Amore e Psiche al tempo di WhatsApp

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Niente telefonate. Tramite WhatsApp, fin dal loro primo incontro si mandano un unico messaggio: Solito posto, solita ora? E la risposta invariabilmente è: Si.

Quando si vedono, non si perdono in domande, discorsi, richieste, promesse, attese. Passano tutto il loro tempo, che non è mai abbastanza, facendo l’amore. Una pura storia d’amore, solo d’amore.

Ma una mattina Psiche, svegliandosi dopo aver sognato i suoi baci, rimirando l’immagine di lui su WhatsApp, gli manda un messaggio che è un ordine, o forse una preghiera: Dimmi che mi ami.

Quando lo riceve, lui diventa di marmo. Non risponde subito. Lascia passare l’intera giornata. Sul far della sera, su WhatsApp, le manda un lungo messaggio. Te lo dice il mio corpo quanto ti amo, quanto ti voglio. Le parole e le aspettative rovinano tutto. Ogni cosa finisce. La malinconia fa parte di me, fa parte dell’amore. Non posso prometterti fedeltà.

Psiche lo rilegge più volte, poi spegne il telefono. Ora anche lei è di marmo. Si guarda allo specchio. Viveva sulle ali di un sogno d’amore. Si ritrova sola in una stanza densa di consapevolezza e malinconia. Un velo plumbeo le avvolge il cuore.

Lo stato d’innocenza è perduto. Il pensiero di lui non le dà più gioia luminosa, ma infinito dolore. Le sue parole – ogni cosa finisce, non posso prometterti fedeltà –  le risuonano come campane funebri, mentre le parole che bramava come acqua nel deserto – ti amo, amo solo te! – non arriveranno mai.

Non dorme. Tra di loro, tra le loro labbra, ci sarà sempre una distanza, una piccola distanza incolmabile. Il cuore le suggerisce il messaggio che gli manderà domani, l’ultimo messaggio. Hai ragione. Il nostro amore è stato bellissimo. Addio!

Quando la mattina accende il telefono per mandarglielo, per prima cosa vede che l’icona di WhatsApp brilla, e nella chat trova tre messaggi che lui le ha inviato nella notte: Hai ragione tu, amore mio. Vincerò ogni paura. Ti amo. Con le dita tremanti, e il cuore in tumulto, gli risponde: basta stronzate e messaggi inutili, vediamoci al solito posto.

(photo, Amore e Psiche, Villa Carlotta)

 

Una settimana senza telefono

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Domenica sera. Esci dal cinema, attraversi la piazza, scambi due parole con gli amici, mani in tasca, cerchi le sigarette, e non trovi il telefono. Dapprima pensi di averlo lasciato a casa. Poi ti ricordi il gesto, entrando al cinema, di spegnere il telefono. Torni sui tuoi passi. Ma il cinema ormai è chiuso. Per la terza volta ti palpi tutte le tasche, pantaloni, giacca. Ma sai benissimo che era nella tasca destra dei pantaloni. Deve essere successo quando ti affossavi nella poltrona, con le ginocchia sulla spalliera dei sedili davanti. Ti dici ok, è solo per stasera, domani lo ritrovo, certamente lo ritrovo, con ogni probabilità lo ritrovo.

La tua coscienza, comunque, nell’andare a letto, ti dice: sei un cretino. Perché non hai mai copiato da qualche parte tutti i tuoi numeri di telefono? Sei sempre stato un retrogrado. E ogni volta che hai perso il telefono hai cambiato vita, persone, lavori, contatti, tecnologia. Solo quando tutti hanno la tecnologia innovativa, ti adegui. Il Signore forse ti sta dicendo che devi entrare nel mondo degli sfioramenti digitali, del touch e della connessione permanente. Finita l’epoca del piccolo Nokia scollegato dal mondo.

Lunedi. In rebus adversis. La tua espressione preferita: nelle avversità, quando le cose si fanno dure, esce il vir, il centurione romano, calmo, forte, combattivo, tenace. Puoi farcela. Ma devi combattere. Uscire dalla testuggine. Sfoderare il gladio. Essere pronto a tutto. Piano A e piano B, dogma e pragma, teoria e prassi, strategia e tattica.

Mandi una mail al cinema, telefoni, aspetti l’ora di apertura, ti stupisci della gente che arriva al cine mezz’ora prima. Pensi di parlare con la ragazza dai capelli neri che c’era alla cassa. Invece c’è un ragazzo con gli occhiali. Molto gentile. Dice che non è stato trovato niente, ti fa parlare al telefono con il signore che la mattina fa le pulizie, poi ti accompagna in sala, ti lascia cercare, ti spiega di guardare nei sedili, a volte gli oggetti si incastrano. Niente.

Piano B: evidentemente l’ha preso qualcuno, l’ha trovato e l’ha preso, forse un ragazzino, un ragazzotto. Ma il telefonino in sé non vale niente. Torni a casa, prepari un volantino, prometti una ricompensa, torno al cine. Il ragazzo alla cassa accetta di esporlo sulle vetrate.

Martedì. Coltivare la speranza. Il telefono per noi è Dio, è la forma di vita religiosa costitutiva del nostro esistere. Te ne rendi conto a partire dal secondo giorno.  Per tutto il giorno ti ripeti di “coltivare la speranza”. La sera vai al cine con le migliori aspettative. Niente. Torni a casa.

Vai a letto presto. Non riesci a dormire. A mezzanotte ti arrendi, ti ribelli, sono le gambe a darti la mossa, hai un’idea, ti alzi dal letto, hai un brivido di freddo, ti vesti con quello che trovi. Fai passare tutti i pantaloni e i giubbotti in cerca di monete, infili una berretta, esci, scendi in strada, non c’è in giro un’anima, attraversi la strada, la vedi all’angolo della piazza, la cabina del telefono. Emozionato, entri, sollevi la cornetta, inserisci le monete, un fiotto di ricordi dai tempi della Sip, cabine gialle, pannelli traforati, i gettoni, il disco rotante nel quale inserivi il dito, e ti sembra innaturale tenere in mano una cornetta, grossa, pesante, col cordone ombelicale… Linea libera, nervosamente ti accendi una sigaretta, poi la voce appare nelle tue orecchie, ti vive in corpo, il mondo non esiste più, sei altrove con “l’altro da te”, sei isolato, proiettato, parli, ascolti, esisti, cinque euro in cinque minuti, ma sei al settimo cielo.

Esci dalla cabina, e noti i tre marocchini che ti stanno guardando dalla panchina. Anche loro hanno sentito i tuoi euro sonanti ingoiati in pochi minuti. Sorridi. E quello brutto, cicatrici e tatuaggi, ti dice: «Tipo, te lo presto io il telefono, se non chiami in Romania».

