47 tentativi fallimentari d’impresa culturale – 8

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8 ghost writing – scrivere nell’ombra

 Nel frattempo continuo a lavorare come copy, soprattutto come ghost copy, per architetti, imprenditori, designer, sociologi che tengono rubriche o scrivono prefazioni.

Per darti un’idea, un noto professionista che viaggiava molto teneva una rubrica su un periodico prestigioso, mi dava materiale di seconda mano dai suoi viaggi di piacere (le brochure che prendeva nei musei, senza visitarli) che io trasformavo in viaggi nella cultura, costruivo cinque cartelle di fumo, lui le leggeva, segnava degli “Ok” a margine, in base a questi “Ok” confezionavo due cartelle “Ok” e prendevo le mie duecentomila lire.

Alla fine, se le p.r. hanno lavorato bene, l’editore può pagare anche due milioni per l’articolo del noto professionista.

Ti ricordo che un collaboratore-giornalista, per queste due cartelle, in quegli anni prendeva ventimila lire.

Questo per invitarti a riflettere sulla merce-comunicazione: la stessa quantità di merce viene pagata uno al reporter, dieci al copy, cento all’imprenditore-pubblicitario-p.r.

A te le riflessioni sui reali rapporti di forza tra informazione, linguaggi creativi e finanza.

Crisi.

Il ghost writer in realtà eroga una prestazione di tipo sessuale, può essere una marchetta last minute (una prefazione, un discorso, una replica) o un rapporto di concubinaggio continuativo per mesi o anni (una tesi, un libro, una rubrica fissa, o anche un corso universitario, e diventi una specie di ultra-iulm super-tutor per docenti che non hanno tempo o non sanno scrivere).

Il cliente-patron può essere un personaggio dello spettacolo, un professionista (architetti, chirurghi, avvocati), un imprenditore, un manager, un guru.

Il contatto può essere tramite un’agenzia pubblicitaria, un intermediario, una casa editrice.

Ho scritto libri frequentendo “l’autore” in modo quasi familiare con incontri settimanali per periodi anche di sei mesi, con viaggi e vacanze di lavoro in yacht,

ma anche libri interi senza mai uscire dal mio bunker e senza aver mai parlato né conosciuto “l’autore”, ma interfacciandomi con l’agenzia, o l’editore, secondo un timing stabilito (progetto, anticipo, struttura, prima stesura, seconda tranche, stesura definitiva, revisione, saldo) nell’arco di 1-2 mesi.

Altre volte il ghost writer diventa un agente speciale che viene chiamato per le mission impossibile, riscrivere la presentazione di un progetto, un manifesto d’intenti, una proposta di legge, un codice deontologico, un cartello di sponsor, un sito istituzionale …

diciamo qualsiasi cosa che per un qualsiasi motivo richiede  un intervento anonimo, immediato, risolutivo.

Di fatto il rapporto tra il ghost e il committente, esattamente come quello tra una donna di piacere e il suo cliente, è destinato a rimanere clandestino e a interrompersi.

A un certo punto la figura del ghost diventa troppo invasiva, a livello psichico, per il cliente, che inconsciamente si sente questo nuovo cordone ombelicale da tagliare.

Anche il ghost, a un certo punto, quando ormai ha perfezionato lo stile di scrittura su misura del cliente, e si rende conto che ormai quell’autore virtuale è presente come un alien, desidera liberarsene.

Quindi difficilmente, facendo il ghost, arrivi a emanciparti da prostituta a moglie, cioè a figura dichiarata e contrattualizzata a tempo indeterminato.

Proprio come quello di una cortigiana, il menage del ghost professionista è quello di chi ha tre o quattro clienti fedeli, più qualche chiamata per prestazioni superiori.

Crisi.

 

47 tentativi fallimentari d’impresa culturale – 3

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3 giornalismo dilettantelo scontro col potere

Nei successivi otto anni di medie e liceo non scrivo più niente e nemmeno leggo niente (prima divoravo un corsaro nero ogni due giorni) a causa di un trauma educativo occorsomi nella mia prima e unica esperienza di vacanze estive in colonia di mare, a Milano Marittima.

Invece di giocare con gli altri ragazzini, mi isolavo in pineta a leggere, quando ecco che mi ritrovo circondato da una folla inferocita di bambini e suore.

