza abbiamo almeno una decina tra redazioni e lab creativi: ti parlo di me, del centro sperimentale di comunicazione Calepio Press e della redazione di CTRL magazine, che ridendo e scherzando mese sì e mese no è segnalato come uno dei magazine più “avanti” a “livello europeo” (wow)

c’è il lab Multimmagine, fucina di video-creativi, e sempre nei pressi ci sono anche le redazioni “regimental” di Qui Bergamo, di Città dei Mille, e anche Cobalto edizioni e anche le millenarie edizioni musicali Carrara… manca giusto L’Eco di Bergamo…

effettivamente potremmo anche montarci la testa e dire che Piazza Sant’Anna è il “distretto del pensiero” di Bergamo Bassa, con relative bassezze:

per esempio a un certo punto in piazza appare la classica donna-pantera che scende dalla Mini a fare il bancomat o a comprare 1 mela una, aggressiva come una bresciana a Milano: è certamente una account del QuiBg o della Città dei 1000, una macchina da guerra capace di stoccare in mezz’ora di moine il 1000 o 2000 euro all’imprenditore per mettere lui, la sua villa e la sua macchina sul magazine patinato, mentre tu che scrivi due romanzi l’anno o i tuoi amici che suonano tutte le sere non riuscite a campare…

insomma, gli stessi problemi che avevano Baudelaire e Cezanne…

Quindi, ragazzi, non state a farvi troppo menate sulla vita culturale, sulla mentalità della piccola città, andate oltre, prendete quel che cola dalla realtà, mischiate con i riferimenti  culturali scolastici, con i grandi maestri morti da secoli, e li vedrete rivivere, e anche la vostra vita prenderà senso…

Se nella tua testa non c’è fermento, se nelle tue viscere non c’è fuoco, è inutile che trascini le membra a Berlino, o a Londra…

La cultura te la crei, te la vivi, o non ce l’hai.

Diceva Gigi Lubrina: tu immagina che la vita sia un romanzo, o un film: vedi uno, gli dici una cosa, e vedi cosa succede. La vita culturale è questa…

Ma questo bel quadretto non ti basta, lo so, tu vuoi un esempio concreto, vuoi la “case history”, vuoi che ti racconti di un qualche progetto divenuto un prodotto culturale vero, di rilevanza e spessore…

Allora ti racconto questo: una sera di un anno fa, redazione di ctrl magazine, si cercano idee per nuove rubriche – che noia il reportage dal rave party! – e provo a buttare lì un’idea stonata: perchè non fare delle recensioni delle messe in quanto spettacoli, dove raccontare la location, le vibrazioni, il carisma del front-man e l’integralismo della massa-pubblico…

un’idea non nuova, già Camillo Langone faceva qualcosa del genere sul Foglio…

quello che non mi aspettavo era che nascesse un serissimo e pimpante gruppo di ricerca dedicato, il gruppo Cultras, composto da x giovani menti brillanti (musicologi, sociologi, storici, letterati) che con pseudonimi vari, in modo Debord-ante, da ormai un anno firmano recensioni mai viste: la messa del vescovo, la messa in latino, la messa dell’invasato, la messa dei protestanti, dei testimoni di geova, dei mormoni, degli ortodossi…

Si tratta di un “lavoro culturale” destinato a rimanere: ricerca, divulgazione, scandalo, e anche correttezza ed equilibrio.

Lo stesso gruppo sta realizzando anche un altro “lavoro culturale” davvero interessante, il remake in linguaggio underground del martirologio cattolico, cioè le vita dei santi + immaginetta, ogni giorno il santo del giorno in una pagina, in linguaggio contemporaneo, con illustrazioni originali che riescono nella mission impossible: rinnovare l’iconografia cattolica….

una cosa che la Curia, L’Eco, la Fantoni e il Sant’Alessandro messi insieme con tutti i loro soldi, i loro biblisti e i loro madonnari non sono in grado di fare, limitandosi a pubblicare ogni anno sempre le stesse vite dei santi ingessate da decenni, o secoli…

Questo lavoro, che in realtà proprio perché sincero e rispettoso, raccontando i santi come personaggi contemporanei, reali, estremi, nella città più bianca e bigotta d’Italia, risulta  autenticamente dissacrante.