Mercoledì. La vita va avanti. Cominci a pensare di poter vivere così. Non sei morto. Le persone non ti guardano male, o non più del solito. Sei quasi contento, sai che alla sera puoi scendere alla cabina a telefonare. Per tutto il giorno una sicurezza crescente, hai quasi la certezza che lo ritroverai, devi solo aspettare l’ora di cena, l’apertura del cine.

Ti rechi fiducioso. Ti chiedi chi ci sarà alla cassa del cine, la ragazza dai capelli neri, o il ragazzo con gli occhiali? Invece trovi un ragazzo con i capelli ricci. Anche lui molto gentile, e partecipe del tuo problema. Ma deve dirti che purtroppo ancora nessuno ha ritrovato il tuo telefonino. Affranto, attraversi la piazza. Entri nella cabina. Ma le tue monete vengono rifiutate. L’apparecchio è fuori uso.

Piove. Sei stanco. Hai davanti a te la prospettiva di girare la città in bici sotto la pioggia, cercando una cabina funzionante. Ma quello che ti atterrisce è un coacervo di presentimenti negativi, ti figuri di trovare la linea occupata, o la segreteria, o il silenzio di una mancata risposta, sapendo che non verrai richiamato…

Fai un bel respiro, e torni a casa. Vai a letto, e non dormi.

Cominci a pensare a tutte le persone che non riuscirai più a contattare. Persone che vivono in altre città, in altri paesi. A volte non sai nemmeno il loro cognome. Ma sono persone per te importanti. Che un giorno potrebbero cercarti, e tu non gli risponderai, perché non rispondi mai ai numeri che non conosci. Persone a cui un giorno hai fatto una promessa, che ora non potrai mantenere. Hai la sensazione di aver perduto un patrimonio che non ha prezzo.

Giovedì. Il giorno delle tentazioni. Le tentazioni ti arrivano dai social network. In piazza, sulla panchina, col portatile e la wifi, cominci a entrare in facebook per contattare le persone cui tieni, e per la prima volta hai la percezione dell’esclusione, e in preda a gelosie infantili, saltelli come uno spione da un profilo all’altro, guardi i like, chi like chi, guardi i cuoricini, ti trasformi in uno stalker, perdi il senso del tempo, retrocedi nelle bacheche altrui per mesi in cerca di nomi, e ti tornano in mente i discorsi del tuo amico programmatore, quando ti spiegava il funzionamento diabolico dei social network, un’intelligenza artificiale  muove le nostre relazioni umane, incredibilmente abile nell’insinuarsi nella tua vita, predisponendoti contatti sulla base delle tue ricerche, dei tuoi acquisti, delle parole che scrivi, e di milioni di altri dati.

Un sentimento maligno, diabolico ti spinge a continuare a cercare, non sai nemmeno tu cosa. Ti rendi conto che sono passate due ore, hai le gambe intorpidite, il mal di testa, la nausea, e dopo aver guardato nelle vite degli altri, e soprattutto delle persone cui tieni, senti di non essere stato mai così solo. Capisci che questa voluptas d’informazioni sulla vita social delle persone della tua vita è il vero demonio. Giuri a te stesso, al Signore, e agli Antichi Maestri che mai più cadrai in questa tentazione.

Venerdì. La consapevolezza della perdita. Senza telefono, stai vivendo una traiettoria psicologica nuova, un arco spirituale, e c’è una vita interiore che si riaccende in tutta la pienezza di ansia, angoscia, attesa, e continuo confronto con la propria finitezza. A un certo punto la paura prevale, la fiducia è morta. Non troverai più il tuo telefonino, il tuo passato, e tutte quelle persone cui tieni. La paura ha una sua temperatura, un suo raffreddamento nell’uscire dall’irrazionale, per diventare razionale e reale. Davanti a te vedi la tomba di Hegel, e capisci che è finita. Hai la certezza della perdita. Ti devi arrendere, devi accettare. Ripartire dalla finitezza, dal tuo corpo, i sensi, le uniche app che possiedi veramente, il mal di pancia, la fame, il freddo, la nausea. Queste cose non ti verranno tolte.

Ti prepari da mangiare, fai quello che fai normalmente, non esci, lavori, ma ti sembra di non esistere. Quello che ti faceva esistere era il messaggino di mezzanotte, o quelle due parole di tranquillità scambiate con una persona cara, o quei pochi minuti concitati con una voce che ami, a occhi chiusi…

Sabato. I tre tentativi. Ormai è deciso. Scendi nel negozio di elettrodomestici sotto casa, dove hai comprato la lavatrice. Per mezz’ora ascolti il commesso che ti spiega pro e contro dei diversi modelli e dei vari sistemi operativi. Poi scopri che non sono convenzionati con la tua compagnia telefonica. Da sei anni, ti dice. Su Internet continuano a figurare come punto convenzionato, hanno avvisato più volte, ma niente. Ti spiega dove andare.

Nel punto vendita in centro, vedi una piccola folla di persone in attesa, ognuno con la propria ansia, come nella sala d’attesa di un ambulatorio medico. Potrebbero volerci delle ore.

Vai al centro commerciale. Anche qui piccola folla. Ma c’è il biglietto per prenotare il tuo turno. Quando arriva il tuo turno, spieghi i tuoi problemi: telefono perso, comprare novo telefono. La ragazza inizia a digitare i tuoi dati, e il sistema informatico va in tilt. Succede a volte, ti dice, bisogna aspettare. Qualche minuto, al massimo mezz’ora. Il suo collega sta già parlando con il tecnico. Lo prendi come un segno, dici che hai fretta, tornerai più tardi, te ne vai, torni a casa. Forse devi, puoi stare senza telefono. Passare le serate, le nottate a scrivere, senza un solo contatto.

Domenica. Una vita diversa. Ti svegli la mattina immaginando una vita diversa, libero dalle tentazioni, dalle paure, dai bisogni. Sali in città alta, visiti Palazzo Terzi in modalità fantasmagorica. La fantasmagoria è la scienza, la tecnica per evocare gli spiriti dei defunti, farli apparire, farli rivivere dentro e fuori di te. Il nome che inserisci nella psiche/memoria, attivando anche il lato emotivo, è Henry Beyle, meglio noto come Stendhal. Per te Stendhal – attenzione! – è il nonno di Ken Follet. Ne “La Certosa di Parma” ci sono già “I pilastri della terra”. Ti senti, e lo evochi, come Fabrizio del Dongo, imprigionato nella Torre di Parma. Tu sai cos’è il sesso con la contessa Sanseverino, mora, procace, perversa; e l’amore con l’altra, la giovane bionda, esile, eterea, languida.

Con questa compagnia, quasi senza deciderlo, invece di tornare a casa, entri in autostrada. Dopo meno di due ore esci a Parma. Sulle orme di Stendhal, vuoi trovare il luogo che nel romanzo è chiamato “la Torre di Parma”, e deve trattarsi di uno dei numerosi castelli nei pressi della città, ma nessuno ha mai saputo dire con certezza quale. Sino ad oggi!

