cosa ti dice un fiore di campo

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foto 1-2

vieni da me

io sono linfa per te

non desiderarmi invano

non guardarmi con amore

prendimi

portami con te

consumami d’amore

io sono desiderio gioia orgasmo

mi terrai tra le tue pagine più belle

e ti amerò per sempre

ma strappami

adesso

 

 

l’anno del giardiniere

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So che ci sono molte belle professioni, per esempio scrivere sui giornali,, votare in parlamento, sedere in un consiglio d’amministrazione oppure firmare scartoffie d’ufficio, ma quantunque tutto questo sia bello e meritorio, nello svolgere queste professioni, l’uomo non fa quella figura e non ha quella postura così  monumentale, plastica e chiaramente statuaria che ha l’uomo con la vanga.

Signore, quando sta così sulla sua aiuola, con una gamba appoggiata alla vanga, asciugandosi il sudore e dicendo “Ah!” , allora sembra proprio una statua allegorica; basterebbe scavarla con attenzione, estrarla con tutte le radici e metterla su un piedistallo con la scritta “Trionfo del Lavoro” oppure “Il Signore della Terra” o qualcosa del genere.

Dico questo perché adesso è proprio il tempo di farlo, voglio dire il tempo di vangare.

(Karel Capek, L’anno del giardiniere, 1925. Prima lettura 2008; rilettura: ieri. Foto: a ds Karel Capek; a sn. il fratello pittore Josef, inventore della parola “robot”)

contro la festa della donna

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momenti02c

In occasione della festa della donna, l’associazione neo-maschilista HS chiede l’abolizione di detta festività, offensiva per tutti i generi, e invita tutte le amiche a diffondere il manifesto dell’Homo Sapiens:

Constatato lo stato di crisi del maschio della cosiddetta “X Generation” (nati dopo il 1965) giudicato mammone, e senza palle,

Analizzato lo stato attuale di pace apparente nella guerra dei sessi in seguito alla vittoria del femminismo sul maschio antico che ha prodotto un maschio debole sottomesso schiavizzato;

Sentita nei nostri organi fondamentali (cervello, cuore, cazzo) un’urgenza vitale selvatica guerriera di ribellione e affermazione positiva solare

H.S.

libera riunione di maschi primitivi del nuovo millennio,

intende promuovere nell’immaginario collettivo una nuova identità maschile

Il nuovo maschio è un Homo Sapiens (HS) in grado di superare le paure del Maschio Debole (MD) e i limiti del Maschio Antico (MA). HS salva e rilancia la sensibilità degli MD con la forza e la sicurezza degli MA.”

Contro la cultura dell’autodisprezzo maschile insegnataci dalle nostre madri

Contro i valori di questa società femmina isterico frigida

H.S. Invita tutti gli uomini di buon senso a pensare e a dire

E’ mio e me lo gestisco io

H.S. invita tutti i maschi consapevoli ad affermare a voce alta la propria vocazione selvatico-ludica

il messaggio di Sanremo

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sanremo-2016

Brividi ieri sera a Sanremo, quando la pubblicità TIM dice: “Le nuove tecnologie ci stanno dando la libertà di non dover scegliere. Non è fantastico?”

Subito dopo, il conduttore dichiara: “Via al televoto, ognuno ha a disposizione cinque voti, sempre a un euro” (ambiguo, sembra 5 voti per 1 euro, e invece sono 5 voti a 1 euro l’uno…).

In realtà un voto è un sms, che normalmente paghi qualche centesimo. Cosa compri con quell’euro, cosa ti vendono? La tua opinione.

Conclusione: le nuove tecnologie ci danno la libertà di non dover scegliere, ma se proprio vuoi scegliere, puoi sempre farlo a pagamento (e solo relativamente a canzonette). È davvero fantastico.

 

la perversione dello scarpulì

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SaeveLeones

Si, lo ammetto, anche io faccio parte di quella grande categoria di pervertiti che segue le orme dei ciabattini, degli scarpulì, scarpe bellissime per i clienti, e loro in giro con le scarpe bucate.

Mi occupo di comunicazione, ma se per sbaglio un cliente guarda il mio sito, si spaventa. Invece della home c’è la domus, e grazie a questo abbatti del 50% i visitatori.

Qui sopra, un file ritrovato per caso, con l’evoluzione del marchio calepio press. Guardando con distacco, mi verrebbe da dire: di male in peggio.

Per rispetto e per scusarmi verso chi mi legge nonostante questi marchi, di cui mi prendo ogni responsabilità, mi sento in dovere di scrivere i tre “rational”, quei brevi testi che si presentano al cliente per spiegare nascita e senso del marchio.

1, lo sgorbio:

fatto da me “al computer”, primi anni Novanta, su pc 286 Honeywell-Bull; me lo portavo dietro su floppy, lo piazzavo sulle cose che scrivevo come mia firma.