“Eccolo! E’ lui!”. Mi portano dalla madre superiora. Mi accusano del tutto assurdamente di aver spinto un bambino giù dallo scivolo (dalla parte della scaletta). Il poveretto si è rotto un braccio.

Io non c’entro per nulla, ma ben tre stronzetti testimoniano e giurano contro di me (in precedenza, a tutti e tre avevo detto, non sbagliandomi: “tua mamma è una puttana”).

Ricordo perfettamente le parole della madre superiora:

“oggi la spinta, domani il pugno, a sedici anni il coltello, a diciotto la pistola e la droga, è questo che vuoi diventare, bugiardo e assassino?”

Con entusiasmo avevo risposto: “Si!”.

Ero stato condannato a esser rinchiuso nel sottoscala a leggere Moby Dick alla luce di una lampadina.

Passai le tre settimane rimanenti nel sottoscala, senza leggere una pagina.

Dopo un mese al mare tornai a casa più pallido di com’ero partito, e traumatizzato.

Per otto anni non avrei più letto un libro né scritto una parola se non per dovere scolastico.

Alle medie e alle superiori sono uno studente modello, ottimo alle medie e 60/60 alla maturità con un tema su Juve-Liverpool, finale di coppa campioni giocata a Bruxelles e finita in tragedia per il crollo di una tribuna con un centinaio di morti.

Ricordo l’attacco ultra-retorico: “A Bruxelles è morta l’Europa…”

Nello scantinato nel Liceo Lussana, insieme al compagno Lori fondiamo la “cellula comunista” e stampiamo a ciclostile un foglio dal nome “Segnali di fumo”.

Nell’intervallo mi rivolgo a tutte le ragazzine più carine presentandomi come caporedattore di “Segnali di fumo” e chiedendo un’intervista sull’uso della pillola anticoncezionale.

In un articolo chiedo ufficialmente alla scuola di acquistare pillole e renderle disponibili gratuitamente. Come rappresentante degli studenti, faccio la stessa richiesta in consiglio d’istituto.

Dopo due numeri il preside scopre che le riunioni serali nello scantinato sono diventate un ritrovo di fumatori di hashisc (“Segnali di fumo”), e ci fa chiudere.

Ho idea di studiare matematica, vengo selezionato per la Normale, ma nel corso dell’estate riscopro il piacere della lettura: sono in vacanza con mio zio, sacerdote e cacciatore, io e lui in camper a dire messa in lande slave dimenticate da Dio, unico libro sul camper: “Paludi” di Gide. Una folgorazione.

Decido di iscrivermi a Lettere, Statale di Milano, con l’obiettivo di guadagnarmi il pane scrivendo.

Crisi.

Nel frattempo, me ne vado di casa, e mi mantengo lavorando come educatore disabili.

Creo un giornalino “In carrozza!” con resoconti comici delle disavventure quotidiane, stile “quasi amici”, organizzo corse per carrozzelle nella piazza ovale tipo “palio di siena”, e in generale azioni sovversive in luoghi pubblici, e tutto per avere qualcosa da scrivere.

Con la complicità della mamma di un disabile, faccio entrare nottetempo prostitute nel ricovero. Grande divertimento ma gli psicologi comunali non gradiscono.

Crisi.

Mi spostano sui bambini del campo estivo, ed io metto in piedi una nuova redazione di trenta bambini di 6-7 anni. Sul primo numero titolo e apertura con i lamenti dei bambini per la mancanza di fondi del campo estivo.

Quindi organizzo dei blocchi stradali nella via centrale del centro storico (oggi isola pedonale) con i bambini che chiedono una contributo agli automobilisti per un gelato collettivo.

Grande successo di pubblico e grande divertimento dei bambini, ma ancora una volta “i grandi” non gradiscono, e stavolta mi licenziano.

Crisi.

(imago by Monica Marioni)

47 tentativi fallimentari d’impresa culturale – 2

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2 paraletteratura puberale – la scoperta del fantastico

Dopo il maggio 68, d’inverno, col riflusso, passavo tutti i pomeriggi studiando l’Atlante, e già in terza elementare la maestra segnalava con preoccupazione il fatto che io sapessi a memoria tutti gli stati del mondo, superficie, capitale, n. di abitanti.