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Potrei raccontare molti altri progetti che conosco da vicino, a metà tra ricerca e provocazione, autofinanziati, sostenibili, come la Badante Alighieri, agenzia letteraria per scrivere la biografia del nonno; la Pub Writing Session, lo spettacolo della scrittura nei pub; gli Invisible Show; i Contemporary Locus…

Intanto, nei loro uffici, assessori e immobiliaristi, che di questi fermenti non sanno niente, vogliono, o dicono di volere, fare qualcosa per dare più vita al centro di Bergamo Bassa, al cosiddetto Centro Piacentiniano.

Ora, se vuoi veramente dare vita al centro, devi osservare quello che succede nei borghi, e studiare la storia della città. Il centro di Bergamo Bassa non nasce come località centrale, ma lo diventa in quanto “passante” tra i borghi. Devi allargare il quadro, e la prospettiva.

Non è ignorando o soffocando i fermenti dei borghi, che porti vita in centro, ma piuttosto restituendo vita e senso di connessione al Sentierone in forma di “passante verde”, tracciato pedonale da aprire con poca fatica materiale (e molta mentale!) tra la Carrara-Gamec e Piazza Pontida, attraverso i parchi Suardi-Montelungo-Caprotti (cancelli da aprire…) fino a S.Spirito, e poi via Tasso, Sentierone e via XX Settembre.

Con questo anello pedonale tu scendi dalle mura, da Porta S.Agostino/via S.Tomaso, traversi tutto il centro e risali da S.Alessandro in Porta San Giacomo: e così integri città alta e bassa nella fruizione turistica pedonale, storico-artistica,

questo i turisti lo apprezzerebbero, e così pure i commercianti del centro e dei borghi, che per loro natura miope sono incapaci di vedere che oltre l’isola pedonale –  la tomba dello shopping – c’è l’arcipelago pedonale, e la resurrezione urbana.

Se Bergamo deve rinascere come città d’arte-turismo-cultura, è chiaro che i fermenti verranno dai borghi, dai luoghi dove ci sono artisti, gallerie, editori, sono loro che faranno crescere la città come città d’arte e cultura, proprio come secoli fa gli artigiani e le botteghe dei borghi hanno creato la città commerciale…

non serve fare la partnership con l’università di Harvard e spendere milioni in progetti di Smart City, sto parlando di aprire cancelli e portoni, sto parlando di aprire la mente della città…

forse non tutti sanno che il Sentierone  in origine si chiamava Sentierino, ed era appunto un Sentierino che collegava i borghi attraversando il grande prato di Sant’Alessandro (dove oggi sorge il centro Piacentiniano).

Aumentando il flusso, il Sentierino divenne Sentierone,  quindi si costruì la fiera, quindi il centro Piacentiniano oggi desertificato.

Ma il tracciato del Sentierino lo vedi ancora, tu guarda la mappa del 1600, e riconosci il filare d’alberi che ancora oggi corre a lato del Sentierone tra la Chiesa di San Bartolomeo e Palazzo Frizzoni: quello è il Sentierino.

Ricoperto di vecchio asfalto, orlato da brutti pannelli con brutte affissioni pubblicitarie, meriterebbe maggior cura, e una targhetta che in poche righe racconti la storia, e il senso, del Sentierino che diventò un Sentierone.

Insegniamo alle persone ad attraversare Bergamo Centro a piedi, dalla Carrara alle 5 vie, e riavremo la centralità del Sentierone.

Ma qui abbiamo architetti che vanno in America a farsi spiegare come fare marketing urbano, e poi tornano masterizzati, e per rivitalizzare il centro hanno idee brillantissime come quella di cambiare nome a Largo Bortolo Belotti, perché “è un nome che non ha appeal turistico”.

Io questi li rinchiuderei due o tre mesi al Gleno a leggere bene la Storia di Bergamo e dei Bergamaschi di Bortolo Belotti in 10 tomi e 2000 pagine, da sapere a menadito per riavere la libertà.

Il fatto è che la cultura a volte manca proprio agli uomini di potere che vorrebbero promuoverla. E alle donne, pardon.

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la dieta break

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dietaBreak

La dieta break è una dieta di rottura (break bones) dai risultati strepitosi:

meno 10 kg di massa grassa persi in 30 gg e più 5kg di massa muscolare, praticamente quello che inseguivo vanamente da anni,

per perdere peso giocavo a calcio, giocando a calcio mi sono distrutto un ginocchio, con la gamba rotta ho scoperto la dieta break,

morale: per diventare un palestrato ho dovuto diventare un invalido!

Come dice lo zio Bob: nulla è per caso!