A un certo punto accompagnava un marchio di nome Malomodo Communicatons, antesignano di ADVzero, col quale firmavo progetti esemplari di ultra-pubblicità, o pubblicità auto-denigratoria;

sotto la stessa etichetta scrivevo e pubblicavo qui e là racconti di fantamarketing (come il progetto del cimitero elettronico, il social net dei più, che avevo battezzato YouDie, e che adesso, quindici anni dopo, vedo realizzato da quel Raffaele Sollecito ex Amanda-delitto Meredith di Perugia,

2, il charro:

fatto da Benedetto Zonca (ma su mie indicazioni) una sera nel 2007, la sera che ho deciso di creare la calepio press, scansionando un piccolo leone di plastica che faceva parte di una scatola di soldatini del 1974 sul tema colosseo, con leoni, cristiani e gladiatori,

e dunque giustamente tamarro, con un leone kitch sbranacristiani che di fatto fa a pugni con una font hercolanum, astutamente scelta per comunicare all’inconscio che calepio press è un’etichetta commerciale, dal momento che la “e” dell’hercolanum, come si vede, è il prototipo dell’euro

3, il chess:

cosiddetto in quanto chess vuol dire scacchi, non per altro, fatto dallo studio Bamboo nel 2011 (sempre su mie indicazioni…),  un cavallo con testa di leone, che dovrebbe esprimere la situazione neo-situazionista dell’azione culturale sovversiva, non rivoluzionaria,

e cioè infiltrarsi nel sistema per ribaltarlo, sovvertirlo (secondo le istruzioni “debordanti” tratte dal manifesto “arte della rivolta – la rivolta dell’’arte”)

esattamente come fa il cavallo, con la nota mossa del cavallo, che scompiglia tutto lo scacchiere,

e però con testa di leone, che scompiglia mordendo, ruggendo o graffiando, secondo mia indole, segno e nome.

Ora però c’è quasi la tentazione di ripristinare lo sgorbio. In ogni tentativo di serietà intellettuale, ma anche in ogni avventura-business, c’è sempre qualcosa di patetico, di commovente, e anche di comico.

 

insight alla quarta birra

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elav-coltivazione-luppolo

Alla quarta birra, dopo tre flash-back, ho avuto un insight,

cioè una madeleine, un’epifania, un’apparizione,

è successo quando all’ultimo sorso della quarta birra, ormai innamorato perso di questa quarta birra, ho recuperato la bottiglia e guardato l’etichetta: in quel momento è apparso lo spettro di John Terrible annunciandomi: “ti sei innamorato di una birra di merda”.

Su queste parole, scattava l’insight, che in un colpo solo (dottrina della grazia divina) mi permetteva di reimpossessarmi di un trauma giovanile, superarlo, e aprirmi a nuove possibilità gustative.

Le cose sono andate così:

ieri sera, alle ore c.ca 20.00 mi recavo in località Bg-Birra, e senza badare a spese, data la mia situazione psico-emotiva, acquistavo:

una MukkaMannara Mukeller da 75cc, da Porto Sant’Elpidio –Macerata;

una Space Man Brewfist da 33cc, da Codogno –Lodi;

una My Antonia del Borgo da 33cc, da Borgorose- Rieti;

una Mein Grunes Schneider Weisse da 50cc, da Kelheim-Deutschland;

devo riportare per onore di cronaca i consigli di Fra’ Daniele, che insieme al fratello Monaco Zein tiene con scrupolo religioso il banco di mescita:

sulla MukkaMannara: capisco; sulla Space Man: ci sta; sulla My Antonia: ci vuole; sulla Mein Grunes, da me scelta solo perchè costava poco (pensando di usarla per cucinare): potrebbe essere la tua weisse.

Ignaro di quel che sarebbe accaduto, non ho dato troppa importanza a queste parole.

Rintanatomi nei miei appartamenti in spirito Dostoievskj – memorie del sottosuolo, cominciavo a scolarmi le referenze in ordine d’acquisto lasciando libero corso alla regressione neurologica:

con la MukkaMannara precipitavo in stato d’ebbrezza patetica, e di nuovo come allora (primo flash-back) mi innamoravo di Sharon Stone e rivivevo la prima volta che l’ho vista, al cinema Astra, in S.Orsola, io pubescente, lei già donna, diciannovenne, un cerbiatto, io in platea, lei sullo schermo, deuteragonista nel film fantastico Total Recall- Atto di forza, protagonista Arnold Schwarzenegger;

con la Space Man ritrovavo le amare certezze del mondo IPA e guardando l’etichetta mi risvegliavo nel fumetto l’Eternauta (secondo flash-back), anni 80-90, Skorpio e Lanciostory, capolavoro assoluto, la totale solitudine dell’uomo contemporaneo;

a quel punto ero ormai in modalità Superciuk-Alan Ford, e la terza birra “di aulità”, My Antonia, non l’ho bevuta, l’ho usata per sbaglio per fare un risotto alla birra con una cipolla, una zucchina e un pezzo di costata della Dimocar in offerta che avevo in frigo,

il risotto alla Superciuk è venuto bene, fin troppo saporito;

così m’è venuta sete, e distrattamente ho versato la Mein Grunen, la birra-merda da cucina, l’ho versata in due bicchieri, perchè in uno non ci stava, e mi sono poi perso a leggere il Deuteronomio in piedi davanti alla libreria, finché senza pensarci ho bevuto il primo sorso, e mi sono innamorato al primo sorso;

entrato in estasi, ho scolato il bicchiere, e mi ha preso un desiderio fortissimo di berne ancora,

mi ero dimenticato del secondo bicchiere, e quando dieci minuti dopo l’ho visto che mi guardava, dicendomi “bevimi”, eccomi ebbro di felicità,  invaso da una gioia infantile-superciuk;

solo dopo averla davvero finita mi sono posto il problema: che birra era?

Così ho recuperato la bottiglia, era la Weisse tedesca, industriale, rifilatami da Fra’ Daniele a un prezzo basso rispetto alle altre, le artigianali italiane luppolatissime con etichetta fichissima e prezzo da Amarone.

Ho guardato l’etichetta: un’etichetta banale, brutta, vecchia, quasi da discount, tradizionale, ma con disegnate in aggiunta delle brutte cime di luppolo, di un brutto verde.  è stato a quel punto che mi è apparso Jhon Terrible. Ti sei innamorato di una birra di merda.

