spaghetti al dente avvelenato

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Il fatto: Alias pubblica una special edition della Spaghetti Chair, con dimensioni stravolte e dunque impressioni spiazzanti, con effetto d’alienazione;

l’antefatto: la Spaghetti Chair è un must del design made in Italy, e per molte ragioni, tecniche e culturali, legate all’atteggiamento mentale, ironico, e affettuoso, su una forma/funzione pop e un materiale banale che segnò un’epoca;

il postfatto: dal suo profilo fb, Enrico Baleri, che nella nascita della Spaghetti ha avuto una parte non secondaria, lancia strali ferali, evidentemente ferito, indignato, e si erge a difesa della memoria del designer della Spaghetti, il compianto Giandomenico Belotti…

allora, Enrico, il tuo furore è sincero, ma improprio: ti tranquillizzo, sono anche io un Belotti di Grumello del Monte come il grande Giandomenico, e qualora si fosse levato nella tomba sarei stato il primo a percepirlo: invece lo sento sghignazzare, e non per l’oltraggio perpetrato da Alias, ma per la tua ira funesta…

Sei tu l’oltraggiato, non Belotti, che della Spaghetti è stato il papà, mentre tu sei stato la mamma, e oggi da mamma italiana tiri fuori le unghie: non toccate il mio bambino!

Penso che se gli Alias men ti avessero chiamato, consultato, corteggiato, spiegandoti il senso dell’operazione, forse lo avresti anche condiviso: e l’operazione parla da sé, evidentemente è un omaggio alla Spaghetti in quanto classico, non modernizzabile, però ironizzabile…

Lo stravolgimento dimensionale, l’iperbole de-funzionale, se ci pensi dice proprio questo: la Spaghetti non si tocca, progetto perfetto, e la sua perfezione viene proprio dalla sua curiosa armonia longitudinale, mai vista, inedita e unica.

Perché, diciamolo, la Spaghetti è sproporzionata di suo, da progetto, è questa la sua caratteristica che oggi viene presa in giro, e omaggiata.

L’operazione Alias non mi pare un furbata commerciale con effetti deleteri, come lo sono molte operazioni del genere “make it big”, e penso ad esempio al Vasone che qualche anno fa ha invaso ogni garden o cortile italiano,

si tratta invece di un gesto, forse anche irriverente – come è destino delle icone classiche che resistono alla modernità, a partire dalla Monna Lisa “duchampata” – per richiamare l’attenzione sulla Spaghetti. Questi pezzi unici, variazioni non destinate alla produzione seriale, non recano alcun danno alla versione originale, anzi, ne sono uno spot, forse un test di rilancio…

Il mio dubbio, in questi casi, considerate le dinamiche perverse della comunicazione, è questo: che la polemica pepata pompata da Baleri si riveli utile all’operazione Alias più che qualsiasi consenso o plauso,

e questo vorrebbe dire che tu, Baleri, sei cascato nel classico trabocchetto che il sistema spalanca ai giovani e ingenui sovversivi, i famosi “utili idioti” (absit iniuria verbis).

Al punto in cui siamo, prima che la polemica degeneri nell’inciviltà, consiglio agli Alias di invitare Baleri come special guest alle presentazioni della special edition, e a Baleri di cogliere l’occasione per raccontare la vera storia della Spaghetti, senza dimenticare il ruolo di Emilio Tadini nella scelta del nome Spaghetti, che ha fatto la fortuna del prodotto: eppure eravate indignati e infuriati all’idea di darle un nome così Little Italy!

Un nome imposto dalla lobby che ha finanziato il progetto, perchè voi, denotando scarsa cultura marketing, e anche scarsa cultura tout court, volevate chiamarla Odessa! E in quel caso dalle tombe si sarebbe levato non uno, ma intere schiere di morti…

E poi, se proprio vogliamo tirare fuori le offese fatte alla Spaghetti, perchè non parliamo della oscena proposta, avanzata ai tempi dal simpatico Montezemolo, di farla più larga, cioè più facile per venderne di più, privandola così del suo vero tratto d’identità e unicità, quella sproporzione che la rende bella e per sempre attraente perché diversa da ogni altra sedia: quello sì che è stato un tremendo insulto al progetto, e al genio del Belotti!

 

a Bergamo Bassa c’è vita, perfino culturale

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Da sempre ci si sente dire da amici scienziati: come fai a startene a Bergamo, non c’è vita culturale! Ultimamente anche assessori, immobiliaristi e commercianti lamentano la mancanza di vita a Bergamo Centro.

Controcorrente, vorrei segnalare la presenza di tracce di vita in città, perfino culturale.

Non mi riferisco alla vita culturale istituzionale di consumo (eventi, festival, cartelloni) ma al sostrato, all’humus, al fermento: intendo persone, luoghi, discorsi, incontri, iniziative sperimentali no budget, intendo quella “temperie” che facilmente riscontri e vagheggi quando leggi i diari di Canetti o Zweig sulla Vienna belle epoque anni 10-20, quando alle terme o al caffè incontravi Freud, o Wittgenstein, o Kokoschka, o Karl Krauss; oppure la Parigi fin de siecle, dove potevi trovare Baudelaire in un bistrot, o discutere con Cezanne e Zola, e finire la serata la Moulin Rouge con Boldini e Toulouse-Lautrec e …

Il fatto è che chi sogna di incontrare Baudelaire al bar, quando lo incontra realmente, non se ne accorge nemmeno.