(nella photo:  il soggetto con sigaretta nella mutanda e libro nel gambone. > la vera storia di come ho conosciuto lo zio Bob qui: https://calepiopress.it/2013/07/19/la-giornata-dello-scrittore-sovversivo/ )

il telefono che uso da 10 anni

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NokiaLeo

Il telefono che uso da 10 anni (15.000 sms inviati, 35.000 ricevuti, oltre 500 nomi in agenda) era già superato quando l’ho comprato. Prima ho avuto un Motorola usato, di quelli grossi come un walkie-talkie, che non è durato tanto.

Non saprei dire di preciso quando ho cominciato a diventare un consumatore di retroguardia, una volta anch’io ero un giovane all’avanguardia in fatto di tecnologia, abbigliamento, mobilità, mode culturali…

Forse è successo ai tempi dell’università, andando fuori corso, sì, è stato allora; o forse c’entra anche il crollo del comunismo, e la conseguente modulazione dell’imprinting anti-capitalista in rifiuto dell’omologazione consumista.

Non si tratta di una forma di integralismo, ma di resistenza passiva: essere alla retroguardia non significa essere fuori dal proprio tempo, ma arrivare per ultimi, adottare l’usanza comune quando è generalizzata, quasi per deriva, una resa al prodotto inevitabile, mentre chi è all’avanguardia è già due gradini oltre.

Il ciclo dei consumi, come quello della moda, prevede una nicchia di innovatori, cui segue la massa, e infine la nicchia della retroguardia.

Ora che quasi tutti hanno lo smartphone o l’iphone, anche noi della vecchia guardia, uno ad uno, ci arrenderemo all’usanza diffusa, e verremo normalizzati.

A un certo punto sei obbligato, e devi cedere: da mesi la Vodafone mi manda messaggi intimidatori: sappiamo tutto, solo per te il nuovo Galaxy gratis, cosa aspetti! Che domande! Aspettavo il decennale!

Nel frattempo, in condizione di handicap tecnologico, noi retrogradi in questi 10 anni abbiamo potuto osservare come è cambiata la vita dei nostri simili, e arrivare consapevoli, preparati al cambio  di vita: perchè è indubbio che l’innovazione tecnologica ti cambia la vita, e non sempre in meglio, come tutti prima o poi abbiamo potuto sperimentare.

Il mezzo è il messaggio, anche in questo caso: in un mondo dove tutti sono sempre reperibili e responsive, messaggi non in linea con il mezzo, come “please rispondimi su sms” “sarò off line fino a domani mattina” “mandami la foto via mail” “vediamoci martedì senza ulteriore avviso” vengono sempre ignorati dall’utente umano che ormai è tutt’uno con il mezzo.

Il mito delle reperibilità, iniziato con il cercapersone, oggi è una realtà totalizzante.

Nell’arco di questo decennio siamo cambiati. Poter mandare parole sempre a chiunque in ogni luogo ci ha fatto perdere il valore della parola data, e precipitare nello stress degli  appuntamenti elastici (“chiamami quando parti, chiamami quando arrivi”).

Eravamo esseri umani, con 5 sensi e 1 anima, e siamo diventati periferiche di un’intelligenza artificiale eterea, fatta di programmi, server e memorie che stanno tra le nuvole, proprio come la forma suprema d’intelligenza che programmiamo da millenni: Dio.

Eppure, nonostante sia (o appaia) sempre più accelerato, alla fine il nostro tempo ha sempre la stessa unità di misura e di senso: il decennio

Noi viviamo le nostre vite misurandoci sul decennio.

Pensiamo a noi stessi, a “come eravamo” a 20 anni, a 30 anni, a 40 anni. Gli stessi oggetti d’uso quotidiani, prima del consumismo, duravano un decenni, e accompagnandoci segnavano il nostro tempo.

Non solo la storia personale, ma anche la storia collettiva, la grande storia, è scritta sui decenni: basta dire gli anni 20, gli anni 30, gli anni 40 ed ecco le avanguardie, i totalitarismi, la guerra mondiale, poi gli anni, 50, 60, 70, 80, il boom economico, la dolce vita, gli anni di piombo e il made in Italy.

Il fatto è questo: 10 anni sono un pezzo di storia, e oggi né i nostri oggetti-feticcio, né le tendenze culturali arrivano a durare un decennio, a maturare.

Il decennio è un tempo-prova, un “periodo”, un principio cognitivo.