Nella mia ignoranza avevo sempre considerato quel marchio anonimo (Schneider Weisse) e la tipologia in generale (Weisse) come birre di merda, da sfigati, buone giusto per innaffiare cene tirolesi.

E invece questa avversione nascondeva un trauma, un ricordo dimenticato (terzo flash-back): all’età di sedici anni, con un compagno di scuola, il mio primo viaggio in moto, in Baviera.

Una sera, a Monaco, prendiamo una sbronza colossale, ci aggiriamo la notte ubriachi in periferia in cerca di un campeggio, lo troviamo, entriamo, montiamo la tenda, dormiamo;

ci svegliano voci inquietanti, apriamo la tenda, è giorno, due SS con la divisa Polizei ci stanno fissando, e così pure la comitiva di turisti alle loro spalle: ci troviamo, noi e la tenda, nelle aiuole tra le baracche del campo di concentramento di Dachau, da noi scambiato per un campeggio-ostello.

Questo episodio tragicomico nascondeva un particolare rimosso, che era sparito dalla mia coscienza: ecco l’oggetto dell’insight, la rivelazione, l’eureka: per la prima volta ho rivisto il prima, la sbronza, quel pub di Monaco, e quella birra: la Weisse, proprio la Schneider Weisse, ci eravamo ubriacati a Weisse, nasceva da lì la mia avversione per la Weisse.

Alla fine, aveva ragione Fra’ Daniele: ho trovato (ritrovato) la mia Weisse.

Morale, anche nell’itinerario religioso verso la birra, appena credi di aver raggiunto una certa saccenza, ecco che il Signore ti umilia, aprendoti nuovi orizzonti di gioia dietro porte che avevi chiuso.

 

non è un gioco

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una storia con due possibilità

storia vera, di un amico che non vedevo da 20 anni.

La storia con due possibilità è un vecchio metodo da vecchia scuola di scrittura: scrivi una storia vera, la storia di una persona, meglio se in prima persona, immedesimandoti, e focalizza un momento decisivo, il momento sliding doors, quello che a ogni persona capita più volte nella vita (se avessi scelto l’altra porta, come sarebbe andata la mia vita?) e da quel momento in poi scrivi in parallelo lo sviluppo/finale reale della storia e lo sviluppo/finale ipotetico, possibile.

Poi fai leggere a tot persone le due versioni – avvertendo il lettore che una delle delle, senza dire quale, è la storia effettiva e l’altra è la versione ipotetica, possibile, potenziale, e verifica quale risulta più credibile.

Questo “esercizio di fantasia” in realtà riguarda chiunque, quando ci si chiede “chissà che fine ha fatto” a proposito di qualcuno che non si vede da anni e che in passato si è frequentato e conosciuto bene.

Il protagonista di questa storia è Hebert, che ho incontrato di recente dopo 20 anni. Facevo il barista notturno nel locale di cui lui era socio-proprietario. Dopo la chiusura del locale, ci siamo persi di vista. Quando l’ho rivisto per caso, per strada, ero appena uscito dalla redazione di CTRL, dove si era deciso di dedicare la cover story al tema del gioco d’azzardo. Ce l’ho io una storia da raccontarti, mi dice amareggiato. In quattro birre a tema, una più amara dell’altra, mi ha così raccontato la parte recente della sua vita, e mentre me la raccontava, una voce interiore mi suggeriva, mi faceva vedere la storia parallela, l’altra possibilità.

Dopo la bevuta, ho buttato giù tre cartelle, nella prima (“una storia”) Hebert si racconta fino al momento sliding doors, seguono le due versioni (“due possibilità”) montate in parallelo.

Nella versione pubblicata su CTRL  magazine n61 completano la cover story le sezioni “tre carte” e “quattro soldi”, approfondimento giornalistico zoom-focus sulla ludopatia/ludocrazia italiana, curate da Nicola Feninno, con fotografie di Linda Alborghetti e Marco Bellini e grafica editoriale dello Studio Temp.

L’idea è quella di proporre agli aspiranti writer un metodo di lavoro story telling – pub writing con diversi temi/livelli di scrittura/lettura del testo: tema narrativo (storia di una persona in modalità mimesis/ghostwriting) + tema giornalistico (il gioco d’azzardo, testimonianza diretta).

1 > una storia

Scommetto che non fai in tempo, gli dice il collega che ha preso la telefonata. Ma l’uomo salta al volante della sua enorme Ford bicolor, gialla e nera, un taxi, e non c’è nemmeno bisogno di esporre la targhetta “fuori servizio”, talmente corre veloce attraverso la città.

Quando arriva è già tutto finito. Entra nella stanza e vede sua moglie con qualcosa abbarbicato al seno, è un’enorme sanguisuga antropomorfa rosa e pelosa. Lei guarda suo marito negli occhi e gli dice: è un maschio. E lui col suo vocione, mi chiama: Hebert!

Era il 2 agosto 1965, in una stanza d’ospedale a Temuco, in Cile, città sull’Oceano Pacifico, capoluogo della Raucania, grande il doppio di Bergamo. Il mio primo gioco: nascere.

Da bambino giocavo per strada, si cominciava tornando da scuola, ricordo la mia infanzia come il periodo forse più bello della mia vita,  le mie due sorelle, una di due anni maggiore, l’altra di due anni minore, mia madre, che era infermiera, e mio padre, uomo pieno di vita, e  di idee, e iniziative, allora tassista e medico laureando, poi specializzato in fisioterapia. Si viveva bene, mi sembrava un mondo felice.