Non entri in città, ti dirigi verso gli Appennini, nella zona dei castelli. Non hai navigatore, né mappe, né telefono, ma conosci la zona, e soprattutto hai in macchina con te la “compagnia Stendhal”, che ti ispirerà la direzione, e ti porterà a destinazione. Osservi le linee sinuose delle colline che annunciano gli Appennini. Accanto a te, immagini una donna bellissima, dolce ed attraente. Le parli, le tocchi le gambe. Profitti dei semafori per baciarla con passione. Ti senti bene. Cazzo, ti dici: forse è questo che intendeva la Tamaro.

Il letto di un fiume in secca, un dolce pendio, con un piccolo cimitero circondato da un vigneto (la vite e la morte!), e alle spalle del vigneto, su un’altura, in posizione dominante, bello e preciso come un disegno sul vocabolario, ecco il castello che cercavi.

Con la coda dell’occhio, un cartello: birra artigianale. Freni, accosti, un cancello, il vigneto, un capannone, un piccolo piazzale, un tendone con dentro un tavolone, e una decina di persone.

Pensavi fosse un birreria. Meglio, è un birrificio. “Siediti con noi, stiamo festeggiando mia figlia che è incinta”. Ti danno da bere una birra cruda, non pastorizzata, buonissima. Brasato di cinghiale, salumi, formaggi, e poi torta alla birra. Ritrovi lo spirito del birrificio, il micro-birrificio familiare, una coppia di cinquantenni, i figli e gli amici dei figli. Un idillio, e glielo dici, e allora la “matrona” di casa ti guarda negli occhi, e confessa: “Non è tutto così bello come appare, ne abbiamo di problemi, anche grossi”.

Sulla via del ritorno, ti fermi a Brescia, fai un giro al Cimitero Monumentale, osservi il muro, la bacheca con le migliaia di profili del più grande social-network del mondo, l’aldilà. Ti inchiodi davanti  al sacrario dei “ragazzi del 99”, un’intera generazione di minorenni mandata a morire nella guerra del 1915-18, imberbi, costretti come vermi in una trincea, e poi gettati davanti ai cannoni, o ai gas, o ai lanciafiamme, a fare una morte atroce, e senza motivo, senza aver mai provato le gioie dell’amore.

Cala la notte, il cimitero chiude. Noi non esistiamo, siamo profili nelle bacheche altrui, numeri in agende altrui, lapidi anonime in cimiteri d’altre città. Se perdiamo la fede, e viviamo senza fede, senza il feticcio né il culto telefonico, ci accorgiamo che nel giro di pochi giorni il nostro vicinato relazionale diventa irraggiungibile. Il prossimo non ci parla più, l’amico è perduto, i gruppi ci estromettono.

La notte, a casa, una folla di spiriti inquieti si agita attorno al tuo capezzale. Te lo ripete in coro: non puoi lavorare, avere amici, relazioni in questo mondo senza avere un telefono. Puoi farti le domeniche col telefono spento. Ma domani è Lunedì.

Lunedi. Abramo e Isacco. Ti svegli, scendi al bar, e mentre leggi la Gazzetta ti viene in mente Abramo, messo alla prova dal Dio punitivo. Devi sacrificare il tuo bambino, la tua arroganza, la tua libertà, la tua privacy, i tuoi contatti, la tua vita riservata, e abbracciare la normalità, essere come gli altri, dotarti di uno smart, essere sempre raggiungibile e mailabile.

Dopo aver resistito una settimana, il lunedì pomeriggio ti consegni, ti presenti al tempio commerciale, e ti metti nelle mani degli operatori della compagnia telefonica. Ne esci psicologicamente e politicamente violentato, ma con la nuova tecnologia, pronto ad affrontare una nuova vita.

Dopo mezz’ora, mentre stai imparando ad aprire le mail, te ne arriva una dal cinema dell’oratorio: i bambini hanno trovato il telefonino.

I bambini della Montessori, stamattina, otto giorni dopo, hanno ritrovato il tuo telefonino nella sala del cinema, dopo la proiezione di Heidi, e l’hanno consegnato al ragazzo alla cassa.

A questi bambini che hanno ritrovato il tuo telefonino, e col tuo telefonino la tua dote di umanità che credevi ormai perduta, vorresti idealmente conferire il titolo di bambini benemeriti.

Grazie bambini, grazie al vostro gesto, hai  ritrovato non solo il telefonino, ma la fede nel prossimo, in te stesso, nel futuro… e nei bambini! (che ha sempre detestato).

E perciò ti impegni a essere buono, umile, a non cadere in tentazione, a resistere ai vizi e alle paure, a mantenere le promesse, a essere raggiungibile dalle persone cui sei caro o che potrebbero avere bisogno di te, ad aver cura degli amici e rispetto per la vite degli altri.

Perdi il telefono, e ritrovi te stesso. Una settimana senza telefono, e ritrovi la tua umanità originaria, la condizione umana, l’essere soli al mondo, appesi a un corpo e cinque sensi, con un’idea, una passione o una voglia di anima.

E questa umanità-solitudine ti spinge a cercare realmente l’altro, l’umanità degli altri.

(Immagine: sacrario militare, Cimitero Vantiniano di Brescia) ph. by Michele Perletti http://portraitreportage.weebly.com

 

 

la gonna della nonna

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Lei non era mia nonna, era molto di più. Ma arriva un bel giorno in cui qualcuno svuotando un armadio ti dice: “forse questa la volevi tu…?”. Certo. Un pezzo di storia. Un capo d’abbigliamento speciale, una gonna in jersey degli  anni ‘40 color blu notte.

Nella mia follia di gonne così ne volevo almeno 3. Tutte uguali.  Ma non è stato possibile. Vediamo come e perché. Lei, che non era mia nonna è nata negli anni ’20, con la corporatura esile e con le ossa a punta.  Educata in Italia, vissuta in Inghilterra, cresciuta tra i bombardamenti e il thè delle cinque. Una “signorina” minuta di 80 anni, ma sempre una signorina, così la si poteva percepire. Così la percepivo io. E sentivo.

Deve esserci voluto del tempo e un gran dinamismo di storie per dare al suo sguardo quell’impronta unica di azzurro. Pensavo.  Come posso indossare una gonna forgiata su misura da un corpo che non sono io? Osservavo. Ma, cosa aveva di così speciale quella Gonna in jersey di cotone? Perché non è duplicabile? Iniziano le ricerche.

Per cominciare quel jersey di cotone è introvabile da decenni, le macchine per fabbricarlo sono state tutte svendute in Romania o chissà dove. Anche trovata la stoffa da fondi di magazzino, quello che non si trova è il colore. Un punto di blu scuro al limite del nero, davvero  introvabile. Senza quel blu niente divinità. Si, perché il blu scuro tinta unita richiama sempre qualcosa di divino, in particolare se  si esclude dal blu tutto ciò che potrebbe dar luogo a un’impressione di viola o di verde. Dicevamo, senza quel blu niente divinità.