Invece, se hai lo spirito giusto, ovunque, anche a Bergamo bassa, puoi avere una vita intellettualmente eccitante come Krauss a Vienna o Zola a Parigi… cioè, devi fare mente locale… se ad esempio  entri al bar Moderno, classico bar qualsiasi zona Piazza Sant’Anna, ,vedrai un tipo che confabula con altri due: gli sta spiegando modi di dire in dialetto, ci sono improvvisi scoppi di risate,  lui non è un divo, è solo il capo-macellaio della Dimo-car (tipo sanguigno, battute taglienti…), e gli altri due sono writer di note agenzie pubblicitarie, che sbevazzano insieme, però…

Attraversi la strada, e a BgBirra trovi l’editore-birraio de l’Osservatore Elaviano che parla con un vecchio pittore. Appartati, come in cospirazione, ecco gli organizzatori clandestini degli Invisible Show, sotto lo sguardo del capellone secolare delle edizioni musicali Carrara. Ancora più capellone, su uno sgabello, alto e magro come una pertica, puoi vedere un giovane clavicembalista di livello internazionale, che abita qui dietro, e normalmente  è perso nella musica che ha in testa, per cui se lo vuoi salutarlo devi picchiargli dentro. Entra una donna poco appariscente, è un luminare della medicina, gli chiede: cosa bevi? E lui risponde: Bach, Bach padre.

Scendi a prendere il pane,  anche il fornaio, il Vanotti, è nello spirito giusto, ha riempito la bottega di libri in book-sharing, e ogni giorno scrive la sua massima assurda su una lavagnetta.

Il fatto è che a un tiro di sigaretta dalla piazza abbiamo almeno una decina tra redazioni e lab creativi: ti parlo di me, del centro sperimentale di comunicazione Calepio Press e della redazione di CTRL magazine, che ridendo e scherzando mese sì e mese no è segnalato come uno dei magazine più “avanti” a “livello europeo” (wow)

c’è il lab Multimmagine, fucina di video-creativi, e sempre nei pressi ci sono anche le redazioni “regimental” di Qui Bergamo, di Città dei Mille, e anche Cobalto edizioni e anche le millenarie edizioni musicali Carrara… manca giusto L’Eco di Bergamo…

effettivamente potremmo anche montarci la testa e dire che Piazza Sant’Anna è il “distretto del pensiero” di Bergamo Bassa, con relative bassezze:

per esempio a un certo punto in piazza appare la classica donna-pantera che scende dalla Mini a fare il bancomat o a comprare 1 mela una, aggressiva come una bresciana a Milano: è certamente una account del QuiBg o della Città dei 1000, una macchina da guerra capace di stoccare in mezz’ora di moine il 1000 o 2000 euro all’imprenditore per mettere lui, la sua villa e la sua macchina sul magazine patinato, mentre tu che scrivi due romanzi l’anno o i tuoi amici che suonano tutte le sere non riuscite a campare…

insomma, gli stessi problemi che avevano Baudelaire e Cezanne…

Quindi, ragazzi, non state a farvi troppo menate sulla vita culturale, sulla mentalità della piccola città, andate oltre, prendete quel che cola dalla realtà, mischiate con i riferimenti  culturali scolastici, con i grandi maestri morti da secoli, e li vedrete rivivere, e anche la vostra vita prenderà senso…

Se nella tua testa non c’è fermento, se nelle tue viscere non c’è fuoco, è inutile che trascini le membra a Berlino, o a Londra…

La cultura te la crei, te la vivi, o non ce l’hai.

Diceva Gigi Lubrina: tu immagina che la vita sia un romanzo, o un film: vedi uno, gli dici una cosa, e vedi cosa succede. La vita culturale è questa…

Ma questo bel quadretto non ti basta, lo so, tu vuoi un esempio concreto, vuoi la “case history”, vuoi che ti racconti di un qualche progetto divenuto un prodotto culturale vero, di rilevanza e spessore…

Allora ti racconto questo: una sera di un anno fa, redazione di ctrl magazine, si cercano idee per nuove rubriche – che noia il reportage dal rave party! – e provo a buttare lì un’idea stonata: perchè non fare delle recensioni delle messe in quanto spettacoli, dove raccontare la location, le vibrazioni, il carisma del front-man e l’integralismo della massa-pubblico…

un’idea non nuova, già Camillo Langone faceva qualcosa del genere sul Foglio…

quello che non mi aspettavo era che nascesse un serissimo e pimpante gruppo di ricerca dedicato, il gruppo Cultras, composto da x giovani menti brillanti (musicologi, sociologi, storici, letterati) che con pseudonimi vari, in modo Debord-ante, da ormai un anno firmano recensioni mai viste: la messa del vescovo, la messa in latino, la messa dell’invasato, la messa dei protestanti, dei testimoni di geova, dei mormoni, degli ortodossi…

Si tratta di un “lavoro culturale” destinato a rimanere: ricerca, divulgazione, scandalo, e anche correttezza ed equilibrio.

Lo stesso gruppo sta realizzando anche un altro “lavoro culturale” davvero interessante, il remake in linguaggio underground del martirologio cattolico, cioè le vita dei santi + immaginetta, ogni giorno il santo del giorno in una pagina, in linguaggio contemporaneo, con illustrazioni originali che riescono nella mission impossible: rinnovare l’iconografia cattolica….

una cosa che la Curia, L’Eco, la Fantoni e il Sant’Alessandro messi insieme con tutti i loro soldi, i loro biblisti e i loro madonnari non sono in grado di fare, limitandosi a pubblicare ogni anno sempre le stesse vite dei santi ingessate da decenni, o secoli…

Questo lavoro, che in realtà proprio perché sincero e rispettoso, raccontando i santi come personaggi contemporanei, reali, estremi, nella città più bianca e bigotta d’Italia, risulta  autenticamente dissacrante.

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Potrei raccontare molti altri progetti che conosco da vicino, a metà tra ricerca e provocazione, autofinanziati, sostenibili, come la Badante Alighieri, agenzia letteraria per scrivere la biografia del nonno; la Pub Writing Session, lo spettacolo della scrittura nei pub; gli Invisible Show; i Contemporary Locus…

Intanto, nei loro uffici, assessori e immobiliaristi, che di questi fermenti non sanno niente, vogliono, o dicono di volere, fare qualcosa per dare più vita al centro di Bergamo Bassa, al cosiddetto Centro Piacentiniano.

Ora, se vuoi veramente dare vita al centro, devi osservare quello che succede nei borghi, e studiare la storia della città. Il centro di Bergamo Bassa non nasce come località centrale, ma lo diventa in quanto “passante” tra i borghi. Devi allargare il quadro, e la prospettiva.

