non esistono scale assolute di giudizio, ma solo scale relative.
se i nostri occhi vedessero solo un uniforme infinito campo rosso, non saremmo in grado di riconoscere il colore rosso.
se invece il campo fosse diviso in due parti, una rossa e una di un altro colore, allora potremmo avere la cognizione del rosso.
ne consegue che qualunque giudizio, o valore, è possibile solo grazie ad un contrasto che palesi l’esistenza di un altro valore.
una persona è un imbecille perché è attorniata da altre persone che palesemente sono diverse. in un mondo di soli imbecilli, invece, la cognizione dell’imbecillità è inesistente.
applicando questo principio alla felicità e all’infelicità, per fare un altro esempio, si deduce che una vita di sola felicità non può esistere, perché la felicità esiste solo in relazione all’infelicità. bisogna stare male per poter poi stare bene e capire cosa voglia dire stare bene. oppure: anche i ricchi piangono.
gli uomini, da che mondo è mondo, si ammazzano tra di loro. e se non si ammazzano, quantomeno si insultano, dividendosi spontaneamente in fazioni.
questo almeno è ciò che osserviamo da sempre appena saliamo su un albero e ci prendiamo qualche attimo di respiro tra un’uccisione e l’altra, tra un insulto e l’altro.
se azzardiamo – e noi azzardiamo – possiamo dire che l’umanità si comporta come i colori: tutti d’accordo, dello stesso colore, non possiamo essere, perché sarebbe come non esistere.
ma agli occhi di chi? chi ha bisogno di una guerra per definire giudizi sugli uomini?
temo la risposta sia: ancora noi stessi, gli uomini.
ma tutto questo è letteratura, anche se sempre stuzzicante dal punto di vista intellettuale.
andiamo oltre.
ho letto una volta di un giardino zen giapponese, di quelli con la sabbia pettinata, con dentro N pietre: queste sono disposte in modo tale per cui, da qualunque angolazione le si guardi, se ne vedono (e contano) sempre e solo N meno una.
quando ho sentito la prima volta questa storia mi ha affascinato.
una persona potrebbe passare un’infanzia in quel giardino, contando sempre N-1 pietre, fino al giorno in cui sale su un albero e scopre che in realtà sono N.
e qui introduciamo un concetto nuovo: non solo ogni valore, per esistere, deve essere relativo ad un altro valore, ma può pure essere sbagliato.
questione di punti di vista.
la cosa è molto sottile: io che vivo nel giardino conto N-1 pietre e sbaglio, e chi vive invece su un albero conosce un valore più corretto del mio, assolutamente più correto, e cioè che le pietre in realtà sono N.
e credo che nessuno possa mettere in dubbio questo concetto, una volta salito sull’albero.
insomma questa storia del giardino giapponese ci impone di accettare che esistono valori più o meno corretti, in base al punto di vista. cioè sembra proprio che non possiamo negare che esista una scala assoluta di verità, basata sui punti di vista, e che certi punti di vista ci danno giudizi, valori, più corretti di altri.
e questo non è più letteratura.
questo è un macigno.
perché dice che c’è qualcuno (chi sta sull’albero) che può dire agli altri (quelli che vivono nel giardino) di sbagliare, in modo incontrovertibile. chi sta sull’albero sa di possedere un giudizio migliore di chi sta a terra. tout court.
quindi le scale assolute di giudizio esistono.
l’unica cosa che non esiste è un giudizio supremo, ultimo, perché anche chi sta su un albero potrebbe essere smentito da chi vive in un buco spazio temporale, e chi vive in un buco spazio temporale potrebbe essere smentito dai morti.
in definitiva a cambiare punto di vista non si arriva da nessuna parte, ma quantomeno si capisce chi ha torto.
e in ogni guerra c’è qualcuno che ha torto e qualcuno che ha ragione.
Nostalgia per la maiuscola dopo il punto.
“chissà se i daltonici son persone più equilibrate…”
ciao