Tutti ricordiamo che a un certo punto nei libri di storia, al liceo, c’era un capitolo della storia d’Italia intitolato “il decennio preparatorio”, che racconta come si siano gettate le basi dell’Unità d’Italia tra le sommosse del 48 e la spedizione dei Mille del 1861.

Quel primo tratto di storia d’Italia, quel lungo decennio di anteprima all’impresa dei Mille, costituisce una metafora perfetta, nel suo sviluppo non lineare, ma circolare, di quelle  “micro-storie d’italia” che saranno le imprese del made in Italy: un’idea/sentimento d’innesco, il contagio/condivisione, quindi la fase difficile, l’epoca in cui l’idea deve diventare grande,  superare l’infanzia, fare presa nella realtà, resistere alla tipica dinamica di caduta dell’entusiasmo in corrispondenza della costruzione del consenso…

Se supera il decennio preparatorio, un’idea, un prodotto, un’azienda diventa adulta.

Ma la mortalità infantile del made in italy è sempre stata altissima. E anche nelle nostre vite private, spesso viviamo progetti di vita che non arrivano al decennio, in amore, nel lavoro, e poi ricominciamo. Cambiamo telefono, e cominciamo un nuovo gioco. Siamo eterni bambini, noi italiani.

Ma ci dimentichiamo della mission più importante dell’essere bambini: dire la verità, avere l’incoscienza di gridare che “il re è nudo”.

Photo: il mio telefono. Infilato nel Nokia: “faccine” by J.Gandossi, che ora uso come agenda-memo, col n. di tel. sul retro, dopo aver appurato che più della metà dei 500 n. in agenda… non so più chi siano!)  

 

 

il piatto in cui mangio

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a un certo punto della tua vita sai in che piatto vuoi mangiare, in che tazza vuoi bere,

come cani, si desidera la propria ciotola, primo oggetto di benessere personale:

ricorre oggi un anno esatto da che mangio nel mio piatto, una ciotola con piatto, tazza e tazzina realizzata da un architetto che ha chiuso lo studio di architettura e ha aperto un laboratorio di ceramica;

in questo laboratorio ha ritrovato le sue origini, la sua infanzia nella terra “cotta” del Salento, e soprattutto il senso perfetto del progetto che diventa oggetto.

Quello che io ho ritrovato, invece, è il senso basilare del nutrirsi: questa ciotola ruvida, essenziale, imperfetta, con la sua tazza-bicchiere, e il piatto-vassoio, e la tazzina-bicchierino, che un essere umano, e non una macchina, ha creato per me, mi ha fatto cambiare abitudini alimentari;

da almeno dieci anni mi riproponevo di mangiare sano, potevo arrivarci prima che tutto comincia dal piatto, secondo l’unico dogma che mi è rimasto (il mezzo è il messaggio)

come molti individui randagi, nel “logorio della vita moderna” mi ero abituato a nutrirmi in modo nevrotico e anonimo, mangiando roba EsseLunga in stoviglie Ikea, ma più spesso mangiando direttamente dalle confezioni polistiroliche, bevendo dalle bottiglie, dalle lattine…

Avere una mia ciotola, la mia tazza, come da bambino, è stato il primo passo di uno stradello che mi ha portato a preparare sempre il mio pasto, una specie di rito religioso, una piccola liturgia, apparecchiare, servirmi, nutrirmi, sparecchiare, lavare, riporre, tutte operazioni che avevo perduto (usavo tutti i piatti, si accatastavano nel lavello, con grande pena nel cuore poi li dovevo lavare tutti).

Quando ho avuto il mio set, pensavo alla sua funzione estetica, di oggetti bellini, destinati a fare da portafrutta, o portamatite,

invece dopo il primo uso è diventato il mio oggetto-feticcio, transfert, traghetto verso la consapevolezza alimentare: dunque non le fidanzate bio-gas, non gli amici km0, o i soci equo solidali mi hanno portato a mangiare meglio, più sano, più slow, ma è stato il piatto in cui mangio,

è stato un architetto-vasaio (cultura vasai?) che ha messo il suo lavoro, le sue mani, il suo tempo nel cuocere la terra in forma/funzione di piatto per me.

(photo: il set Ciotoleo sul tavolo Calepio Press. Qui sotto trascrizione della conversazione con Luca Pedone un anno fa  – siamo alla slow comunication! –  all’apertura del suo laboratorio ClayLab in Pignolo)

Luca Pedone: “ho fatto il liceo artistico mille anni fa, lì ho iniziato a manipolare argilla. Poi ti ricordi di essere nato in Puglia… e ogni volta che ci vai ritrovi terracotta, piatti, piattini, forni, rimani sempre affascinato, e hai questo tarlo nella testa, come faranno a campare?