L’epoca dei giochi finisce per sempre un giorno d’estate del 1973, avevo 8 anni, tornavo da scuola con le mie sorelle, a un lampione vediamo un uomo morto, appeso; poi un altro, poi gente che corre in mezzo alla strada, poi lacrimogeni, e sirene, e spari, e in piazza i carri armati. I militari, il golpe, Pinochet, il nostro presidente Salvator Allende ucciso, repressione, coprifuoco, arresti, torture, caos. Soldati che entrano in casa di notte, cercano mio padre, attivista socialista, sulla lista delle persone “sgradite” al regime militare.

Giochiamo a nascondino per giorni e notti intere, mio padre nascosto a Santiago, clandestino nel suo paese, noi bambini affidati ad amici che ci fanno giocare a un nuovo gioco: bisogna entrare nell’ambasciata italiana, una grande villa con il parco circondato da un muro di tre metri, e i militari di ronda che lo pattugliano senza sosta. Io entro col giardiniere, come suo nipotino. Le mie sorelle vengono issate sul muro e prese al volo da quelli già dentro. Del papà e della mamma non sapevamo niente. Siamo stati sei mesi accampati nell’ambasciata italiana, centinaia di persone, tutti con la richiesta di asilo politico, e i loro familiari. Finalmente, scortati dai carabinieri italiani fino sull’aereo dell’Alitalia, lasciamo il nostro Paese. Sull’aereo ritroviamo i nostri genitori.

ll primo gioco in Italia una specie di estorsione minorile: ci avevano sistemati in un grande hotel a Grottaferrata, vicino Roma, noi bambini profughi insieme ai monelli romani ci sdraiavamo sul viale d’ingresso dell’hotel, i turisti per passare dovevano darci il 100 lire. Avevamo un cartello con scritto “siamo pronti a morire per 100 lire”. Siamo rimasti un anno in quel mega hotel, e dopo un po’ i miei hanno suggerito al gestore di fare un menu sudamericano, fagioli, mais, visto che eravamo centinaia di profughi.  Mia madre si è messa ai fornelli, e alla fine i nostri piatti erano richiesti anche dai turisti. Forse è arrivata anche così la cucina tex-mex in Italia. Ma noi bambini col 100 lire andavamo in paese a prenderci il trancio di pizza.

Un anno a rimpiattino su e giù per l’Italia, alcuni mesi a Ventimiglia, poi a Milano, e poi a Gorle, dove staremo stabilmente per 17 anni, mio padre prima facendo qualsiasi lavoro, e poi riuscendo a diventare un professionista della fisioterapia, e dell’agopuntura, anche molto noto. Non lo vedevamo più, era sempre via, prima con la squadra di enduro, poi con la nazionale di sci, la famosa valanga azzurra, poi anche le ragazze, la valanga rosa, e poi l’Atalanta, e tanti calciatori di altre squadre che venivano nel suo ambulatorio.

I grandi campioni sono grandi giocherelloni, io bambino ricordo una foto dove Thoeni e Gros fanno sciare mio padre, che non sapeva sciare, tenendolo tra di loro; oppure il calciatore Mastropasqua che mentre aspettava vinceva con noi ragazzini la scommessa di fare 100 palleggi di testa, lì in sala d’attesa. Poi un campione del mondo di enduro mi regalò un bellissimo Fantic Caballero. Avevo 15 anni, sul mio Caballero partivo alle 6 di mattina, facevo 40 km e poi il bocia in cantiere fino alle 5 di sera, e ritorno. Poi parto militare (e oggi dopo 40 anni che sono in Italia mi hanno tolto la cittadinanza…) e passo un anno a fare ponti radio in alta montagna: la mia mansione è cuoco del distaccamento, imparo a cucinare con quel che c’è, isolati dal resto del mondo.

L’idea nasce per gioco, parlando una sera a tavola, con mia madre, e le mie sorelle. Sono passati dieci anni, ognuno ha il suo lavoro, la sua vita, ma ci manca qualcosa, forse la nostra patria, la nostra infanzia. Io ho quasi trent’anni, uno dei nostri ricordi più belli erano le domeniche a mangiare in un ristorante sulla vetta della montagna sopra Temuco, si chiamava La Cumbre. Apriamo un ristorante sudamericano. Lo chiameremo La Cumbre. Io ai fornelli, aiutato da mia madre, mia sorella in sala, il suo ragazzo dietro il banco del bar. Troviamo un posto a Seriate, sulla strada per Albano. In pochissimo tempo diventa un locale dove si mangia, si balla, si beve. La cucina tex mex, i cocktail pestati, l’esplosione dei balli latini, salsa, merengue, tango, ogni sera una bolgia, gente che veniva da altre città, e alle 5 di mattina, dopo 12 ore di finimondo, a porte chiuse, una grande tavolata con lo staff, baristi, buttafuori, dj, lavapiatti, ballerini…

Il gioco dura poco, un paio d’anni di successo, e un paio d’anni vivacchiando, snaturato dai divieti, le multe, le multe alle auto dei clienti, la siae, gli orari da “coprifuoco” imposti dal comune a causa delle denunce dei residenti per disturbo della quiete…  ma è stata una bella esplosione di vita, non solo per me, per noi, ma per tutti quelli che frequentavano il locale… abbiamo venduto il locale, oggi c’è un ristorante cinese-italiano… come investimento immobiliare, mi sono comprato una casa per sempre, pensando al ritorno, una tomba nel cimitero di Temuco… poi ho dovuto reinventarmi la vita in Italia.