Non è ignorando o soffocando i fermenti dei borghi, che porti vita in centro, ma piuttosto restituendo vita e senso di connessione al Sentierone in forma di “passante verde”, tracciato pedonale da aprire con poca fatica materiale (e molta mentale!) tra la Carrara-Gamec e Piazza Pontida, attraverso i parchi Suardi-Montelungo-Caprotti (cancelli da aprire…) fino a S.Spirito, e poi via Tasso, Sentierone e via XX Settembre.

Con questo anello pedonale tu scendi dalle mura, da Porta S.Agostino/via S.Tomaso, traversi tutto il centro e risali da S.Alessandro in Porta San Giacomo: e così integri città alta e bassa nella fruizione turistica pedonale, storico-artistica,

questo i turisti lo apprezzerebbero, e così pure i commercianti del centro e dei borghi, che per loro natura miope sono incapaci di vedere che oltre l’isola pedonale –  la tomba dello shopping – c’è l’arcipelago pedonale, e la resurrezione urbana.

Se Bergamo deve rinascere come città d’arte-turismo-cultura, è chiaro che i fermenti verranno dai borghi, dai luoghi dove ci sono artisti, gallerie, editori, sono loro che faranno crescere la città come città d’arte e cultura, proprio come secoli fa gli artigiani e le botteghe dei borghi hanno creato la città commerciale…

non serve fare la partnership con l’università di Harvard e spendere milioni in progetti di Smart City, sto parlando di aprire cancelli e portoni, sto parlando di aprire la mente della città…

forse non tutti sanno che il Sentierone  in origine si chiamava Sentierino, ed era appunto un Sentierino che collegava i borghi attraversando il grande prato di Sant’Alessandro (dove oggi sorge il centro Piacentiniano).

Aumentando il flusso, il Sentierino divenne Sentierone,  quindi si costruì la fiera, quindi il centro Piacentiniano oggi desertificato.

Ma il tracciato del Sentierino lo vedi ancora, tu guarda la mappa del 1600, e riconosci il filare d’alberi che ancora oggi corre a lato del Sentierone tra la Chiesa di San Bartolomeo e Palazzo Frizzoni: quello è il Sentierino.

Ricoperto di vecchio asfalto, orlato da brutti pannelli con brutte affissioni pubblicitarie, meriterebbe maggior cura, e una targhetta che in poche righe racconti la storia, e il senso, del Sentierino che diventò un Sentierone.

Insegniamo alle persone ad attraversare Bergamo Centro a piedi, dalla Carrara alle 5 vie, e riavremo la centralità del Sentierone.

Ma qui abbiamo architetti che vanno in America a farsi spiegare come fare marketing urbano, e poi tornano masterizzati, e per rivitalizzare il centro hanno idee brillantissime come quella di cambiare nome a Largo Bortolo Belotti, perché “è un nome che non ha appeal turistico”.

Io questi li rinchiuderei due o tre mesi al Gleno a leggere bene la Storia di Bergamo e dei Bergamaschi di Bortolo Belotti in 10 tomi e 2000 pagine, da sapere a menadito per riavere la libertà.

Il fatto è che la cultura a volte manca proprio agli uomini di potere che vorrebbero promuoverla. E alle donne, pardon.

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il manifesto artigianista

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Il “Manifesto artigianista” o “dell’artigiano indipendente” è il tema-cover de l’Osservatore Elaviano n.4, fogliettone luppolaceo fresco di stampa edito dal birrificio Elav, curato e scritto da me, Leone/Calepio Press, e disegnato dallo studio Temp.

Il  manifesto artigianista nasce da conversazioni con Antonio: la “sovversione pubblicitaria” è il tema del numero, la divinità guida del numero è il Dio degli inizi, il Giano bifronte, che qui diventa l’artiGiano bifronte – -e divinità guida e cover dei n. precedenti sono: 1) la dea madre, 2) Iside regina d’inferno, 3) Eco e Narciso – e qui il linguaggio utilizzato, sovvertito, è quello della pubblicità.

Divertiti, spazientiti, stufi di vedere grandi spot scor.. retti di vario tipo, col nonno che va in bici a prendere il luppolo, e l’altro nonno che butta il luppolo nel pentolone, si è pensato di  scherzare, fare il verso, così, secondo lo slogan “David è Goliardico”,  abbiamo giocato a esagerare, a fare 8 grandi spot elav, scegliendo come testimonial Elav i grandi personaggi storici del territorio,

Colleoni, Nullo, Paci Paciana, il Quarenghi, il Beltrami, Fra Galgario, Fra Calepio, la Monaca di Monza, personaggi assolutamente Elaviani, oltre che hollywoodiani, ognuno a suo modo,

con la pubblicazione dei ritratti “bg-bastards” in 2000 battute che da alcuni anni sto scrivendo  (alcuni già pubblicati nelle cover “bergamanent” di CTRLmagazine, altri inediti).

Ogni testimonielav, come ad esempio Francesco Nullo, è “brutalmente” associato a un valore del brand (l’indipendendenza) e a un prodotto (birra Indie). Facciamo come loro, ragioniamo da giganti, da scienziati del marketing e comunicazione.

Il poster centrale è dedicatato all’atlantelav, con tutti i pianeti e i satelliti dell’universo elav.

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Il legame con il prodotto, le birre, come sempre è di pura ispirazione (“questo testo è stato scritto bevendo questa birra”) ma qui diventa anche iper o meta-pubblicitario, in modo esibito: però la cosa assurda, esagerata, e più sovversiva, è che questo Osservatore dedicato all’auto-pubblicità, super ridondante e auto riferito, finalizzato alla mitologia del marchio, non riporta in alcuna pagina, neanche microbo, il marchio Elav!

