il piatto in cui mangio

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a un certo punto della tua vita sai in che piatto vuoi mangiare, in che tazza vuoi bere,

come cani, si desidera la propria ciotola, primo oggetto di benessere personale:

ricorre oggi un anno esatto da che mangio nel mio piatto, una ciotola con piatto, tazza e tazzina realizzata da un architetto che ha chiuso lo studio di architettura e ha aperto un laboratorio di ceramica;

in questo laboratorio ha ritrovato le sue origini, la sua infanzia nella terra “cotta” del Salento, e soprattutto il senso perfetto del progetto che diventa oggetto.

Quello che io ho ritrovato, invece, è il senso basilare del nutrirsi: questa ciotola ruvida, essenziale, imperfetta, con la sua tazza-bicchiere, e il piatto-vassoio, e la tazzina-bicchierino, che un essere umano, e non una macchina, ha creato per me, mi ha fatto cambiare abitudini alimentari;

da almeno dieci anni mi riproponevo di mangiare sano, potevo arrivarci prima che tutto comincia dal piatto, secondo l’unico dogma che mi è rimasto (il mezzo è il messaggio)

come molti individui randagi, nel “logorio della vita moderna” mi ero abituato a nutrirmi in modo nevrotico e anonimo, mangiando roba EsseLunga in stoviglie Ikea, ma più spesso mangiando direttamente dalle confezioni polistiroliche, bevendo dalle bottiglie, dalle lattine…

Avere una mia ciotola, la mia tazza, come da bambino, è stato il primo passo di uno stradello che mi ha portato a preparare sempre il mio pasto, una specie di rito religioso, una piccola liturgia, apparecchiare, servirmi, nutrirmi, sparecchiare, lavare, riporre, tutte operazioni che avevo perduto (usavo tutti i piatti, si accatastavano nel lavello, con grande pena nel cuore poi li dovevo lavare tutti).

Quando ho avuto il mio set, pensavo alla sua funzione estetica, di oggetti bellini, destinati a fare da portafrutta, o portamatite,

invece dopo il primo uso è diventato il mio oggetto-feticcio, transfert, traghetto verso la consapevolezza alimentare: dunque non le fidanzate bio-gas, non gli amici km0, o i soci equo solidali mi hanno portato a mangiare meglio, più sano, più slow, ma è stato il piatto in cui mangio,

è stato un architetto-vasaio (cultura vasai?) che ha messo il suo lavoro, le sue mani, il suo tempo nel cuocere la terra in forma/funzione di piatto per me.

(photo: il set Ciotoleo sul tavolo Calepio Press. Qui sotto trascrizione della conversazione con Luca Pedone un anno fa  – siamo alla slow comunication! –  all’apertura del suo laboratorio ClayLab in Pignolo)

Luca Pedone: “ho fatto il liceo artistico mille anni fa, lì ho iniziato a manipolare argilla. Poi ti ricordi di essere nato in Puglia… e ogni volta che ci vai ritrovi terracotta, piatti, piattini, forni, rimani sempre affascinato, e hai questo tarlo nella testa, come faranno a campare?

Vado avanti, Università, architettura, sia mai che uno può fare l’artista, vado in Finlandia con una borsa di studio, all’Università di Helsinki ci sono tutti i dipartimenti, interior design, fotografia,  pittura, serigrafia, scultura e c’è anche ceramica, proprio accanto a interior design, e pensavo “che bella cosa”, e spiavo dalla porta del laboratorio;

provo tutti i lab ma mi tengo a distanza da ceramica, non sarò mai in grado, troppo rispetto,

torno in Italia, mi laureo, faccio l’architetto, il grafico, i siti internet, dieci anni a impaginare cataloghi e flyer,

arriva la crisi, 2008, trovo un posto da insegnante in un Istituto privato, ma per tenere lo studio lavoravo per poter lavorare, non per vivere, chiudo, insegno dal 2008 ad oggi,

comincio a sentire il bisogno di sporcarmi le mani, cinque anni fa seguo un corso di somelier, tutti e tre i livelli, e penso che si debba cominciare dalla vigna, non so,

finalmente, per caso, per fato, due anni e mezzo fa il primo corso di ceramica raku: trovo il volantino giallo in colorificio, era per me, il raku una cottura che dovevo fare al Liceo e non avevo mai fatta, così vado, il fascino della terra su di me era vero, da allora non ho staccato la mani dalla terra,

“mani nella terra e testa tra le nuvole”, non voglio arrivare a seguire solo da pensionato la mia strada: proviamo, mi dico, a trasformare la passione in lavoro, camparci, non diventare ricchi;

dopo il corso avanzato faccio il corso base, cotture antiche, inizio ad allestire un piccolo laboratorio in casa, comprando forno, tornio, inondando la casa di polvere, terra,

poi a Firenze,  Certaldo, Varese, scuole internazionali, e capisco che è una strada percorribile, all’estero si laureano in ceramica, e ne fanno un mestiere,

in Italia siamo fermi a una tradizione, non c’è evoluzione,  nella ceramica tradizionale lo scambio non c’è, c’è chiusura, io faccio un pezzo, trovo uno smalto, e mi tengo il segreto: in Italia è così, ognuno deve cominciare da capo, farsi la sua strada, non c’è trasmissione del sapere, condivisione della ricerca,

le nuove generazioni di “creativi” pensano a fare la videoart, fotografia, performance digitali, nessuno riprende le tecniche della terra,

cerco uno spazio, lo trovo, lo metto a posto, devo inventarmi muratore, piastrellista, imbianchino,

apro il laboratorio, uno spazio microscopico, in una via del borgo storico degli artigiani e degli artisti,

oltre ai pezzi che faccio io, è uno spazio per fare corsi, imparare, insegnare, scambiare esperienza,

voglio mettere il lab a disposizione di chiunque voglia cuocersi la sua terra, come una volta i fornai”.