2 >  due possibilità

Le prime slot: prendo in gestione un piccolo bar, ma non funziona, non mi piace, non c’è gioia, solo routine di persone sole che se ne stanno appollaiate al banco a bere, o a giocare alle prime slot machine, senza proferire verbo per interi pomeriggi… dopo un anno lascio il bar, e devo ricominciare da zero. Trovo lavoro nell’edilizia, pavimenti industriali, i primi tempi apprendista, poi tagliatore e caposquadra, anni duri, lavoro pesante. Sposato la mia compagna, diventato padre per la seconda volta.

(prendo in gestione un piccolo bar, già dopo pochi mesi capisco che il guadagno è tutto in quelle due macchinette mangiasoldi, le prime slot machines. Come una droga, se cominci non puoi più smettere, e lo stesso vale per il bar, una volta che le installi, non potrai più toglierle. Quando prendi atto che è quella l’attività redditizia, capisci che tanto vale lasciar perdere il bar, e aprire una sala giochi. In pochi anni è un settore in pieno boom, insieme ai vendioro, e le due attività sono sinergiche, tanti vendono i gioielli di famiglia per mangiare, ma tanti per giocare. Una volta le persone andavano al casinò un paio di volte l’anno. Adesso il casinò è sotto casa, ogni giorno. In pochi anni guadagno tantissimo, tutto regolare, un solo segreto, non giocare mai. Sposato la mia compagna, diventato padre per la seconda volta).

Giocare con i fornelli è la mia vocazione, decido di tornare a lavorare in cucina, mi propongo come aiuto cuoco, trovo subito lavoro, un grande ristorante, 150 coperti, mezzogiorno e sera, cucina bergamasca, imparo i piatti, le procedure, i ritmi, i trucchi, polenta e coniglio, brasato, casoncelli, tagliatelle, risotti, facevo tutto, preparavo tutto, anche i dolci, le torte, un lavoro senza sosta. All’inizio erano 4 soci, dopo un anno restano in 2, poi è rimasta una sola persona. A un certo punto mi chiede: te la senti di prenderti tu la responsabilità della cucina, essere tu il capo cuoco? Si. Nasce un rapporto di fiducia. Mi occupavo dei rifornimenti, pagavo i fornitori, anticipavo io.

(I fornelli la mia passione, la mia vita privata: nel mio loft spendo cifre da capogiro in cibi prelibati, vini da collezione, 10, 20 mila euro in design e tecnologia, e cucino solo per me, o per la gentaglia che ho intorno, ragazze di bella vita, strozzini in abito Gucci, ex calciatori… durante queste serate la noia mi travolge, penso alle serate di un tempo, al locale, gente sana spinta dalla voglia di ballare, incontrare persone e vivere storie d’amore…)

Giocare con le persone. La cosa è cominciata in modo strisciante, qualche giorno di ritardo nell’accredito dello stipendio, e nel rimborso delle spese, poi i giorni diventano settimane, ma non preoccuparti, il lavoro c’è, ma sai com’è, tutto quello che c’è da pagare, e la banca che non dà credito, questione di giorni… intanto anche la mia finanza familiare, basata sul mio stipendio, cominciava a risentirne… ma quello che più mi preoccupava era il comportamento di questa persona, diventata sfuggente, sempre meno presente, mi diceva “torno subito” e stava via tre, quattro ore, tutta la serata di lavoro… oppure rientrava di soppiatto, prendeva l’incasso della serata dalla cassa, e spariva di nuovo, come un ladro…

Con pazienza, aspetti. Sui giornali leggi che c’è la crisi, che ci sono lavoratori di aziende in crisi che non prendono lo stipendio, e intorno a te tutti gli artigiani, i padroncini e i muratori si lamentano che vengono pagati dopo 3 o 6 o anche 12 mesi…

Ma settimana dopo settimana, mese dopo mese, diventava chiaro che non stava più pagando non solo me, ma anche i fornitori. Dove sparivano i soldi?

(Giocare con le persone è questo che fanno i ludopati, prendono in giro tutti, a cominciare da sé stessi, mentono, inventano, si ingegnano solo per avere soldi per giocare, ma non è un gioco, non sono loro a giocare, sono le macchinette a giocare con le persone, come il gatto col topo, le prendono tra le fauci, le scuotono, le rivoltano per bene, poi le abbandonano come stracci. I giocatori sono diversissimi, ci sono i lavoratori, i disoccupati, i pensionati che bruciano soldi guadagnati duramente, onestamente, in un mese di lavoro, in una vita di risparmi, e ci sono quelli che bruciano soldi facili, strozzini, spacciatori, prostitute, figli di papà, e donne sole, soprattutto donne. Quelli che frequentano le mie sale giochi, li disprezzo tutti, li insulto, gli dico di andare a casa, ma più li tratto male, più mi si affezionano… mi vogliono bene perchè gli faccio credito, e appena riescono a mettere le mani su due soldi me li portano per avere la mia riconoscenza, l’unico sentimento umano di cui sono capaci, l’amore che il drogato nutre per lo spacciatore che gli fa credito… gente completamente rovinata, umanamente prima che finanziariamente, vanno alle terapie di gruppo per smettere di giocare, fanno tate belle promesse alla psicologa della mutua, e dopo l’incontro si ritrovano in sala giochi…)

Non è un gioco. Alla fine la verità era a poche centinaia di metri, uno di quei bar con annessa sala slot, era lì che si rintanava per ore, giorni, mesi, era lì che bruciava centinaia, migliaia, decine di migliaia di euro, e mandava in rovina non solo la sua attività, ma il mio lavoro, la mia famiglia… alla fine il ristorante ha chiuso, è stato venduto, io sono rimasto a casa, e non ho ancora visto i miei stipendi… alla fine questa persona è nullatenente…

Ora sto facendo lavori per delle cooperative, lavori sporchi, pulire gli altoforni, pericolosi, precari, lavori due settimane, poi stai a casa, e i soldi sono davvero pochi, non bastano.