In quarta mi regalarono un Atlante storico. Dopo pochi mesi sapevo a memoria tutti i papi da S.Pietro a Paolo VI e gli imperatori romani da Augusto a Romolo Augustolo, con tanto di date.

D’estate, dopo la scuola, partivo con la saltafoss (la mountain bike degli anni settanta, sella lunga, ammortizzatori, ruote artigliate, cambio a leva sul telaio) dicevo che andavo all’oratorio e invece mi inoltravo in stradine misteriose tra campi, vigneti, boschi, canali e ferrovie.

La Val Calepio è un distretto pedecollinare tra la Val Cavallina, il lago d’Iseo e la Franciacorta, sulla via che da Bergamo porta a Brescia, città che per me, allora come oggi, rappresenta l’oriente (essendo Venezia l’estremo oriente).

Un giorno con grande eccitazione scopro un passaggio molto avventuroso: entrato clandestinamente, nella scia di un camion, nell’area del cotonificio Niggler&Kupfer in località Capriolo, avevo seguito il sentiero lungo il canale fino alla diga pedalando a rotta di collo per sfuggire al guardiano che mi inseguiva.

Mi ero così ritrovato, con l’adrenalina a mille, a imboccare e percorrere in bici la sommità del muro diga, larga meno di mezzo metro, senza possibilità di posare i piedi, con le acque gonfie e rapidissime del canale da un lato, e lo strapiombo di una decina di metri sulle basse acque ferme dell’Oglio con spuntoni rocciosi  affioranti sull’altro lato.

Arrivato sull’altra sponda dell’Oglio, le gambe mi tremavano.

Poco dopo mi ero fermato presso un rudere medioevale che un cartello indicava come l’antico Porto Calepio.

Nascosto dalla vegetazione, notai un passaggio scavato nella roccia. Lo imboccai. Con grande meraviglia sopra di me apparve un castello in piena regola, mura, merli, torrioni, ponte levatoio.

Nascosta la bici, mi intrufolo nel castello, mi ritrovo in un salone con grandi vetrate dove un comitiva di persone è tutta presa dal panorama mentre una guida racconta che “qui, il giovane Ambrogio da Calepio, immerso nei libri, fantasticava sul suo futuro..”.

Quell’estate tornai quasi ogni giorno al castello dei conti Calepio a picco sull’Oglio, inespugnabile, e immaginavo il giovane Ambrogio, e mi immedesimavo,

mi calavo nel fossato del castello con una corda per campane che avevo rubato in sagrestia a mio zio prete, quindi prendevo il ripido viottolo che scendeva al porto, e m’imbarcavo raggiungendo Venezia per via d’acqua…

Ripresa la scuola (quinta elementare) passo i pomeriggi scrivendo in bella calligrafia il mio primo romanzo d’avventura e d’amore, “L’impero del sole”,

un intero quadernetto a righe con tanto di illustrazioni dell’autore, copertina, indice, trama nel risvolto (praticamente l’Eneide in versione Val Calepio), colophon della “casa editrice Belotti”, prezzo di copertina (L.600) e biografia dell’autore che suonava così:

“Leone Belotti nacque in Valle del Fico nel 1966 d.C. ed è tuttora vivente. Questo è il suo primo romanzo e lo scrisse a undici anni”.

Ti parlo di questa prima esperienza di baby-romanziere perché si è rivelata fondamentale per farmi capire fin dall’infanzia le potenzialità dei linguaggi creativi:

ero sempre stato un bambino timido e introverso, segretamente innamorato della mia compagna di banco, Lilli, bella ed estroversa.

Prima potenzialità dei linguaggi creativi: vedere la Lilli che legge il mio romanzo con gli occhi illuminati.

Seconda potenzialità: imitare il protagonista del mio libro, e baciare la Lilli.

Terza potenzialità: mettere al lavoro la Lilli, che “copia” il romanzo in cinque copie e le vende alle sue amiche.

Stimolato dal successo, scrivo subito un secondo romanzo, ispirato al film di Hawks “Eroi dell’aria”, visto in televisione.

Un flop totale. Lilli, la mia musa, disse: “Il primo era più bello”. La mia prima stroncatura.

Crisi.

(imago: copia fotostatica tratta da “l’impero del sole” by Leone Belotti, edizioni Belotti 1977, trascritta a mano in 5 copie su quaderni Pigna a righe)