Vado avanti, Università, architettura, sia mai che uno può fare l’artista, vado in Finlandia con una borsa di studio, all’Università di Helsinki ci sono tutti i dipartimenti, interior design, fotografia,  pittura, serigrafia, scultura e c’è anche ceramica, proprio accanto a interior design, e pensavo “che bella cosa”, e spiavo dalla porta del laboratorio;

provo tutti i lab ma mi tengo a distanza da ceramica, non sarò mai in grado, troppo rispetto,

torno in Italia, mi laureo, faccio l’architetto, il grafico, i siti internet, dieci anni a impaginare cataloghi e flyer,

arriva la crisi, 2008, trovo un posto da insegnante in un Istituto privato, ma per tenere lo studio lavoravo per poter lavorare, non per vivere, chiudo, insegno dal 2008 ad oggi,

comincio a sentire il bisogno di sporcarmi le mani, cinque anni fa seguo un corso di somelier, tutti e tre i livelli, e penso che si debba cominciare dalla vigna, non so,

finalmente, per caso, per fato, due anni e mezzo fa il primo corso di ceramica raku: trovo il volantino giallo in colorificio, era per me, il raku una cottura che dovevo fare al Liceo e non avevo mai fatta, così vado, il fascino della terra su di me era vero, da allora non ho staccato la mani dalla terra,

“mani nella terra e testa tra le nuvole”, non voglio arrivare a seguire solo da pensionato la mia strada: proviamo, mi dico, a trasformare la passione in lavoro, camparci, non diventare ricchi;

dopo il corso avanzato faccio il corso base, cotture antiche, inizio ad allestire un piccolo laboratorio in casa, comprando forno, tornio, inondando la casa di polvere, terra,

poi a Firenze,  Certaldo, Varese, scuole internazionali, e capisco che è una strada percorribile, all’estero si laureano in ceramica, e ne fanno un mestiere,

in Italia siamo fermi a una tradizione, non c’è evoluzione,  nella ceramica tradizionale lo scambio non c’è, c’è chiusura, io faccio un pezzo, trovo uno smalto, e mi tengo il segreto: in Italia è così, ognuno deve cominciare da capo, farsi la sua strada, non c’è trasmissione del sapere, condivisione della ricerca,

le nuove generazioni di “creativi” pensano a fare la videoart, fotografia, performance digitali, nessuno riprende le tecniche della terra,

cerco uno spazio, lo trovo, lo metto a posto, devo inventarmi muratore, piastrellista, imbianchino,

apro il laboratorio, uno spazio microscopico, in una via del borgo storico degli artigiani e degli artisti,

oltre ai pezzi che faccio io, è uno spazio per fare corsi, imparare, insegnare, scambiare esperienza,

voglio mettere il lab a disposizione di chiunque voglia cuocersi la sua terra, come una volta i fornai”.

il manifesto artigianista

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Il “Manifesto artigianista” o “dell’artigiano indipendente” è il tema-cover de l’Osservatore Elaviano n.4, fogliettone luppolaceo fresco di stampa edito dal birrificio Elav, curato e scritto da me, Leone/Calepio Press, e disegnato dallo studio Temp.

Il  manifesto artigianista nasce da conversazioni con Antonio: la “sovversione pubblicitaria” è il tema del numero, la divinità guida del numero è il Dio degli inizi, il Giano bifronte, che qui diventa l’artiGiano bifronte – -e divinità guida e cover dei n. precedenti sono: 1) la dea madre, 2) Iside regina d’inferno, 3) Eco e Narciso – e qui il linguaggio utilizzato, sovvertito, è quello della pubblicità.

Divertiti, spazientiti, stufi di vedere grandi spot scor.. retti di vario tipo, col nonno che va in bici a prendere il luppolo, e l’altro nonno che butta il luppolo nel pentolone, si è pensato di  scherzare, fare il verso, così, secondo lo slogan “David è Goliardico”,  abbiamo giocato a esagerare, a fare 8 grandi spot elav, scegliendo come testimonial Elav i grandi personaggi storici del territorio,

Colleoni, Nullo, Paci Paciana, il Quarenghi, il Beltrami, Fra Galgario, Fra Calepio, la Monaca di Monza, personaggi assolutamente Elaviani, oltre che hollywoodiani, ognuno a suo modo,

con la pubblicazione dei ritratti “bg-bastards” in 2000 battute che da alcuni anni sto scrivendo  (alcuni già pubblicati nelle cover “bergamanent” di CTRLmagazine, altri inediti).