Poi c’è il problema della linea, semi modellata ma morbida, scivolata ma anche secca, difficile da replicare anche da mani esperte.  E la struttura?  Due pieghe abbassate al punto giusto delle anche, e una cinturina a marcare la vita alta e stretta. Si potrà copiare su di me? Pensavo. Nell’insieme l’aspetto a trapezio così  vicino a certi abiti destrutturati  da stilista orientale è inarrivabile oggi.

Ci vogliono altre mani a creare un gonna così. Ma non cedo e tento la clonazione con i mezzi che ho. Un’altra sarta, un’altra stoffa e un altro monaco che tenta di farsi  l’abito.  Eh si!…non è l’abito a fare il monaco, è che ogni monaco si fa un abito diverso. Infatti: il risultato è la stessa gonna che è uguale ma diversa. Il risultato è un corpo 2.0 che tenta di muoversi in una gonna pensata per altri movimenti, altri atteggiamenti, altre storie. Questa è la storia.

(testo e photo by Alessandra Corti, a.danzarelunare@gmail.com )

 

 

il miracolo della spina di San Giovanni Bianco

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Posso confermarlo, a San Giovanni Bianco accadono miracoli in serie.

Stamattina all’alba, come da prescrizione, mi sono recato all’Ospedale di San Giovanni Bianco per un’operazione ortopedica (rimuovere un cavo metallico dalla rotula).

Primo miracolo: l’apparizione di un’infermiera bionda con gli occhi azzurri, efficiente e gentile.

Secondo miracolo: l’apparizione di un giovanotto non agitato non antipatico non infelice non borioso (il chirurgo) che fa un briefing preciso con noi pazienti prima di tagliarci.

Terzo miracolo: l’infermiera suddetta mi chiede di spogliarmi, sdraiarmi a pancia in giù e aprire le gambe. Quando mi giro a guardare che intenzione abbia vedo che ha un rasoio in mano, e una bacinella metallica, nella quale già immagino i miei preziosi beni. Mi deve depilare. L’acqua è piacevolmente tiepida. Le chiedo: com’è questa storia della spina?

E lei mi racconta: “mia nonna l’aveva vista nel 1932, me lo diceva sempre quando ero bambina, e adesso è successo! Ieri sera mi telefonano, mi dicono che sta succedendo qualcosa, la spina fiorisce, allora chiamo mio marito, che è capoturno e non ha mai fatto un giorno di ferie, e gli dico la spina sta fiorendo, vieni giù in chiesa o non sei più mio marito; poi chiamo mia figlia che era con le amiche, le dico vieni giù in chiesa o non sei più mi figlia, tutta la notte a vegliare in chiesa con tutta la famiglia, un miracolo, e la spina è fiorita”

Quarto miracolo: il chirurgo toglie la spina che ho nel ginocchio, e per la prima volta dopo nove mesi cammino senza tutori, stampelle, viti, cavi metallici.

L’unico miracolo che è mancato, è la fede del nostro vescovo, che in merito alla miracolosa fioritura ha sulle prime dichiarato (tanto per cambiare) che occorre prudenza in queste cose. E anche lui, come un qualsiasi amministratore delegato o conduttore televisivo, si è affidato al parere degli esperti.

Ma io, che ero sul posto, posso testimoniare che a San Giovanni Bianco non solo è fiorita la spina, ma è stata finalmente tolta la spina dalla zampa al Leone qui scrivente.

Così, appena uscito, sono andato a bere una birra alla spina.

 

L’Eco della rosa

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Opera aperta, sugli specchi, il superuomo di massa, apocalittici e integrati, ma anche il nome della rosa;

la legittimazione a studiare e capire e anche a praticare la cultura di massa, la letteratura di genere, i gialli, i rosa, la fantasy, i fumetti, la televisione, la pubblicità, il cinema, la musica pop;

per la mia generazione, e per me come per molti in modo decisivo, Eco è stato uno dei tre o quattro maestri di pensiero che hanno indirizzato gli studi, la forma mentis, e anche le “avventure” intellettuali e professionali,

il modo di fare ricerca e sperimentazione, con curiosità, passione, coraggio, ma anche con gioia, col sorriso, con divertimento, apertura, vitalità,

ha rilanciato la figura dell’umanista, dell’intellettuale multi-sapio nell’epoca contemporanea, nel nuovo medioevo del villaggio globale, rendendola una figura eccitante, un avventuriero, uno 007 dello spirito, con le sembianze di Sean Connery,

ho scoperto Eco intorno ai vent’anni, leggendo tutti i suoi libri in modo forsennato, e sono subito diventato un nipotino di Eco,

come nipotino di Eco, nella Milano da bere, ho cominciato a fare il copy writer moda e design da un lato, e lo scrittore di harmony dall’altro, e sempre come copertura per fare ricerche, indagini nei sotterranei dei mass media, nel sottobosco del sistema editoria/pubblicità,

e in realtà tutta la passione e l’impegno, la curiosità e l’ambizione, avevano l’unico scopo di attirare le ragazze, ora lo posso dire, io ho fatto lettere per quello,

quando più di una top girl – a lettere ce n’erano tante –  mi ha candidamente ammesso che si sarebbe concessa con grande piacere a un re della lingua come Umberto Eco, notoriamente basso, grasso, pelato – come me, in pratica – allora ho cominciato a leggere Eco, e a diventare un nipotino di Eco,

la cosa ha funzionato a meraviglia, e di tutte le cose belle e nobili che Eco ha portato nella vita dei suoi nipotini, oggi, nel salutarlo, lo ringrazio sentitamente di questa,

e sono certo di non essere l’unico,

ricordiamoci colleghi che prima di Eco vigeva il dogma “lasciamo le donne belle agli uomini senza fantasia”

è stato Eco a renderci consapevoli che, parafrasando Onassis: “tutti i libri del mondo non servirebbero a niente, se non esistessero le belle donne: anzi, non sarebbero nemmeno stati scritti”.

una donna non si tocca nemmeno con una rosa, ma si lascia prendere dal nome della rosa,

poi le ragazze, le donne passano, e resta l’amore per il sapere,

il segreto della Poetica perduta è tutto qui.