In origine le indicazioni allo studio Temp erano esattamente opposte, mettiamo il marchio ovunque, anche nella filigrana, rendiamo il marchio assordante! Ma i geni devono aver pensato bene che il silenzio è il suono più assordante,  e facendo finta di niente mi hanno proposto un lay-out senza alcun marchio, e io facendo finta di niente  l’ho accettato, e così Antonio. Parafrasando il Croce, “non possiamo non dirci no logo”.

L’Osservatore Elaviano è reperibile gratuitamente agli eventi e nei pub Elav – a Bg: Osteria della Birra di piazza Mascheroni, città alta; o al Monastero di Astino, o alla sede del  birrificio, a Comun Nuovo.

Ricuperati credits

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GiovannaRicuperatiGiovanna Ricuperati parlerà oggi all’Assemblea di Confindustria Bergamo della strategia RISE (Renaissance of Industry for a Sustainable Europe). Qui sotto, il ritratto “prima impressione” da me scritto un anno fa, dopo averla conosciuta.

Il sorriso di una contadina di cuore lieto, proprio quello, è la chiave del suo successo, e ti parlo di una donna di potere, che ha un sorriso d’altri tempi, pudico e solare, che risulta così nuovo, e invece è probabilmente genetico, è il sorriso di sua nonna, che sarà stata davvero una contadina, capisci,

quel sorriso che la nonna portava nei campi, o in fabbrica, lei lo sfoggia nell’Italia postindustriale, nell’epoca del made in Italy: con quel sorriso ce la immaginiamo adolescente acqua e sapone, la vediamo ventenne ad Harvard con il golfino giallo Benetton, poi in azienda con il tailleur d’ordinanza, magari Marras, e oggi in Confindustria ingioiellata Tiffany, e sempre l’effetto di questo sorriso supera gli status,

sono Benetton, Marras e Tiffany a prendere valore da lei, da quel sorriso, non il contrario, capisci, oggi il massimo valore culturale aggiunto, il più ricercato, è il sorriso dell’ignoranza perduta,

è un sorriso che rintracciamo sui volti di donne d’altra etnia, donne del sud del mondo, mentre portano l’acqua, la vita, e ci piace, ci conquista, ci ricorda quello delle nostre nonne, ci dice carattere, e anima, freschezza, e fierezza; e di fatto è un sorriso elementare, spontaneo come fiori di campo,

capisci, con quel sorriso, la nostra donna potrebbe anche essere una grande attrice, sempre che non stia già recitando, e vorrebbe dire che è davvero brava.

(Imago: Giovanna Ricuperati. Photo by Ezio Manciucca)

 

Mc Donald’s, Expo, la pizza e il bambino scemo

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Un bambino scemo in pizzeria invece di scegliere la pizza vuole l’happy meal, il papà più scemo di lui lo porta al Mc Donald e sono tutti felici. Slogan: tuo figlio non ha dubbi!

Con arroganza multinazionale, nella sua nuova campagna Mc Donald irride, nell’ordine:

1)    uno dei prodotti simbolo del food made in Italy, la pizza,

2)    il luogo dove questo prodotto viene preparato e servito: la pizzeria

3)    il cameriere italiano, cioè il servizio e la conduzione di tipo familiare

4)    il bambino italiano, che alla pizza in pizzeria preferisce l’happy meal col suo bel packaging

5)    il papà italiano, che si sdraia davanti al bambino succube della pubblicità

6)    la legislazione italiana, che ha un’idea sorpassata di pubblicità scorretta

7)    l’expo, sotto le cui insegne termina la spot, il che ci lascia capire il caro prezzo  pagato dall’Expo a Mc Donald per averlo come main sponsor (insieme a Coca Cola!)

Tutti questi soggetti irrisi, ma specialmente i pizzaioli, e i titolari di pizzerie, vedendo questo spot, si renderanno conto di vivere e lavorare in uno stato di sudditanza.

In 30 secondo riescono a demolire agli occhi dei bambini l’andare in pizzeria e a convincere i genitori che da Mc Donald è tutto più facile.

Nei fatti, si scontrano due modi concorrenti di produzione/nutrizione/consumo: da una parte la catena fast-food della grande multinazionale, industrializzata,  standardizzata, gestione manageriale; dall’altra il mondo delle ristorazione parcellizzata, di cui le pizzerie sono cardine, con prodotto artigianale fatto sul posto, piccoli proprietari, gestione familiare.

Questi due mondi sono in guerra, ma non combattono ad armi pari.

L’associazione pizzaioli/pizzerie non può fare uno spot dove dileggia Mc Donald e i suoi clienti come bambini scemi, succubi e capricciosi. Mc Donald lo può fare.

La pizza italiana, il gelato italiano, non hanno brevetti. Hanno ricette. Le ricette sono come i free software: mettono a disposizione di tutti una conoscenza.

La coca cola invece è una ricetta segreta. Siamo nel mondo del copyright, del prodotto brevettato, dove identifichi il prodotto con il marchio, e  quindi essendo di tua proprietà il nome stesso del prodotto, io non ne posso nemmeno parlare!

Se invece hai un prodotto che non ha un marchio, ha solo un nome comune, pizza, lasagne, gelato, e tradizioni secolari, e ingredienti autentici, allora io lo posso denigrare tranquillamente e danneggiare tutta la filiera. Questo è quello che vedo nello spot Mc Donald.

Noi popolo di pizzaioli, gelatai, vignaioli, pasticceri non possiamo dire che Mc Donald è merda, che la Coca Cola è merda; loro invece possono dire che la pizza è merda, che le pizzerie sono merda, e quindi domani potranno anche dire che la pasta italiana, o il vino, o le gelaterie artigianali sono merda.

E lo possono fare in Italia, all’Expo italiana, dove noi si pensava di lanciare il cibo come nuovo made in Italy, esempio per l’umanità. Per ora, purtroppo, esempio di sottomissione.

Viene da pensare che quel bambino scemo che invece di scegliere una pizza subisce il menu preconfezionato, siamo noi, è l’Italia.

cosa vuol dire Dio è nei dettagli

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Parliamo dell’abusata citazione “Dio è nei dettagli”; una di quelle frasi che tutti usano e quasi tutti fanno finta di capire. E invece ha almeno 3 significati molto diversi, a seconda delle versioni e delle attribuzioni: a Gustave Flaubert  (“Dieu est dans le detail”); ad Aby Warburg (“Gott ist im detail”)  e a Mies Van der Rohe (“God s in the details”).

