la porta stretta

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«Ma io so cosa significa!», avevo protestato. Tra le mani brandivo il romanzo di Gide.

«Davvero? E cosa sai?», aveva ribattuto Monsignor P, la voce velata d’ironia.

Con un lieve tocco mi aveva guidato in uno di quegli stretti vicoli che tagliano e cuciono il tessuto urbano della Roma barocca. Pareva divertito dalla mia ingenuità. Anche nel modo di sorridere, come in ogni suo gesto o parola, esprimeva una specie di eleganza virile, un’aggressività controllata, da gentiluomo che tiene al guinzaglio un animale feroce. Sorrideva, ma i suoi occhi grigi ti fissavano con la potenza nuda di chi ti entra nella psiche col piglio del dominatore. Appena girato l’angolo, ci eravamo fermati davanti a una piccola e polverosa libreria apostolica.

«Mio giovane amico, se tu conoscessi davvero l’origine, e il senso occulto di quel versetto… potresti ben perdere la retta via!», disse. Mi ero sentito avvampare la faccia.

«La porta stretta “è” la retta la via!», avevo quasi declamato, calcando la “è” come un filosofo esistenzialista. Dovevo essere piuttosto comico, nel tentativo di dare una zavorra intellettuale ai miei diciott’anni. E lui, condiscendente, mentre si stringeva per farmi entrare nella piccola libreria, a bassa voce, quasi salmodiando: «Facilior est dromadi fibulam accedere, quam diviti intrare in regnum caeli.»

Sapevo che la “vexata quaestio” del cammello nella cruna dell’ago (paradosso? metafora? errore di trascrizione? di traduzione?) era una delle “Controversie” che l’avevano reso celebre. Il seme dell’indagine filologica era stato lanciato.

* * *

Io ero allora un ragazzino diversamente abile (crescendo mi sarei normalizzato). Al Liceo la mia intelligenza era motivo d’imbarazzo sia per i compagni che per i professori. Avevo conosciuto Monsignor P vincendo in primavera i campionati studenteschi di latino della comunità europea, a Magonza. Poi ero stato selezionato per i test d’ingresso alla Normale di Pisa, e li avevo superati. Ma non avevo ancor deciso il mio futuro. Ero attirato sia dalle facoltà umanistiche che dalla ricerca scientifica. Così avevo accettato l’invito e l’ospitalità di Monsignor P, che dichiaratamente intendeva “traviarmi” verso una carriera di super-topo da Biblioteca Vaticana.

Sono passati più di trent’anni, ma ricordo ogni cosa di quelle giornate romane.  Ero spaventato dal potere della sua mente, attirato dal suo sguardo, dalla voce, dalle mani. Doveva avere più di cinquant’anni, nonostante l’aspetto da quarantenne.

«Ti condurrò alla porta stretta», mi disse nel retro di quella libreria da preti. Scelse per me una decina di volumi e alcuni opuscoli, e nel consegnarmeli mi congedò così: «Hodie demotica, cras ieratica». L’indomani, pensai, mi avrebbe portato nella Biblioteca Vaticana.

Invece mi portò fuori Roma, alle Catacombe. Era il tramonto, gli ultimi turisti stavano uscendo. Il custode gli consegnò le chiavi e se ne andò.  «Seguimi», disse, e ci inoltrammo nei cunicoli. Non ero molto lucido. Avevo dormito pochissimo, avendo letto tutta la selezione “demotica”, con “la verità sui più noti segreti della Chiesa”:  vangeli apocrifi, rotoli del Mar Morto, donazione di Costantino e riunioni mistico-orgiastiche dei primi cristiani. Ero pronto a tenere una dissertazione sulla capacità della Chiesa di falsificare fatti, parole, testi, documenti relativi alla sua stessa storia.

Camminammo alcuni minuti, facendo diverse svolte, chiudendoci alle spalle diversi cancelli. Infine ci ritrovammo in una camera cubica, scavata nel tufo, simile a una tomba etrusca, con giacigli di pietra, sui quali erano posati eleganti cuscini damascati.

«Guarda» disse, accendendo un faretto, e dirigendolo sulle pareti.

* * *

Sette porte strette erano incise nella roccia, istoriate da figurine scurrili in stile pompeiano e da iscrizioni in gran parte abrase. Facilmente decifrabili, i nomi delle sette “porte strette”: partum, basium, fellatio, cunnilingus, penetratio, inculatio, dissolutio. Ripetuta in ogni porta: effundete per strictam ianuam intrare. Ricordo dei frammenti: cum tumida labia tibi adferentes in spatio alitus (il bacio);  verga virescit liquente vagina (la penetrazione) deinde infimo ano anelans contra naturam pulseris usque conculcata membra per idem motum spasimantes (si capisce).