 

ieri sera sono uscito con David Bowie, Franz Kafka, Lady Stardust e altri 4 fantasmi più vecchi

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In morte di David Bowie, ho rimesso in funzione un vecchio giradischi, e ascoltato tutta la sera quel vecchio long playing, facendo fuori una bottiglia di vodka, davanti alla mia libreria,

sulle note della signorina polvere di stelle, ho riaperto i Dubliners di Joyce, ricordi David quel racconto intitolato “polvere”?

seguendo la polvere, mi sono ritrovato tra le mani la Bibbia, il Qoelet, polvere siamo e polvere torneremo (a questo punto ci sarebbe voluta la polverina bianca), tutto è vanità, vanità delle vanità,

e poi Change, la fantastica c c c c c c change, che mi fa chiudere di scatto il capitolo polvere, e mi fa venir giù dalla libreria il mio buon Franz, vecchia Europa, Mitteleuropa, con la sua Metamorfosi, è così David, tutto cambia, tutto è change, tutto è metamorfosi, un momento sei Dio, un momento dopo sei uno scarafaggio,

ormai ubriaco, in fase allucinatoria, eccomi a passeggio per Bergamo Centro con David e Franz, e curiosamente mi rendo conto di un fatto, grazie a Franz, alla sua passione per la pavimentazione stradale

(non avrei mai potuto scrivere il Castello senza l’eco dei miei passi sul vecchio lastricato praghese),

che mi notare come in più vie urbane, Borgo Palazzo, S.Tomaso, viale Roma, cioè quelle vie che dovrebbero essere il cardine della città pedonale, il lastricato storico, che siano cubetti di porfido o pietre serene, è ricoperto da una colata nero-scarafaggio di asfalto-catrame,

è una copertura provvisoria, dico,

e da quanto, mi chiede Franz, da anni, rispondo,

e a cosa serve, mi chiede, non lo so, rispondo,

e penso: tanti discorsi sulla smart city, sulla città d’arte, e non sappiamo nemmeno valorizzare la bellezza delle vie lastricate con pietra naturale.

Cambio scena, cambio canzone,

ci ritroviamo in un privè tra l’inferno e il purgatorio (è la Domus, in piazza Dante), con me, David e Franz adesso c’è il vecchio Ovidio, con le sue Metamorfosi in due volumi BUR,

arrivano le birre, le mediocri birre Otus, e io al primo sorso penso alla birra buona, e dico: datemi una mano, ragazzi, devo trovare un filo conduttore per il prossimo numero dell’Osservatore Elaviano (che è il fogliettone di letteratura luppolacea del birrificio Elav);

qual è il tuo problema, mi ha chiesto David, e io ho spiegato: nel prossimo numero dell’Osservatore Elaviano pubblicheremo 40 racconti brevi “raccolti” durante la Yule Fest Elav di fine anno,

i “racconti raccolti” sono il frutto di una performances che si chiama PWS, pub writing session, cioè: al pub raccontami una storia e io ne farò un racconto da pubblicare al pub (queste PWS le facciamo in squadra, con i writer del magazine CTRL)

bene, questi 40 racconti sono divisi in quattro temi/colore: bianco, storie fantasy; rosso, storie di gelosia; verde, storie di gioco e di sport; nero, storie/amarcord di persone che ci hanno lasciato;

quindi mi sono rivolto a Ovidio: mi serve un tema mitologico da mettere in copertina, mettiamo sempre figure mitologiche in copertina;

scusa, mi ha detto Kafka, ma non era meglio se prima stabilivi i personaggi mitologici guida, da mettere in copertina, e in base a quelli poi stabilivi i temi delle storie?

Ma David guardandomi e sorridendo ha detto: è un italiano!

Ho capito, ha risposto Kafka, ha bevuto la sua acqua, e poi ha dichiarato: il filo conduttore che stai cercando è il filo di Arianna.

E David: io sono Teseo, il Teseo bianco

A quel punto Ovidio, gasatissimo, è schizzato in piedi con le sue Metamorfosi tra le mani: Teseo rappresenta il bianco fantasy, se volete vi racconto tutte le sue imprese, ne ha fatte di tutti i colori, e tutte di genere fantastico, e se metti insieme tutti i colori ti viene il bianco, giusto?

David ha esclamato: the famous WhiteTeseo!

Poi, quasi cantando, sottovoce (traduco a braccio):

Teseo parte da Atene e veleggia per Creta con la mission Minotauro Killing,

deve entrare nel Labirinto e ammazzare il mostro mezzo uomo e mezzo toro;

ma ecco che appena arrivato a Creta si innamora della rossa Arianna, figlia di Minosse King,

lei ci sta, e se la godono un po’; lei ci sta, e se la godono un po’ (ritornello)

Dopo il ritornello, ecco l’acuto in puro stile bowie: Cazzo! La mission, devo andare a compiere la mission!

così Arianna gli dà un gomitolo di filo per poter entrare e uscire dal Labirinto senza perdersi;

al che David pare perdersi nel suo mondo, e resta incantato.

E allora Ovidio prende la parola e continua la storia: Teseo va, ammazza il Minotauro, torna…

David: ma ecco Arianna sola sulla spiaggia, ed ecco arrivare un gruppo di giovani atleti in festa, tra di loro come un principe c’è il giovane Bacco… Ovidio: e siamo al verde Bacco, il giocoso Bacco, il campestre Bacco…

Franz: si, e siamo al rosso gelosia, Arianna allegra e lasciva tra le braccia di Bacco, un palestrato beone piacione fannullone, senza cervello né carattere, tutto l’opposto di te, David, il coraggioso e creativo Teseo, che te ne torni ad Atene…

Ovidio: e sei talmente depresso che ti dimentichi di issare la vela bianca, e tuo padre Egeo, vedendo dalla torre arrivare la tua nave con la vela nera, deduce che sei morto, e per la disperazione si butta in mare, in quel mare che poi da lui prenderà nome di Egeo,

Franz: e siamo al nero-memory, che è poi il nero Minotauro.

A quel punto avevo i miei 4 personaggi mitologici di copertina, Teseo, Arianna, Bacco e il Minotauro, che rappresentano la fantasia, la passione, il gioco e la morte, che sono i temi dei racconti, abbinati ai colori bianco, rosso, verde e nero.

Un attimo dopo i miei amici stavano scomparendo e io mi risvegliavo davanti alla mia libreria.

Grazie amici, non so come ringraziarvi!

Grazie David, per avermi fatto rivedere certi vecchi amici come Franz e Ovidio;

grazie Ovidio per avermi fatto conoscere i tuoi vecchissimi amici Minotauro, Teseo, Arianna e Bacco, che ricordavo vagamente;

e grazie Franz per esserti prestato ad aiutarmi a strutturare l’Osservatore Elaviano, che onore,

e grazie a Gianni Canali per questa foto fatta a fine serata (la sfilata di Arianna!)

e grazie anche agli amici in carne e ossa, per non rompermi troppo quando decido di fare serata in casa con gente che sarà anche morta, ma ha sempre tante cose interessanti da raccontare.

la settimana dello scrittore cottimista

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GeorgeSimenon2

abbiamo incontrato un vero scrittore cottimista, che ci ha concesso 3 minuti per 3 domande: 1) come si definisce  2) come lavora 3) cosa consiglia agli aspiranti scrittori cottimisti.

> Mi definisco un idealista, nel senso che come il piastrellista mette giù piastrelle, l’idealista deve mettere giù idee.