1) Gustave Flaubert è il padre del romanzo moderno, siamo nella Parigi secondo Ottocento, caput mondi  per artisti, scrittori, sovversivi, avventurieri, imprenditori; con Madame Bovary Flaubert ha creato non solo il modello nella nuova donna, psicolabile e “fashion victim” ante litteram,  ma il modello del nuovo romanzo;

la lezione del maestro Flaubert è condensata in un slogan, “occorre far parlare le cose”: è la tecnica narrativa che sarà poi la base  del cinema e della pubblicità.

Dalla descrizione della spazzola di Madame Bovary percepiamo l’inquietudine della donna moderna con più forza e più precisione rispetto a un’astratta e prolissa descrizione psicologica.

Attorno a Flaubert si ritrovano una serie di “nipotini” di grande futuro, Maupassant, Zola, Hugo, tutti i protagonisti del nuovo realismo.

Lo scrittore moderno è un selezionatore, un decoder, che costruisce una storia mostrando oggetti e fatti. Non è più il Dio onnisciente manzoniano, che vede tutto dall’alto.

Un giorno Maupassant chiese al maestro: “Dunque Dio è morto?”

No, rispose Flaubert, Dio non è morto:  Dieu est dans le detail.

2) Aby Warburg è il padre della critica d’arte contemporanea, siamo ad Amburgo nel 1925, attraverso una serie di conferenze Aby Warburg diffonde la sua fondamentale teoria sull’arte e l’architettura occidentale  come continua ripetizione di archetipi ricorrenti: proprio  dall’analisi dei dettagli si rintracciano una serie di rimandi, nei dettagli si nascondono stratificati significati simbolici ma anche diabolici:

il diabolon è un segno di doppiezza, che divide e falsifica, frammenta e disperde, il simbolon è la metà di un segno, che rimanda a un insieme originario autentico.

Warburg faceva l’esempio degli ornamenti architettonici – siamo nell’epoca del liberty simboli autentici di una realtà perduta, quando sono in rovina,  che diventano doppi e falsi quando vengono “restaurati” o “rifatti in stile”, tramutandosi da simboli in diavoli.

Per rendere chiaro il concetto, Warburg riprese Flaubert, e disse: non solo Dio è nei dettagli ma anche il Diavolo è nei dettagli!  Di fatto, la sua frase rese celebre il motto di  Flaubert, e lo diffuse nella lingua tedesca (Gott ist im detail!)

3) Mies Van der Rohe è il padre dell’architettura contemporanea: siamo a Chicago attorno al 1960, Mies Van der Rohe insieme a Gropius, Aalto e Wright è considerato il padre del movimento moderno,  già direttore del Bauhaus, quindi emigrato negli Usa a causa del nazismo,  è il capostipite nobile dell’archistar-guru contemporaneo.

Tutta la sua filosofia è in due celebri slogan: “less is more”, manifesto del minimalismo,  del sottrarre funzione alla forma per arrivare a dare forma alla funzione, quasi come se l’architetto fosse Dio, e a precisare la questione se l’architettura sia la divinità dell’uomo razionale, Van der Rohe pronunciò quello che divenne il suo secondo slogan:

“God is in the details”, Dio è nei dettagli, intendendo però dire l’esatto contrario  di quanto disse Flaubert: se per Flaubert Dio si rivelava nei dettagli, segnali e simboli di un’unità superiore,  per Van der Rohe i dettagli, ossia l’assenza di dettagli, o comunque la non manifestazione dei dettagli, rappresentano e significano l’assenza di Dio, o la sua non visibilità.

Dunque: per Flaubert dai dettagli si capisce la qualità divina di una creazione; per Warburg nei dettagli inutili, decorativi, si nasconde il Diavolo; per Van Der Rohe la perfezione divina è nella non visibilità dei dettagli, corrispondente alla non visibilità di Dio, il vecchio Dio absconditus. E quindi, oggi, la cura per ogni dettaglio è proprio nell’evitare di far vedere i dettagli!

(imago: R.Guttuso, Stiratrice e ragazzo di Caravaggio, 1974)

 

l’identità divisa del bergamaschione

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Filago Bergamo settembre 2012

 

(riceviamo e pubblichiamo da Sean Blazer, il noto critico di moda)

Di passaggio a Bergamo, dove ho numerosi amici e non, ho incontrato la mia giovane amica fashion blogger Consu che sui due piedi mi ha chiesto: chi è il maschio berghem-vip che fa tendenza fashion?

Sui due piedi, le ho detto, me ne vengono in mente due, che esprimono le due diverse tendenze del maschio vip glocal: il sindaco Gori e il magnate Pesenti, diciamo Giorgio e Carlo per semplicità;

Giorgio è il maschio relax, camicia fluida, look complessivo sottotono, quasi sciallo, mai sciatto, sempre fresco, mattutino, anche alle cinque de la tarde, e dunque accogliente, invitante, ammorbidente, avvolgente, con gesti quasi affettuosi: ma attenzione agli occhi “ice smiling cobra”, come lo chiamano in America.

Sotto la pashmina, rischi di trovare un coltello affilato!

Carlo all’opposto è il maschio alfa dichiarato, regimental, savile row, l’abito una corazza, una divisa, la sartoria un’arte militare, rigido, statuario, il look serve a tenere a distanza, non ad avvicinare.

Ogni cosa dal colletto al calzino è perfetta e intoccabile, esprime potere e freddezza: e naturalmente ognuno, e ognuna, ha libertà d’immaginare sotto la fredda corazza un cuore caldo che batte, e fors’anche un uomo tenero mimetizzato nel rigido contegno.