Ogni testimonielav, come ad esempio Francesco Nullo, è “brutalmente” associato a un valore del brand (l’indipendendenza) e a un prodotto (birra Indie). Facciamo come loro, ragioniamo da giganti, da scienziati del marketing e comunicazione.

Il poster centrale è dedicatato all’atlantelav, con tutti i pianeti e i satelliti dell’universo elav.

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Il legame con il prodotto, le birre, come sempre è di pura ispirazione (“questo testo è stato scritto bevendo questa birra”) ma qui diventa anche iper o meta-pubblicitario, in modo esibito: però la cosa assurda, esagerata, e più sovversiva, è che questo Osservatore dedicato all’auto-pubblicità, super ridondante e auto riferito, finalizzato alla mitologia del marchio, non riporta in alcuna pagina, neanche microbo, il marchio Elav!

In origine le indicazioni allo studio Temp erano esattamente opposte, mettiamo il marchio ovunque, anche nella filigrana, rendiamo il marchio assordante! Ma i geni devono aver pensato bene che il silenzio è il suono più assordante,  e facendo finta di niente mi hanno proposto un lay-out senza alcun marchio, e io facendo finta di niente  l’ho accettato, e così Antonio. Parafrasando il Croce, “non possiamo non dirci no logo”.

L’Osservatore Elaviano è reperibile gratuitamente agli eventi e nei pub Elav – a Bg: Osteria della Birra di piazza Mascheroni, città alta; o al Monastero di Astino, o alla sede del  birrificio, a Comun Nuovo.

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LeoneZoppo

Martedi 22 giugno, h20.15 

Avendo per  scenario città alta e colli, il campo di calcio Imiberg in  S.Lucia è il posto ideale per segnare un gol che per quanto mi riguarda passerà alla storia come l’ultimo gol del Belotti: cross dalla trequarti, tutti i grulli sul primo palo, io venendo da dietro arrivo solo allo stacco, è una palla alta, ma voglio schiacciarla con forza a terra, devo saltare più in alto che posso… e a quel punto il campo Imiberg, del quale io avevo sparlato nei miei post polemici su Imiberg e Formigoni company, si vendica, con la sua eccezionale elasticità… sento un rumore secco, uno schiocco di frusta, un male no word al ginocchio, penso che qualcuno mi abbia tirato un calcio diretto. In ogni caso spizzico il pallone, che finisce in rete, mentre io finisco a terra urlando.

Mi guardo la gamba. Al posto della rotula, al posto del ginocchio, c’è carne piatta, liscia, come fosse il dietro del ginocchio, come se qualcuno l’avesse appiattito con una martellata. La mia rotula destra è risalita a metà coscia, come una spallina sotto pelle. Compagni e avversari si fanno intorno, guardano, vedono, girano la testa, uno mi sembra abbia conati di vomito. Raddrizzo a mano la gamba, ormai inerte, e assume un aspetto meno impressionante.

Arriva il 118, una bella rossina mi consola nel viaggio, dai finestrini alti dell’ambulanza intuisco un tramonto infuocato.

Al pronto soccorso dopo qualche ora di attesa mi fanno le lastre, mi danno la diagnosi (mi è saltato di netto il tendine rotuleo, che sarebbe l’elastico che tiene il ginocchio, e probabilmente anche l’osso che lo tiene, è successo nel fare il salto, nel caricare per lo stacco aereo) un simpatico dottorino mi dice: esattamente quello che è successo a Ronaldo, il classico infortunio del grande campione, adesso ricoveriamo, domani non facciamo niente, giovedì ti operano, sabato sei a casa.

Io cagasotto rispondo: se domani non mi fate niente, vengo domani. Si, così perdi il letto, e devi rifare la coda al pronto soccorso. Va bene, ma adesso devo andare a casa. Prendo la scusa di un lavoro improrogabile che devo fare nella notte. Mi mette una steccatura rigida. La mia compagna mi accompagna a casa.

Mercoledì 23 giugno

Dopo aver lavorato quasi tutta la notte per mantener fede alla mia scusa, mi sveglio nel mio letto, e mi ritrovo l’amico B. in casa, tutto sorridente, che mi dice: andiamo, e mi porge due stampelle che mi ha appena comprato. Con le stampelle, percorro 40 metri, nella mia via c’è un negozio di ortopedia, e acquisto un bel tutore rigido-regolabile. Il tizio del negozio mi taglia la steccatura e mi mette il tutore.