Sulle scale mi vergogno a incontrare il padrone di casa, essendo in arretrato con l’affitto. Quando non hai i soldi per pagare quello che devi pagare, è allora che ti senti impotente. Adesso mi è arrivato lo sfratto. L’unica certezza che mi è rimasta sono quei due metri cubi di mia proprietà eterna al cimitero di Temuco.

(Vorrei che le mie attività fossero ostacolate, combattute, debellate dallo stato, così come è stato col ristorante-dance, ma invece non accade, il governo è mio socio, il governo è dalla mia parte, questo, dice mia madre, dovrebbe farmi riflettere: siamo fuggiti da una dittatore, da un sistema che schiaccia le persone e la vita, e 40 anni dopo mi ritrovo dall’altra parte del mondo a far parte di un regime che arricchisce gli “operatori del male”, e manda al macello la povera gente, e non intendo i giocatori, ma i loro familiari, che ne escono distrutti. Però anche io sono riuscito a distruggere la mia famiglia. Mia moglie non mi parla più da anni. I miei figli vanno nelle migliori scuole, ma si vergognano di me. Ho comprato auto, mobili, case, ma l’unico posto, l’unico bene cui penso con desiderio sono quei due metri cubi di terra a mio nome nel cimitero di Temuco.)


dovrei dirgli: sei pazzo

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Foto a pagina intera

fino a pochi mesi fa l’uomo di cui parlo ha una bella moglie e vive in una cascina upper class piena di libri e opere d’arte, con una bella mezza collina di parco intorno, e tante belle cose non esibite ma ben presenti, la piscina, l’orto, il pollaio, il canneto, il vigneto, il frutteto, il dehor con le frasche e il forno a legna, i cani, i gatti e in mezzo al bosco uno studio-hangar in vetro, tek e alluminio, come da rivista d’architettura, dove il pover’uomo svolge un lavoro prestigioso e appagante, il fotografo di moda, industria, arte e reportage;

l’uomo ha sessant’anni ma ne dimostra dieci di meno, e con quel suo fascino brizzolato un po’ richard gere un pò sean connery le donne gli cadono ai piedi come non mai,  incredibilmente piace anche agli uomini, perchè è simpatico e diretto,

tiene corsi nelle più importanti accademie d’arte, note gallerie gli organizzano mostre personali e grandi editori pubblicano i suoi libri,

dovrebbe andare in chiesa tutte le mattine a ringraziare il Signore, invece è ateo e un bel giorno di punto in bianco molla moglie, cascina e piscina e va a vivere da solo, in una casetta in un paesino isolato trai monti, con un grazioso giardinetto da meditazione, grande forse 1/1000 della tenuta in cui ha vissuto per decenni,

tutti gli danno del pazzo, dell’immaturo, compatiscono la sua ingenuità, fondamentalmente non capiscono la sua scelta, sono troppo civilizzati per sentire ancora quel bisogno primario dell’homo sapiens chiamato libertà,

questo di cui parlo è Virgilio Fidanza, il posto in cui è andato a “nascondersi per liberarsi”, seguendo il dogma Bernhard, è Lonno, quattro case e un pizzeria tra Nembro e Selvino,

il dogma Bernhard dice: “devi essere completamente e fisicamente solo, isolato, e abbandonato da tutti per poter anche solo concepire, se non iniziare, un qualsiasi progetto intellettuale”

ci conosciamo da 15 o forse 20 anni, ricordo il nostro primo incontro, in chiesa, a Clusone, lui autore delle foto e io dei testi di un librone serissimo sulle basiliche barocche,

me lo ritrovo poi a Milano, a sbevazzare con Jean Baudrillard nella redazione chic di un amico comune, l’editore Fausto Lupetti, lo specialista dell’editoria di comunicazione… si lavorava per grandi clienti, Coca-Cola, Citroen, ultimi strascichi della Milano da bere, modelle e martini, jazz e design, e i due mi confessano senza vergogna e quasi con orgoglio che 20 anni prima erano compagni attivisti del PDUP o del PSIUP, partiti marxisti leninisti extraparlamentari, per la rivoluzione proletaria…

ogni due o tre anni ci capita di lavorare insieme, in posti strani, cimiteri, fabbriche chimiche, piazzole d’autostrada, “non luoghi” che lui fotografa e io racconto,

ci prendiamo per il culo con affetto, lui fa delle foto “artistiche” mosse e sfuocate, che io definisco lo stile alzheimer, lui mi dice “sei bravo a far poesia col tasto dell’a capo” oppure “cosa avresti fatto senza Ungaretti?”

qualche giorno fa l’uomo mi chiama e mi dice: senti Leone, dammi un tuo parere, stavo pensando di organizzare delle serate in giardino per parlare di fotografia, pensavo di fare la prima mercoledi prossimo, con questo tema: “ma siamo davvero sicuri che l’invenzione della fotografia abbia giovato all’umanità?”