Giorgio e Carlo certo mi perdoneranno, quello di cui parlo è soltanto ciò che la loro immagine riflette, l’archetipo, il tipo che rappresentano, effettivamente si tratta di abiti da lavoro, funzionali al ruolo, Giorgio deve attrarre, Carlo deve respingere, hanno effetti studiatamente diversi, con le loro “mimetiche”, e diversamente coatti.

Ma il vero nuovo maschio, superamento sia del maschio debole che del maschio antico, dovrebbe essere in grado di indossare insieme, con naturalezza, il rigido e il morbido, il casual e il classic.

La sua immagine/identità un tenuta composita e assemblata, ma omogenea e singolare, non “divisa”: il nuovo maschio è l’uomo qualunque, che qualunque cosa indossi è sé stesso.

Berghem-Vip così evoluti al momento, sui due piedi, non mi vengono in mente, abbi pazienza Consu.

Spalma il vecchio

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Bergamo città vecchia, grassa, bigotta, e vanitosa: è questo il segno che lascerà, l’effetto che farà sulla percezione della città la mostra su Palma il Vecchio.

Un pittore di regime, ritrattista di vescovi e grasse matrone, in veste patinata, in sacre conversazioni su fondali mitologici.

Cultura? Turismo? Business? Un indotto da 30 milioni di euro? Ci credete?

Se Bergamo vuol fare la capitale della vecchiaia, allora il Palma è il testimonial perfetto.  Volti pasciuti, sguardi spenti, immagine piatta, pomposa. Arte di regime, arte morta, arte già morta allora, e oggi mortalmente morta.

Palma il Vecchio non è un grande maestro. Non è un Bellini, o un Moroni. Non è un genio incompreso, non è un Lotto.  E non è nemmeno un originale, un eclettico. Soprattutto, non è moderno. Non c’è erotismo, non c’è passione, non c’è mistero, non c’è forza, non c’è niente.

Il Palma era già vecchio ai suoi tempi, quando ritraeva con ossequio la classe dirigente, e faceva quello che ancora oggi fanno i fotografi e i figli dei fotografi con gli imprenditori e i figli degli imprenditori sulle copertine di QuoBg o Bg7Up. Ma senza quel briciolo di follia, o quella maestria del colore, che ebbe ad esempio un Fra Galgario.

Per alcuni è un maestro del colore, forse un maestrino, che si è limitato ad applicare, cioè a vendere a committenti laici ed ecclesiastici, la lezione del Bellini (per gli sfondi) e del Lotto (per la composizione). Più un bravo artigiano, un buon imprenditore di se stesso, ligio al potere, che un artista. Uno storico dell’arte lo liquida come “ritrattista esperto in balene morte”.  La “floridezza” spocchiosa delle sue modelle-committenti è effettivamente deprimente, non fanno che dire: guarda quanta ciccia, guarda quanti soldi. Effettivamente le balene del Palma somigliano a diverse tipe odiosamente richhe e grasse che sono in giro ancora oggi, identiche.

Quando ho cominciato a sentir parlare di una mostra su Palma il Vecchio, ho pensato: speriamo una piccola mostra pretesca, per specialisti, fanatici di arte sacra, come quella sul Ceresa. Poi  sentendo parlare di una grande mostra “cultura-turismo” ho cominciato a preoccuparmi. E adesso che vedo il lancio, il sito, l’operazione marketing sono profondamente depresso.

Che senso ha oggi questa sceneggiata, questa imposizione, questa equazione (sbagliata) pittura sacra = alta cultura? Un insulto all’ignoranza dei bergamaschi, del popolo in generale? Come se “il popolo” non sapesse distinguere a prima vista, a istinto la grande arte, che sa parlare a tutti in ogni epoca, dall’arte di facciata, che parla solo ai regnanti, sacra o profana che sia.

Nell’insieme l’operazione, ad onta della quantità di sponsor istituzionali, tecnici, fondazioni, grandi aziende, ha un impatto tra il dilettantesco, il patetico e il ridicolo.

L’immagine guida, il lay out con la griffe anticata “Palma il Vecchio”, è una soluzione grafica trita e ritrita, ormai la trovi anche sui vini di poco prezzo.

I testi del sito istituzionale sono fumosi, allungati, e con qualche scorrettezza grammaticale inaccettabile.  Patetico, commovente lo sforzo di commercianti, artigiani, pasticceri etc di creare dei prodotti, ricette, accessori taggati Palma il Vecchio.

Ammirevole chi si è impegnato e ha fatto ricerche, ma questo sforzo di abbinare “cultura” alla propria attività più o meno commerciale dovrebbe essere permanente, sincero, spontaneo. Credo che nessuno sano di mente  si sarebbe mai sognato di ispirarsi a Palma il Vecchio per alcun motivo. Ma una volta piovuta dall’alto la scelta di puntare sul Palma, ecco che tutti in coro si riempiono la bocca: ah, il Palma, oh, che gran pittore il Palma!

Sempre sul “sito ufficiale”, è specialmente ridicola la sezione “shopping del Palma” (c’è anche la personal shopper dedicata, cioè una guida che ti accompagna a fare lo shopping del Palma con la tua card del Palma il vecchio, compatibile con il palmare nuovo, osiamo sperare) e poi c’è  “il Palma al maglificio Santini” (pretesto/legame col Palma: “magliette coloratissime!”).

E poi c’è, immagino agghiacciante, il cortometraggio d’arte “Alessio Boni e il Palma”  (si intuiscono sgommate con la Ferrari + fighetta nei vicoli di città alta by night… genere horror, porno-horror?).

Infine, o per cominciare, la campagna-locandina di lancio della mostra, un buco della serratura, che ricorda un film di Tinto Brass, genere porno soft, e promette “bellezza da scoprire”! Il fatto è che le “balene” del Palma sono già abbastanza terrificanti così, senza bisogno di scoprirle ulteriormente. I nudi del Palma fanno ribrezzo. Questa è la tragedia.

In realtà, qualsiasi bergamasco con un minimo di buon gusto si vergogna di questa mostra, di come è proposta, del sito che la promuove e delle iniziative di contorno e dessert.