La sera torno al pronto soccorso. Sette ore d’attesa, alla tv ci sono gli europei under 21 e il mio omonimo Belotti fa un gol fantastico (buon sangue non mente). Mi appisolo in sedia a rotelle, alle 3 di notte mi ritrovo spinto in reparto, ricoverato in camera con un centauro immobilizzato, malridotto, con madre che lo veglia, e lo sveglia, russando più di noi due maschi feriti messi insieme (ha lavorato tre decenni in fonderia! Massimo rispetto).

Giovedì 24 giugno

Luci accese, personale delle pulizie, infermiere, termometro, puntura, prelievo, pressione, pastiglia, elettrocardiogramma, rifacimento letti, giro dei medici, nuovo giro delle infermiere: sono entrato nella catena di lavorazione ospitaliera.

Un’infermiera simpaty al mio compagno di stanza: cos’hai fatto? Incidente in moto? Dovrebbero lasciarle guidare solo ai professionisti le moto!

Tra le 11 e mezzogiorno è l’ora ideale per imboscarsi, riesco a montare su una carrozzella (c’è un racket tra i 30 ricoverati e le 3 carrozzelle disponibili) e via in zona fumatori. Faccio due parole con una specie di Jessica Rabbit in vestaglia di raso e ciabattine floreal, basta un niente tra degenti e scatta la solidarietà, e quasi le lacrime. Ma io ho sempre avuto il dono (o la disgrazia) di ascoltare le persone.  La sera mi dicono: da mezzanotte digiuno, domani ti operano.

Sul telefonino (che compie 10 anni: un Nokia scarafone con ancora registrata la prima telefonata, 24 giugno 2005!) trovo 30 sms di amici, parenti, collaboratori, rispondo a tutti grazie, non rompetemi, non venite, non chiamate, vi amo, appena esco pubblico il diario.

Venerdì

Tutto il giorno a digiuno, ogni passo che senti pensi: ci siamo, sono venuti a prendermi. Alle cinque di sera mi dicono: niente, è arrivata una bambina grave in elicottero, ti operiamo domani.

Sabato

Idem come sopra, e ancora a un certo punto arriva una bambina grave in elicottero. Però, queste bambine. Lunedì ti faremo la risonanza, l’operazione martedi, forse (se non arrivano bambine).

Domenica

Turismo ospitaliero, in pausa pranzo ho ospiti alla Marianna, dopo mangiato visita alla chiesa, una specie di Mecca Bianca, mi piace molto, mi piacciono anche le opere del Ferdi FF. Fuori dalla chiesa due parole col tossico di turno che mi dice di vedere la madonna, gli offro due euro.

In zona fumatori sento una compagna di sventura, con gamba ingessata, che racconta al telefono di come il marito le abbia sparato, e abbia sparato anche ai figli, mancandoli, però distruggendo la moquette.

Lunedì

Andiamo, mi dice l’infermiera simpaty: e dove, a ballare? No, in sala operatoria. Cazzo. In sala operatoria tutti simpatici e buona musica.  Bisogna inserire anche un cerchiaggio metallico, cioè girar del fil di ferro intorno alla rotula.

Purtroppo a un certo punto perdono qualcosa nel ginocchio, bisogna sgarugare, arriva il radiologo, seguo la ricerca in diretta dallo schermo, alla fine ce la fanno, nonostante l’inconveniente mi hanno sempre dato grande fiducia e serenità, veramente un bel team. Ma la notte la pago, dolore di bestia, conto i minuti fino all’alba, quando pietosamente mi antidolorificano.

Martedì

Ok, andiamo a fare la risonanza magnetica. Ma mi hanno già operato. Ah, ti hanno già operato? Allora niente risonanza magnetica. Passo la giornata in dormiveglia, in attesa che qualcuno mi dica qualcosa.

Quando apro gli occhi mi trovo due camici verdi, due donne, belle signore 50/60, cazzo, sembrano due primari. Ci racconti tutto, mi dicono. E io parto e racconto tutto, il trauma, i sintomi, l’operazione. Stanno mute, e mi sorridono. Cosa mi dite, allora? No, noi soprattutto ascoltiamo, siamo volontarie di un’opera pia per dare conforto ai malati soli.