gli dico: bellissimo tema, sottotitolo: affermato professionista aspirante pensionato cerca buona scusa per cambiare mestiere (e infatti sta scrivendo un libro),

comunque gli dico: ti appoggio (ho imparato a dire ti appoggio dalle nuove generazioni, ma non me lo sento proprio naturale)

e lui: pensi di venire, dai vieni! e io: ma certo, vengo volentieri, se c’è qualcosa da bere anche più volentieri,

poi ieri mi arriva l’invito di cui sopra, che inizia con un obbiettivo con 2b, che io detesto, anche se è ammesso, e finisce col mio nome e cognome con l’infamante qualifica di scrittore,

dovrei chiamarlo e dirgli sei pazzo, cos’hai capito, in quel mentre lui mi chiama, se la ride, mi dice che sono arrivate tantissime adesioni, e a questo punto potrei ancora dirgli sei pazzo, cos’hai capito, io non ho niente da dire sulla fotografia, tantomeno ai tuoi amici sessantottini, ma lui capisce senza che io abbia bisogno di parlare, e mi dice ma dai Leone, tu vieni a parlare con me come facciamo sempre davanti a un bicchiere, cosa te ne frega se ci sono intorno trenta persone, e a quel punto no nce l’ho più fatta a dirgli sei pazzo, non vengo,

dunque gli ho detto che ci andrò, e ci andrò, e così pubblico questo post come un invito-appello, una richiesta di solidarietà, d’aiuto: quello che chiedo è:

1) risposte, anche brevi, alla domanda oggetto della serata: siamo sicuri che l’invenzione della fotografia… le potete pubblicare qui come commento, o sul fb calepiopress, o mandandomi mail a l.belotti@multi-consult.it: così io leggerò le risposte arrivate, citando l’autore, e avrò così dato un contributo di “reporter”

2) una persona caritatevole automunita che oggi verso le h17 mi accompagni da Bergamo centro al Fidanza garden a Lonno (12km c.ca) come da invito (please sms a 349.4015089)

3) eventualmente, arditamente, una persona interessata al tema, che mi sostituisca, facendo finta di essere me, o un altro scrittore in mia vece, dal momento che io ho una gamba rotta e difficoltà a muovermi (e anche a parlare in pubblico).

Italcementi sapendo di mentire

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italcementi2

(monologo del vecchio professore, in una classe di Liceo, sventolando alla classe la prima pagina de L’eco con la notizia della cessione dell’Italcement ai tedeschi)

Italcementi sapendo di mentire,

il significato è chiaro e trasparente come il cemento tecnico,

parliamo della più grande azienda del territorio,

parliamo di uno dei più grandi produttori europei di cemento:

dopo aver scavato tutto lo scavabile, inquinato tutto l’inquinabile,

guadagnato tutto il guadagnabile, licenziato tutto il licenziabile,

il padrone vende baracca e burattini, come un impresario da quattro soldi,

e la città degli edili perde la sua materia prima, da un giorno all’altro,

senza che nessuno ne sapesse niente, e sono tutti contenti

perchè andiamo verso il futuro, con la locomotiva d’europa,

e poi qui da noi rimane la fondazione: e questa è la presa in giro,

è la goccia che fa traboccare il vaso, è la ciliegina che ti strozza…

ecco la Repubblica fondata sul lavoro, generazioni di lavoratori che hanno lavorato una vita, e non pochi sono crepati di malattie causate dal lavoro, per rendere il padrone, un solo uomo, ricco in una maniera eticamente e socialmente insostenibile… cose dell’Ottocento…

fosse ancora vivo quel fascista di mio padre, mi sembra di sentirlo: quando c’era Lui, una cosa del genere sarebbe stata impensabile, vendere allo straniero! Azienda espropriata, e nazionalizzata, imprenditore al confino, e la ricchezza prodotta resta dov’è, mentre adesso, dimmi tu cosa farà quello lì con tutti quei soldi che puzzano del sudore di generazioni di lavoratori? Ma quale Repubblica fondata sul lavoro, questa è una Privativa fondata sul gioco d’azzardo!

Ha ragione il vecchio… nemmeno ai tempi degli anni di piombo, però, sarebbe stata possibile una cosa del genere…

No ragazzi,i voi non avete capito quello che è successo,

Carlo Pesenti che vende l’Italcementi per i bergamaschi è una tragedia, perchè fino ad oggi ci avevano sempre parlato delle nostre aziende, delle nostre imprese,  quando c’era da soffrire, da fare sacrifici, erano nostre, quando erano un problema erano nostre, adesso che sono una risorsa ecco che appartengono al proprietario legittimo…

nemmeno un re può fare quello che fa un re del cemento, come se Carlo d’Inghilterra appena salito al trono vendesse l’Inghilterra…

ma la cosa orribile è che si tratta di un messaggio deprimente, di una manifestazione d’impotenza,  è come se dicesse:

non sono in grado di fare l’industriale, vendo, e faccio il finanziere!

capite, immaginate i danni che potrà fare come finanziere uno che non sa fare l’industriale,

perchè adesso con quei miliardi in tasca c’è il rischio che faccia fare alla nostra economia la fine che Moratti ha fatto fare all’Inter, drogata di soldi, investimenti senza idee, senza carattere, senza ambizione, pensando di vincere facile, schiacciando la concorrenza…

e questo  con un governo di sinistra, in una città cattolica che promette pace e solidarietà,

mentre  i sindacati sono troppo impegnati a fare le denunce dei redditi…

e adesso volete sapere cosa c’entra l’Italcementi con la nostra ora di storia e letteratura, benissimo, e allora aprite Dante,  canto VI del Purgatorio:

Ahi , serva Italia….

il telefono che uso da 10 anni

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NokiaLeo

Il telefono che uso da 10 anni (15.000 sms inviati, 35.000 ricevuti, oltre 500 nomi in agenda) era già superato quando l’ho comprato. Prima ho avuto un Motorola usato, di quelli grossi come un walkie-talkie, che non è durato tanto.