Rifiuto l’immagine di Bergamo città vecchia, grassa e bigotta che sarà il risultato logico di iniziative-autogol come questa mostra.

Negli sterminati magazzini della Carrara si potevano trovare decinaia di artisti più interessanti da ogni punto di vista, più attraenti, stimolanti, anche per i poveri commercianti e gli artigiani costretti a ispirarsi, a eccitarsi creativamente  con Palma il Vecchio, cosa difficilissima in assoluto.

E se proprio si vuole rispolverare il Palma, dare vita a un cadavere, va bene, si può fare, ma occorre più coraggio, più fantasia, anche più ignoranza, se proprio vuoi fare l’evento commerciale,

non so, magari un confronto tra due epoche, una provocazione, una mostra doppia Palma/Botero, Fat food woman in Art Expo, con il Palma in Carrara e Botero in Gamec, due gallerie, due epoche una di fronte all’altra.

Nel comunicato stampa ufficiale si parla di un’iniziativa pensata per i giovani, avvicinarli all’arte: ma dimmi cosa ha da dire ai giovani Palma il Vecchio? State buoni e ingrassate bene. E state lontani dall’arte.

Se guardi bene i ciccioni e le ciccione di Botero ti accorgi che sta prendendo per il culo proprio le madonne e i vescovi di Palma il Vecchio. Vai su google immagini, cerca Botero, cerca Palma. Scopri la bellezza!

Eppure Bergamo come ogni grassa matrona bigotta è in grado nel suo ventre mefitico di coltivare per reazione sacche, acidi, fermenti di autentica produzione culturale, artistica, con dei fuori di testa autoctoni capaci in ogni epoca – anche quella presente! –   di produzioni di livello internazionale, ma chiaramente disprezzati, o ignorati in patria.

Un’altra città, un’altra elite, una vera città d’arte, volendo rilanciarsi a livello d’immagine culturale in occasione expo, invece di tirar fuori (e valorizzare…) i soliti pittori di madonne dalle sagrestie di paese in ossequio alla curia, si impegnerebbe a valorizzare la generazione dei moderni, o addirittura dei contemporanei.

Capaci tutti di fare l’ennesima mostra categoria pittori bergamaschi del Cinquecento. Ma se vuoi fare qualcosa di nuovo, qualcosa di Expo, organizzami una grande mostra dei pittori bergamaschi del secondo Novecento. Esatto, ci vogliono le palle!

Non troppi mesi fa all’inaugurazione della mostra postuma sul Prometti mi è capitato di sentire una signora bg-bene dire: “Che bella mostra, quanta gente, che bel catalogo, come sarebbe stato contento, lui!”

Alludeva all’artista, scomparso da poco, suicida, quasi rinfacciandogli l’atroce scelta.

Mia cara signora xxx, le ho detto, se fosse ancora vivo, stia pur certa che i grandi sponsor non gli avrebbero organizzato questa grande mostra.

A Bergamo non sono mai mancati artisti veri, cultura vera. Ma se non è morta da cinque secoli, e se non è di chiesa, non diventerà mai cultura ufficiale.

Questo accade ancora oggi esattamente come ai tempi della controriforma.  Ah, Il valore delle tradizioni! Non si improvvisano da un giorno all’altro!

 

sentierone social club

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Bergamo-anni-50-60

L’idea Sentierone social club (nell’ex Diurno) lanciata da questo sito, è stata ripresa, apprezzata, arricchita e condivisa in questi giorni da migliaia di utenti sui social network (il sito di CTRL magazine ha superato i 1500 like http://www.ctrlmagazine.it/2014/una-discoteca-sotto-il-centro-di-bergamo-si-puo-fare/ ).

La desertificazione del centro città necessità di nuove, autentiche pulsazioni umane. Per capire come il Sentierone abbia perso vita e funzione basta  analizzare i casi opposti dei due locali storici diversamente morti, il Nazionale e il Balzer:

il primo, rifatto in look design, del vecchio Nazionale conserva solo il nome, con l’aggravante esterna dei vasoni di plastica bianca, segni di banalità, di vanità arredo-design senza identità, senza personalità;

il Balzer invece è rimasto com’era negli arredi, ma non nei prodotti:  nel corso del tempo ha dimenticato i suoi must: l’aperitivo Balzer, mitico e ormai sconosciuto, e l’insuperabile focaccia alla crema di pollo, e andando più indietro negli anni l’ìncredibile cono palla (ricoperto da cioccolato “fondente” fuso al momento) o il krapfen (un riferimento per intere generazioni).

Oggi Balzer è penosamente ridotto a esibire un brutto tabellone posticcio posato sui mosaici del quadriportico, con prezzi pausa/pranzo e foto a colori delle insalate miste e delle sale interne, in stile bar qualsiasi per turisti, di quelli che a Roma espongono “Lasagne e Cappuccino 10€”.

Ora il Balzer chiude, ma per quelli come me il Balzer è già morto da un pezzo.

L’altro locale in chiusura, il Ciao, non ha mai avuto senso né consenso sul Sentierone: in autostrada o in aeroporto va bene, food anonimo in contesto anonimo, ma c’è qualcosa di profondamente stonato nel trovarsi in terrazza sul “salotto” della città, in questa scenografia architettonica borghese (proprio sopra la scritta “urbis ornamento et civis commoditate”) con in mano un vassoio di plastica (sul quale si posano malmostosissimi piccioni)

A fronte di queste malinconiche inerzie, il Diurno, il grande spazio sotterraneo di piazza Dante chiuso da decenni, può diventare il cuore della rinascita come centro socio-culturale giovanile, ospitando le sedi degli operatori culturali della città viva, della città vera (editori, musicisti, artisti, associazioni, etc) nei tanti spazi-uffici attorno alla grande area ipogea centrale, chiaramente adibita a locale-concerti, spettacoli, discoteca.

Magari aprire una seconda uscita giusto in fronte al Tribunale darebbe certezza di ordine pubblico a mamme e assessori.