Mercoledì

Mi faccio in carrozzella tutta l’hospital street fino alla Marianna, la gente ti guarda ansimare, gli unici che mi danno una spinta sono un africano all’andata e un marocchino al ritorno. Gente che sa cosa vuol dire aver bisogno di una mano.

Alla Marianna non possono dare alcolici ai degenti. Mi tocca corrompere la prima bella ragazza che vedo. In zona fumatori due parole con una compagna di sventura, bella donna maratoneta 40/50, ricoverata per una frattura semplice, ma proprio nel dimettersi è volata con le stampelle sul pavimento appena tirato a cera, e ha fatto il danno grosso.

La notte non dormo, mi piazzo a leggere nella hall del reparto, sui divanetti pelle nera tipo show room, giusto  sotto il ritratto di San Matteo Rota, e gli dedico la preghiera della rotula. A mezzanotte due genitori indiani o pakistani mi raccontano del loro bimbo di 5 anni, le due gambe spezzate sotto una macchina, prometto di andarlo a trovare la mattina.

Giovedì

Il bambino paki ha un sorriso gigantesco. Più che altro è lui a tirar su di morale noialtri adulti occidentali. A mezzogiorno mi dicono: possiamo dimetterti, devi solo  parlare con la fisioterapista poi puoi andare. Il mio compagno di stanza in questi otto giorni ha fatto 3 operazioni, adesso riesce a stare sulla sedia a rotelle. Sua sorella e sua madre mitiche.

Arriva la fisioterapista e parliamo per dieci minuti del libro che ho sul comodino, lei l’ha letto e trovato molto bello. E il ginocchio? Ne parleremo alla visita di controllo. Poi mi dimettono.

La mia compagna viene a prendermi. Ho davanti due mesi immobile, tre di stampelle, un anno di riabilitazione. Ci voleva una cosa così per mettere finalmente a prova la forza di volontà. Prima di andare a casa, ci fermiamo a Bg birra a berne una molto luppolata. Cazzo, veramente buona, che cos’è? Mi dicono il nome di una birra che non mi era mai piaciuta. Le cose cambiano con le esperienze (e con le astinenze!).

(ph: il Belotti dopo 7h di pronto soccorso)

eros e tempo

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CharlotteOK

L’età non conta. Il sesso, come l’amore, non ha età.

Quando il buon Parise sostenne nel suo celebre saggio che il sesso è praticabile solo dai venti ai trent’anni, si riferiva alla ginnastica.

Qui parliamo di sesso vero, di orgasmi veri, apocalittici, di persone mortali, mosse da una concezione umanista della vita, non scimmiesca.

Le persone, i corpi delle persone, come le moto, o le case, quando sono nuove funzionano bene, ma non significano nient’alto che la propria funzione. Col tempo, con i segni del tempo, con i difetti, acquistano pregnanza, senso, carattere, umanità. Più rughe, più cicatrici, più segni sulla pelle.

Il corpo è un testo, una donna che ti guarda negli occhi mentre si sfila le mutande, quello è un libro aperto. Allora l’ansia di possesso diventa desiderio di condivisione.

Non so che farmene di una ragazzina acqua e sapone, casa e palestra. L’idea di scambiarci effusioni, kilowattora e umori circolanti non mi eccita. Io cerco la coscienza del corpo, il pudore della decadenza.

Voglio stringere decenni, non natiche sode. Voglio carezzare  seni cadenti, sudati, non mammelle rifatte, fredde, morte, da museo. Desidero entrare in altri mondi, vivere altre vite, percepire il passato altrui. Preferisco indossare camicie lise, maglie lasche, scarpe sformate, roba usata.

Non si tratta di fingere che il tempo si sia fermato, non parlo di ristrutturazioni che riportano all’antico splendore (che bestemmie ignoranti produce il nostro tempo!). Parlo del vero senso della bellezza e dell’eros, che è nel tempo incarnato, nell’edificio in rovina, nei segni profondi, che urlano d’amore, che più hanno vissuto e più bramano vita, brandelli di vita,  fotogrammi sbiaditi che valgono più di intere cineteche digitali.

In realtà la bellezza carnale, l’erotismo reale, fiorisce sul viso e nel corpo di una persona solo dopo che questa persona è consapevole di tutti i suoi anni. Gli sguardi, le parole: sto parlando del paradiso della conoscenza. L’unica zona erogena che conosco.

(dalla rubrica “Il maschio alfa” by Leone, leggi tutto su CTRL magazine. In photo: Charlotte Rampling)