«Avanti, mio giovane amico, aspetto un’ipotesi!»

Il mio cervello girava a mille. Di getto, dissi: «Sappiamo che tra i primi cristiani c’erano patrizi viziati, in cerca di svaghi erotico-religiosi… questo aspetto orgiastico, scompare in seguito alle persecuzioni: l’eros è bandito, e quando poi i padri della chiesa “creano” i vangeli, ogni riferimento sessuale viene bollato come apocrifo, oppure purificato: è il caso della porta stretta, in origine orifizio corporale, in seguito astratta porta della virtù.»

«Ottima sintesi! Ma la porta stretta è più di un orifizio: è l’orgasmo. Tutte le sette porte, compresa la nascita e la morte, sono esperienze d’orgasmo.»

Monsignor P continuò così: « Avevo la tua età, mio giovane amico, quando conobbi Andrè Gide. Prima de “La porta stretta” aveva scritto “L’immoralista”. Poi avrebbe scritto “I sotterranei del Vaticano”. E infine “I falsari”. Fu Monsignor T a condurlo qui, dove ora siamo noi. Era il 1947. L’anno in cui ebbe il premio Nobel. »

Spiegò che Monsignor T e Gide decenni prima lo avevano abbracciato e baciato al modo dei Templari, a suggellare l’affidamento del segreto della porta stretta.

«E adesso anche tu sai», concluse, e aprì le braccia verso di me. Mi cinse delicatamente le spalle, mi sfiorò con le labbra il volto, quindi mi strinse a sé…

La cosa più spaventosa, nel rendermi conto dell’approccio sessuale, fu la delusione spirituale. Ricordo anche un istante di paura, animalesca, nel chiedermi se la mia forza fisica potesse reggere la sua. Ma non ci fu alcuna violenza.

«Un segreto tra me e te. Pensi di poterlo tenere?», disse.

«Si», risposi. Quella sera stessa raccolsi le mie cose, andai alla Stazione Termini, tornai in Lombardia e  diventai architetto. Non vidi mai più Monsignor P.

* * *

Nella primavera dello scorso anno, leggo la notizia della sua morte. D’impulso decido, parto, vado al funerale. In treno inizio a mettere su carta appunti, ricordi. Nel corso della cerimonia funebre, un volto che conosco, ma non riconosco, mi colpisce, due file avanti, di lato. Comincio a osservarlo. Anziano, il volto un intrico di rughe, il corpo massiccio, un vero etrusco. E capisco, ricordo. Molti anni prima avevo diretto i lavori di restauro di una pieve in Toscana, lui era uno degli artigiani. Grande scalpellino, bottega da generazioni, i nonni famosi tombaroli. Lo stavo guardando quando l’officiante recitò “la porta stretta della virtù, del coraggio, della verità, anche a costo dello scandalo, del sacrificio e del martirio”: e vidi la sua smorfia sardonica. Dopo la funzione lo avvicinai.

«Abbiamo fatto diversi lavori per Monsignore. I lavori di “riproduzione” li faceva mio padre, lasciandomi i trattamenti di rifinitura per invecchiare il risultato»

«Iscrizioni di carattere erotico, in stile pompeiano?»

Qualcosa balenò nel suo sguardò impassibile, da etrusco.

Disse: «In certi casi ci pagava molto bene, ma con l’impegno alla riservatezza.»

Seguii il corteo al camposanto. Fu sepolto nelle nuda terra. E mentre ritiravano le funi, un flashback, James Joyce, l’Ulisse: le corde dei becchini come il cordone ombelicale, ecco la porta stretta, il mistero da cui proveniamo, e a cui torneremo. E come un sms, mi arrivano nella memoria frammenti dell’ultima porta (dissolutio – regressio ad terrae matris uterum) e della prima: partum –  quasi ex utero eiectum in vitam penetris per abruptam vocem.

Ecco la “morale stretta” di questa storia: anche in un falso, scritto da un uomo falso, con cuore falso, in una lingua morta, puoi trovare autentica poesia.

(Leone Belotti, La porta stretta, ArtApp n.17 , rivista di “arte, cultura, nuovi appetiti”,  http://www.artapp.it   https://www.facebook.com/artapp/ )

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