Come scrive un lettore: “Discoteca, ottima idea, ma forse meglio pensare a uno spazio in cui siano possibili serate-discoteca, oltre che musica pop dal vivo, teatro alternativo – un polo culturale pop, insomma, con molteplici “vite”. Sarebbe necessario coltivare un’alleanza con il polo-Donizetti, in modo da creare una relazione che non opponga i due poli: così si evita la reciproca segregazione/ghettizzazione del pubblico e delle attività”.

Il segnale è dunque abbastanza lampante, l’indicazione per la giunta, il sindaco, gli assessori-architetti e gli altri attori coinvolti nel rilancio della centralità del Sentierone, a cominciare dall’immobiliare Fiera proprietaria dell’area, per finire con i matusa della lirica, che propugnano il restauro del Donizetti (si parla di 18 ml euro, che significano 200€ pro capite per i cittadini di Bergamo) è chiara:

il consenso e la partecipazione dei cittadini, se le proposte sono realmente innovative, ci sono, e prenderle in considerazione con volontà politica positiva sarebbe un segno vero di attenzione alla cittadinanza e capacità di rinnovamento non solo nell’arredo urbano, ma nella percezione e nel vissuto della città.

Slogan: Nazionalizzare il Sentierone! Un Balzer in avanti! Vita notturna al Diurno!

(imago: il Sentierone quando era uno sport acquatico di massa, e si facevano le “vasche”)

Kafka in via Pignolo

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BiciPiss

Un’isola pedonale, chiusa al traffico motorizzato, dovrebbe essere la parte più viva della città, dove ci si riappropria del piacere di girare tra le botteghe senza auto, clacson e fumi di scarico, e si ricostituisce il legame tra il centro e i borghi.

Sabato scorso a Bergamo mi è successo questo: prendo una bicicletta pubblica in piazza S.Anna, risalgo Borgo Palazzo, e accedo all’isola pedonale di Pignolo, dove un amico ha aperto una bottega. L’isola pedonale di via Pignolo bassa-piazzetta S.Spirito è da 10 anni una zona morta. Dovrebbe essere lo snodo ciclo-pedonale del “passante verde” sentierone-accademia carrara. Il comune da anni favorisce l’apertura delle botteghe pagandogli l’affitto per un anno, e puntualmente dopo un anno le botteghe chiudono.

Giunto quasi alla piazzetta, ecco un’automobile dei vigili urbani in mezzo alla via. Mi intimano di fermarmi. Mi intimano di tornare indietro, o proseguire a piedi.

Sei contromano, mi dicono. Mi viene da ridere: ma è un’isola pedonale!

Si, ma ha comunque un senso di marcia!

Situazione kafkiana, e umiliante, per me, e anche per i vigili, che entrano e si piazzano  in un’isola pedonale in macchina per fermare i ciclo-cittadini.

Così, per andare da un borgo all’altro (Palazzo e Pignolo) sono costretto a raddoppiare la distanza e a percorrere via Camozzi o Frizzoni, 4 corsie killer e niente pista ciclabile.

Io non credo che quella pattuglia fosse lì di sua iniziativa a fermare le bici, penso invece che fosse lì in seguito a un preciso ordine di servizio.

L’amico della bottega poi mi conferma che non si tratta di un fatto estemporaneo, ma di una vera e propria operazione di polizia in corso da qualche settimana (da quando “Scelta Civica” ha bocciato in Parlamento il provvedimento che avrebbe reso possibile “il contromano” alle biciclette nei centro storici, come già avviene in via sperimentale in moltissime città italiane e in modo stabile in tutte le città europee più progredite).

Vai a Ferrara, Mantova, Bologna, Parma, e ti fai un’idea di com’è viva la città senza auto. Vai a Siviglia e capisci come è cambiata la qualità della vita urbana in seguito a un progetto lungimirante. Questo progetto di vita urbana, che nelle città emiliane fa parte della storia cittadina (mentre a Siviglia è stato implementato con successo dall’amministrazione) si basa su una scelta strategica elementare, civica, che si chiama bicicletta.

La bicicletta è il vero strumento di realizzazione dell’isola pedonale, del borgo vivace, del centro vissuto. Con la bicicletta devi poter partire da casa tua e andare in centro senza rischiare la vita sulle strade dove sfrecciano gli auto-pazzi. Finché non favorisci l’uso della bicicletta in città, le tue isole pedonali resteranno sempre zone morte.

Questa giunta è guidata da un sindaco che in campagna elettorale, dopo essere stato beccato più volte con il suv in aree riservate o vietate, si è dato un’immagine di ciclista urbano.   Evidentemente si trattava giusto di un’immagine elettorale.

Pattugliata dai vigili, l’isola pedonale Bergamo style risulta di fatto un’area privatizzata dei residenti, che devono poter sgommare sui loro suv senza intralcio di pedoni e biciclette.

Lo si capisce anche dagli assurdi, brutti, troppi paletti anti-parcheggio, uno ogni metro, che riducono il marciapiede a una corsia singola, e impediscono di camminare in due come sarebbe naturale se stai passeggiando in compagnia. L’intera carreggiata è vuota, ma deve stare a disposizione delle auto di residenti e forze dell’ordine.  I pedoni devono camminare sul marciapiede, e in fila indiana!

Capisci perchè Pignolo è morta? Un’area dove le bici non possono entrare, e i pedoni devono andare in fila indiana per non disturbare la libera circolazione delle auto dei residenti agiati e delle forze dell’ordine. Più che un’isola pedonale, è l’immagine di un’amministrazione che ragiona con i piedi.

Caro Giorgio, ti consiglio 3 semplici iniziative: 1) fai tirar via i paletti che impediscono di camminare civilmente 2) delimita una porzione di carreggiata a pista ciclabile 3) ma soprattutto, in centro, manda in giro i vigili in bicicletta.

Vedrai che magicamente in pochi mesi Pignolo rifiorirà come una pianta quando la bagni.  Inutile spendere soldi per rendere expo-rtabile a suon di marketing una città morta. Meglio provare a rianimarla con interventi semplici, logici, come da promesse elettorali.