> Per farti capire come lavoro ti faccio la lista delle cose da fare / pagine da scrivere questa settimana, che ho stampata in testa:

10 pag. >  racconto-favola di natale per società multinazionale,

50 pag. > 5 racconti di birra-lett (gialla, rosa, rossa, nera, bianca)

80 pag. > raccolta racconti/testimonianze di imprenditori

100 pag. > foto-romanzo pocket per collezione moda

1 pag. > naming evento + testo invito x evento aziend nataliz x azienda n1

1 pag. > naming evento + testo invito x evento aziend nataliz x azienda n2

1 pag. > naming evento + testo invito x evento aziend nataliz x azienda n3

1 pag. > naming evento + testo invito x evento aziend nataliz x azienda n4

1 pag. > naming evento + testo invito x evento aziend nataliz x azienda n5

10 pag. > persone che in qls momento ti chiamano per chiederti “mi scrivi questa paginetta, grazie!” e riagganciano prima che tu riesca a dirgli di no.

TOT: prosaicamente, 255 pagine in 5gg, cioè programma Stakanowriter:

51 pag.  produz. min. giornaliera in 12-16h alla tastiera.

Premio di produzione orario: sigaretta.

Premio di produzione giornaliero: partita alla playstation.

Premio di produzione di qualità: una birra giù al pub.

L’avvertenza è questa: al pub non provare anche tu a lamentarti della dura giornata di lavoro come fanno tutti i tuoi amici, dal manovale al manager. Cominceranno a divertirsi e a prendere per il culo te e tutta la categoria dei “creativi”: non avete idea di cosa vuol dire lavorare, faticare, produrre! Vorrei farlo io il tuo lavoro! 

c’era una volta l’extracomunitario perfetto

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ForestWhite

c’era una volta l’extracomunitario perfetto, onesto, lavoratore, umile, silenzioso, integerrimo, casa e lavoro, mai una parola di troppo, mai un giorno di malattia, mai un lamento, e con gli occhi dolci, e quel sorriso tipico delle persone buone, pacifiche, quasi evangelico, nonostante la differenza di credo religioso,

questo tipo d’uomo benvoluto da tutti in realtà c’è ancora, e numericamente rappresenta la maggior parte degli extracomunitari: semplicemente non se ne parla, si parla solo di extracomunitari che scavalcano, traversano e crepano affogati o delinquono, spacciano e rubano;

non delle masse di extracomunitari “buoni” che vengono quotidianamente sfruttati, spennati, truffati, presi in giro dalle aziende e dalle istituzioni,

questa gran massa silenziosa di buoni e onesti – proprio come le famose masse contadine di una volta – ha una gran capacità di sopportazione, ma tuttavia non infinita, ciò che tendiamo a dimenticare,

ti riporto frammenti di una storia vera, non unica, ma esemplare di questo lato della situazione extracomunitari di cui non si parla mai, il lato buono.

Frammento 1, il lavoro:

prima al mio paese facevo il muratore, cominciato a fare questo lavoro da quando sono in Italia, dieci anni fa

lavoro nei supermercati, scarico i camion e carico gli scaffali, avanti e indietro dal magazzino, metto i prezzi,  controllo le scadenze, tengo tutto ordinato e sempre assortito,

e cerco di essere invisibile ai clienti, noi dobbiamo essere invisibili,

i primi anni avevo un direttore bergamasco, arrivava alla mattina alle sei insieme a noi, salutava tutti, si toglieva la giacca, diceva cominciamo, era come una gara a chi lavorava di più,

alla sera ero morto, cascavo nel letto direttamente, ma ero contento, anche se a me facevano fare i lavori più pesanti – gli altri movimentavano i bancali col muletto, io col carrello tirato a mano – va bene, ero l’ultimo arrivato, ma ero contento,

dopo qualche anno, ero sempre l’ultimo arrivato, cioè il primo ad arrivare al lavoro e l’ultimo ad andare a casa, ma ancora ero contento, portavo a casa lo stipendio, mi sono sposato, ho avuto tre figli,

poi quattro anni fa c’è stato il passaggio, i nostri supermercati sono stati comprati da una catena più grande, una delle più grandi,

ci hanno promesso che tutti i posti di lavoro sarebbero rimasti, ma dovevamo dimostrare di meritarli, così per alcuni mesi abbiamo lavorato come pazzi, giorno e notte, 10 anche 12 ore al giorno, tutti straordinari non pagati,

a un certo punto ci avevano promesso un premio, quando alla fine abbiamo chiesto quanto fosse il premio, ci hanno detto 150 euro (facendo i conti, veniva 2-3 euro all’ora), va bene, sono passati tre anni, non tre mesi, e il premio non si è ancora visto, anche se ogni fine anno in bacheca scrivono che il prossimo anno verrà distribuito il premio,

mi hanno fatto un discorso, mi hanno detto che io ero uno di quelli che rendeva di più, e così mi tenevano, però a mezza giornata, e con un contratto a tempo, per cominciare,

per tenere il lavoro, ho dovuto dimostrare di rendere il doppio, alla fine mi hanno rinnovato il contratto, ma sempre temporaneo, e poi mi hanno fatto un altro discorso, che per una serie di motivi che convenivano a tutti, dovevano lasciarmi a casa un mese ogni tre, o due ogni sei, mi chiedevano di avere pazienza, questione di un anno al massimo, poi mi avrebbero fatto il contratto fisso, a tempo pieno,

nel frattempo ero diventato in pratica anche il responsabile, ero quello che sapeva tutto di come far funzionare un supermercato, perchè c’era sempre gente nuova, per tre mesi, che non aveva idea  di cosa fare, e io gli facevo da istruttore, e in pratica facevo doppio lavoro, dovevo sistemare anche le corsie dei nuovi, ragazzi spesso italiani, che dopo tre mesi venivano assunti fissi,

il direttore che abbiamo adesso arriva alle nove o alle dieci di mattina, passa in corsia camminando come un manager della pubblicità, parlando al telefono, non saluta nessuno, ogni tanto si ferma a guardare qualcosa, poi riparte, e sparisce fino alla sera, quando fa un altro giro da pubblicità;

ho chiesto come mai assumessero gente senza esperienza mentre io da anni aspetto di essere assunto e mi hanno detto che questi nuovi assunti hanno più titoli di me: sono laureati,

ma la laurea non gli serve proprio a niente nel lavoro, anzi, li fa essere distratti, pigri, la verità è che sono italiani, e non trovano altri lavori,

la realtà è che io per tenermi il lavoro devo fare il doppio del lavoro di un italiano in metà tempo, guadagnando la metà,

alla fine porto a casa 800 euro al mese, 350 l’affitto della casa, restano 450 per le spese, le bollette, le medicine, la scuola per tre bambini, e la moglie che non lavora,