Non saprei dire di preciso quando ho cominciato a diventare un consumatore di retroguardia, una volta anch’io ero un giovane all’avanguardia in fatto di tecnologia, abbigliamento, mobilità, mode culturali…

Forse è successo ai tempi dell’università, andando fuori corso, sì, è stato allora; o forse c’entra anche il crollo del comunismo, e la conseguente modulazione dell’imprinting anti-capitalista in rifiuto dell’omologazione consumista.

Non si tratta di una forma di integralismo, ma di resistenza passiva: essere alla retroguardia non significa essere fuori dal proprio tempo, ma arrivare per ultimi, adottare l’usanza comune quando è generalizzata, quasi per deriva, una resa al prodotto inevitabile, mentre chi è all’avanguardia è già due gradini oltre.

Il ciclo dei consumi, come quello della moda, prevede una nicchia di innovatori, cui segue la massa, e infine la nicchia della retroguardia.

Ora che quasi tutti hanno lo smartphone o l’iphone, anche noi della vecchia guardia, uno ad uno, ci arrenderemo all’usanza diffusa, e verremo normalizzati.

A un certo punto sei obbligato, e devi cedere: da mesi la Vodafone mi manda messaggi intimidatori: sappiamo tutto, solo per te il nuovo Galaxy gratis, cosa aspetti! Che domande! Aspettavo il decennale!

Nel frattempo, in condizione di handicap tecnologico, noi retrogradi in questi 10 anni abbiamo potuto osservare come è cambiata la vita dei nostri simili, e arrivare consapevoli, preparati al cambio  di vita: perchè è indubbio che l’innovazione tecnologica ti cambia la vita, e non sempre in meglio, come tutti prima o poi abbiamo potuto sperimentare.

Il mezzo è il messaggio, anche in questo caso: in un mondo dove tutti sono sempre reperibili e responsive, messaggi non in linea con il mezzo, come “please rispondimi su sms” “sarò off line fino a domani mattina” “mandami la foto via mail” “vediamoci martedì senza ulteriore avviso” vengono sempre ignorati dall’utente umano che ormai è tutt’uno con il mezzo.

Il mito delle reperibilità, iniziato con il cercapersone, oggi è una realtà totalizzante.

Nell’arco di questo decennio siamo cambiati. Poter mandare parole sempre a chiunque in ogni luogo ci ha fatto perdere il valore della parola data, e precipitare nello stress degli  appuntamenti elastici (“chiamami quando parti, chiamami quando arrivi”).

Eravamo esseri umani, con 5 sensi e 1 anima, e siamo diventati periferiche di un’intelligenza artificiale eterea, fatta di programmi, server e memorie che stanno tra le nuvole, proprio come la forma suprema d’intelligenza che programmiamo da millenni: Dio.

Eppure, nonostante sia (o appaia) sempre più accelerato, alla fine il nostro tempo ha sempre la stessa unità di misura e di senso: il decennio

Noi viviamo le nostre vite misurandoci sul decennio.

Pensiamo a noi stessi, a “come eravamo” a 20 anni, a 30 anni, a 40 anni. Gli stessi oggetti d’uso quotidiani, prima del consumismo, duravano un decenni, e accompagnandoci segnavano il nostro tempo.

Non solo la storia personale, ma anche la storia collettiva, la grande storia, è scritta sui decenni: basta dire gli anni 20, gli anni 30, gli anni 40 ed ecco le avanguardie, i totalitarismi, la guerra mondiale, poi gli anni, 50, 60, 70, 80, il boom economico, la dolce vita, gli anni di piombo e il made in Italy.

Il fatto è questo: 10 anni sono un pezzo di storia, e oggi né i nostri oggetti-feticcio, né le tendenze culturali arrivano a durare un decennio, a maturare.

Il decennio è un tempo-prova, un “periodo”, un principio cognitivo.

Tutti ricordiamo che a un certo punto nei libri di storia, al liceo, c’era un capitolo della storia d’Italia intitolato “il decennio preparatorio”, che racconta come si siano gettate le basi dell’Unità d’Italia tra le sommosse del 48 e la spedizione dei Mille del 1861.

Quel primo tratto di storia d’Italia, quel lungo decennio di anteprima all’impresa dei Mille, costituisce una metafora perfetta, nel suo sviluppo non lineare, ma circolare, di quelle  “micro-storie d’italia” che saranno le imprese del made in Italy: un’idea/sentimento d’innesco, il contagio/condivisione, quindi la fase difficile, l’epoca in cui l’idea deve diventare grande,  superare l’infanzia, fare presa nella realtà, resistere alla tipica dinamica di caduta dell’entusiasmo in corrispondenza della costruzione del consenso…

Se supera il decennio preparatorio, un’idea, un prodotto, un’azienda diventa adulta.

Ma la mortalità infantile del made in italy è sempre stata altissima. E anche nelle nostre vite private, spesso viviamo progetti di vita che non arrivano al decennio, in amore, nel lavoro, e poi ricominciamo. Cambiamo telefono, e cominciamo un nuovo gioco. Siamo eterni bambini, noi italiani.

Ma ci dimentichiamo della mission più importante dell’essere bambini: dire la verità, avere l’incoscienza di gridare che “il re è nudo”.

Photo: il mio telefono. Infilato nel Nokia: “faccine” by J.Gandossi, che ora uso come agenda-memo, col n. di tel. sul retro, dopo aver appurato che più della metà dei 500 n. in agenda… non so più chi siano!)