Frammento 2, la casa

41 metri quadrati, il piccolo in camera con noi, le bambine in cucina, e pago 350 euro al mese, e siamo in un comune molto ricco, con grandi aziende multinazionali, e grandi entrate,

ci sono molte case popolari, ma la maggior parte è data a persone che non ne avrebbero il diritto, ho passato i sabati sera a studiare le leggi, a informarmi,

trovato il coraggio sono andato in comune, mi hanno detto che ne avevo diritto, dovevo mettermi in graduatoria, e poi aspettare che aggiornassero la graduatoria, ho chiesto quando, mi hanno detto che la graduatoria era ferma al 2003, ma presto l’avrebbero aggiornata,

intanto andavo a vedere chi viveva in queste case popolari, parlavo con loro, c’era uno che aveva la Porsche, un altro che guadagnava 2000 euro al mese, e la maggior parte non pagava nemmeno l’affitto popolare,

però ecco un miracolo, aggiornano la graduatoria, vado in comune tutto contento, tre figli, la moglie, e solo io che lavoro part time e non sempre,

non ci credo, sono ultimo nella graduatoria, non mi daranno la casa popolare, ma come è possibile chiedo, e mi dicono:

tu non avevi lo sfratto!

certo che no, ho fatto i salti mortali, non ho mangiato per pagare sempre l’affitto, la prima cosa che tolgo dallo stipendio,

tutti gli altri hanno lo sfratto esecutivo, hanno più diritto di te,

allora potevo non pagare l’affitto per due anni, vivere meglio, e adesso avrei la casa popolare,

questo mi ha ucciso, questo mi ha fatto decidere che dobbiamo andare via, io adesso voglio andare via,  pensavo all’Italia come la patria dei miei figli, invece devo cercarne un’altra, emigrare ancora, perchè non posso accettare di vivere in un posto dove ti fanno fare dieci anni di sacrifici per dirti alla fine che sei uno stupido.

Frammento 3, la caritas

mia moglie al quinto mese, e due bambine piccole, alla caritas, dove danno i vestiti usati, le dicono voi aspettate qui, in piedi, non le offrono una sedia, la fanno aspettare fuori in piedi,

di là c’è uno stanzone pieno di vestiti, le portano un sacchetto con dentro tre cose, da prendere senza discutere, cose che non vanno bene, non sono quello di cui c’era bisogno,

tu vai alla caritas perchè hai bisogno di vestiti, non hai bisogno di essere umiliato, ti trattato come uno che è in carcere e gli distribuiscono la razione, perchè non ti lasciano entrare nello stanzone a vedere le cose, scegliere quello che vorresti, e col loro permesso prenderlo?

Invece, vogliono decidere loro che vestiti usati devi mettere,

Parliamo del mangiare, allora, è peggio,

Io tutti i giorni al supermercato devo buttare via quintali di cibo, non c’è niente da fare, e se ti dovessero beccare a portare a casa una scatola di tonno da buttare via, ti lasciano a casa, davvero, è per una questione di principio, dicono,

come dipendenti della grande catena abbiamo altre facilitazioni: uno sconto del 15% sui prodotti non scontati della nostra catena che però non devono essere più del 50% di una spesa che deve essere superiore ai 35€ e solo se facciamo una tessera che costa 30€, giuro,

probabilmente l’ha pensata uno dei laureati, e il direttore l’ha ascoltato,

poi una volta al mese mia moglie, sempre alla caritas, riceve un sacchetto di aiuti alimentari, una spesa del valore di 5€, qualche pacco di pasta, e qualche scatola di fagioli, una volta al mese, io le ho detto di non andarci più, mi resta sullo stomaco, e non c’entra se è scaduta.

Frammento 4, questa storia

beh, scusa se ti ho fatto perdere tempo non so se la mia storia ti può servire per scrivere un articolo, non c’è niente di eccezionale, ma ogni giorno, in ogni cosa, una fatica di vivere…

hai ragione, gli dico, la tua storia non interessa ai mass media, bisognerebbe fare un romanzo, questo sì, un film,

(e penso con dispiacere che in Italia si scrivono e si filmano e si finanziano solo storie auto referenziali, psicologiche, di problemi col padre, o la madre, o storie di genere, ma accademiche, tarantiniane, senz’anima, e ci vorrebbe invece una botta di neo-neorealismo, tornare sulla strada, via dalle scuole di scrittura creativa)

nello specifico, gli dico, penso sia ora di parlare di quello che noi “cittadini italiani” rubiamo ogni giorno da anni all’extracomunitario perfetto, che lavora per tre, ed è pagato la metà,

perchè il vero asino da soma sul quale abbiamo caricato la crisi economica sei tu, l’extracomunitario onesto,

dieci anni fa riuscivi con sacrifici a dare da mangiare ai tuoi bambini, oggi non più: pur lavorando più di allora, guadagni meno, e le spese sono raddoppiate, ma è soprattutto la ruota della burocrazia pubblica ad essere diventata per te uno strumento di tortura, dimmi se sbaglio,

per anni hai dato tutto nel lavoro e speso soldi, sacrifici e tempo per vedere riconosciuto il tuo diritto al lavoro e alla casa, e  ora ti rendi conto di non avere ottenuto niente, e di essere diventato, così facendo, l’asino sulla cui groppa montano tutti, sia sul lavoro che nei rapporti con l’amministrazione pubblica;

se siamo intellettualmente onesti, dobbiamo ammettere che il vero problema d’integrazione in Italia è recepire la mentalità italiana, la furberia italiana, basata sull’ipocrisia cattolica,

per cui ognuno di noi nato in Italia sa benissimo che l’onestà non paga e le regole sono fatte per essere aggirate,

per cui è matematico che l’extracomunitario che vuole integrarsi onestamente e seguendo le regole, cercando di farsi strada con merito, finirà malissimo; mentre l’extracomunitario che vuole integrarsi disonestamente, illegalmente, lavorando nel cosiddetto crimine, e sfruttando la vita privata per farsi strada in società, ha ottime possibilità di riuscirci,

e di poter un giorno mantenere una famiglia e far studiare i figli, o pagarsi il dentista, ed essere rispettato dagli indigeni,

mentre il suo connazionale lavoratore onesto, quello come te, con grande vergogna, chiede aiuto ai parenti in patria, agli anziani genitori, ai fratelli più giovani, prima era lui a mandare le rimesse, e così facendo perde il rispetto di sé, e il suo sentimento è quello di un amante deluso, perchè lui amava l’Italia, voleva diventasse la patria dei suoi figli, e il suo pensiero è quello di emigrare nuovamente, andare in uno di quei paesi civili e freddi, senza sole, né allegria, nel nord europa, dove però i diritti sono reali, e si può vivere di lavoro onesto,

e allora la povera patria in realtà è questa, e lo diceva già Battiato.

Quindi non preoccuparti, gli dico, non mi hai fatto perdere tempo, perchè scriverò questa storia, o ci proverò.

Grazie, mi dice serio, hai capito, è proprio questa la storia da raccontare. Poi ride: così perderai il doppio del tempo!

Sì, ribatto, e in più faremo perdere un po’ di tempo anche a chi la leggerà. E intanto penso: adesso scrivo la sua storia, e la prossima volta che lo vedo gli farò vedere questo post, gli dirò: vedi questi likes, sono persone che hanno letto la tua storia, e sono con te, ti ringraziano per aver raccontato la tua storia. Non perdere il rispetto di te stesso.

 

la pilsner, la ipa e lanik

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lanik

(ceca di sera, all’alba diventa scozzese, e a mezzogiorno italiana)

appartengo al target “piccola borghesia – grande apatia”,

vittima delle mode culturali e delle tendenze/stili di vita,

passato decenni a far finta di farmi la cultura del vino,

adesso ci tocca la cultura della birra…

* * *

io di formazione birraia pub anni 80

la mia è la ceres generation, poi tennent’s

ma anche le rosse chimay, adelscott, john martin

e anche tante moretti prese al supermercato

e più in basso le extra-strong sottomarca,

superalcol facile da zuccheri aggiunti

e nausee al termine della notte…

* * *

poi sono arrivate le birre artigianali

la scoperta del luppolo, dell’amarezza,

della birra non trasparente, non freddissima,

e nemmeno molto gasata, e spesso

nemmeno troppo alcolica

ma in compenso

carissima!

* * *

poi ti spiegano, capisci, e approvi

il procedimento naturale, niente estratti,

niente conservanti chimici, niente coloranti,

e alla fine queste scelte si tramutano in costi:

il luppolo in quantità costa, il malto di qualità costa,

il procedimento naturale è lungo, manuale, dispendioso,

alla fine una birretta da 33 da asporto mi costa 5 euro,

20 volte una lattina del discount di pari gradazione…

* * *

curiosamente dunque il prodotto sostenibile

si rivela insostenibile economicamente

non diversamente dalla carne bio,

dovresti limitarti a una bistecca

alla settimana, e una birretta…

* * *

e dopo un po’ la vera domanda è psicologica

ci chiediamo cioè se questo nuovo gusto

ce l’abbiamo davvero, o siamo solo

suggestionati da riti e liturgie

* * *

a questo proposito riferisco di un test

che mi è capitato senza premeditazione:

un amico mi porta un cartone di birre senza etichetta…

oggi sei circondato da amici che conoscono e ti procurano birra

proprio come anni fa c’erano spacciatori di vino ovunque…

* * *

(parentesi vintage/alla ricerca del tempo perduto:

e pensare che mi ricordo la prima rivendita

di vino sfuso a Bergamo, vini pugliesi

in zona piazza Pontida, erano

vini di Trani, da cui il modo

di definire quei piccoli bar

per avvinazzati, i “trani”

“l’è propre un trani”)

* * *

veniamo al test, ferragosto in città

in seguito al mio appello “disabile cerca

cibi pronti a domicilio” ecco una cena luculliana

dopo divorato salumi e antipasti, contorni e arrosti

e dopo bevute due bocce di bollicine perfette Faccoli

e una di rosso Tenores da 16,5% incredibilmente selvaggio

a pancia satolla mi viene in mente il mitico epulone Nero Wolfe

che a fine pasto, a tavola sparecchiata, si faceva due birre, per digerire

e così ingollo due di quelle bionde leggere prese dal cartone senza etichetta,

e mi sembrano senza dubbio delle ferrose Pilsner boeme, Urquell o Budweiser.

* * *

ma il giorno dopo, a mezzogiorno, a stomaco vuoto,

ne bevo un’altra allegramente, e mi pare tutt’altro,

non che mi sembri più forte di una Pilsner,

ma più luppolata, è una IPA luppolata,

magari una Elav, forse la Stakanov…

* * *

infine la terza impressione, solitaria,

12 ore dopo, leggendo e bevendo, e fumando,

e ascoltando bela bartok,  e i pensieri della notte,

improvvisamente, con certezza, so che sto bevendo

una delle mie birre preferite, la IPA Brewdog,

la famosa lattina da 33cc a 5 euro…

* * *

chiamo l’amico e glielo dico,

ma lui risponde: no, la birra che

hai bevuto era la nuova bionda leggera

di Elav, e come si chiama, si chiama “lanik”.

* * *

questo non è il resoconto di una degustazione da esperto,

questo è un test sul consumatore mediamente ignorante, che sono io,

e mi rendo conto che in situazione d’ignoranza media le condizioni contingenti

risultano decisive: a pancia piena, a stomaco vuoto diurno, da meditazione notturna,

e anche la modalità, ingollata dalla bottiglia è una Pilsner industriale,

invece nel bicchiere giusto, con la sua schiuma e la sua opacità,

era una birra artigianale italiana, e al buio era una scozzese…

* * *

non contento, e avendone ancora, decido di fare il test

su consumatori ancora più ignoranti di me, e qui apparirò scorretto,

la faccio provare a due amici, una ragazza e un marocchino, analfabeti

in fatto di birra: entrambi non sono ancora “entrati” nel gusto/vizio del luppolo

bevono solo bionde industriali, e ogni volta che ho provato a far bere loro birre

artigianali ho avuto reazioni negative, come fai a bere quella roba qui, non è buona:

sorpresa, entrambi dicono “buona”, finalmente una birra normale, che “sa di birra”

si, un “pochino amarina”, ma si può bere, anzi, “quasi quasi mi piace”…

* * *

a questo punto chiamo Antonio, il birraio che ha generato lanik,

e gli dico: bravo, hai realizzato il classico prodotto d’accesso,

“lanik”  è esattamente la birra da far bere agli scettici

la bionda non impegnativa, facile, sorridente,

confidenziale, e sottilmente seducente

* * *

e vorrei anche dirgli:

essendo un prodotto d’accesso

dovrebbe avere un prezzo accessibile!

Ci sarà pure un modo perchè voi facciate birre

più economiche, o la grande industria più buone e sane!

Potresti passare la ricetta ai tuoi vicini della Heineken-Moretti!

O diventarne il centro stile! Oppure al contrario farti prestare l’impianto!

E lui con ogni probabilità risponderebbe: allora non hai capito un cazzo, Leone…

(ph. by A.Kaiser)

la dieta break

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dietaBreak

La dieta break è una dieta di rottura (break bones) dai risultati strepitosi:

meno 10 kg di massa grassa persi in 30 gg e più 5kg di massa muscolare, praticamente quello che inseguivo vanamente da anni,

per perdere peso giocavo a calcio, giocando a calcio mi sono distrutto un ginocchio, con la gamba rotta ho scoperto la dieta break,

morale: per diventare un palestrato ho dovuto diventare un invalido!

Come dice lo zio Bob: nulla è per caso!

(nella photo:  il soggetto con sigaretta nella mutanda e libro nel gambone. > la vera storia di come ho conosciuto lo zio Bob qui: https://calepiopress.it/2013/07/19/la-giornata-dello-scrittore-sovversivo/ )