il testamento del padre libertino

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RIP brescia 290916 9710 JMR  Nulla è più tragico per me che saperti tormentata da desideri che sei indotta a vincere, secondando la folle idea di sacrificarti, dopo aver perduto gli anni più belli della giovinezza, sposando un uomo che non muoverà un dito per farsi amare e che devi accettare comunque!

No, no, Eugenia, tali doveri non hanno senso: una fanciulla raggiunta l’età della ragione e avuta un’educazione  ella casa paterna, deve essere lasciata libera verso i quindici o i sedici anni di comportarsi come meglio crede e di diventare ciò che vuole.

Cadrai preda del vizio? E che importa! La funzione sociale di una donna che rende felici tutti coloro che la desiderano non è forse più importante di quella di colei che, isolandosi, si concede soltanto al suo sposo?

Il destino della giovane donna è simile a quello della femmina dei lupi: ella deve essere di tutti quelli che la desiderano. Seguiamo l’esempio della natura e delle leggi che regolano la vita degli animali e prendiamo esempio da questi, per una volta!

Eugenia, il tuo corpo appartiene a te e a nessun altro, solo tu potrai giudicare se hai diritto a goderne e a farne godere. Non perdere il tempo più felice della tua vita: sono corti e pochi gli anni felici del piacere!  L’intensità del piacere è tale che ti donerà dolcissime memorie nella vecchiaia.

(da “La filosofia nel boudoir”, Alphonse Francois de Sade, 1795; immagine: cimitero Vantiniano di Brescia, photo by Michele Perletti, http://portraitreportage.weebly.com)

 

pubblicità porno progresso

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barbie

tema: guida in stato d’ebbrezza – birra – motociclisti- comunicazione sociale

concept: la pubblicità progresso per sua natura non si rivolge ai bassi istinti ma ai sentimenti nobili, parlando alla sfera etico-morale-razionale, ma così facendo va contro la natura base della pubblicità, che agisce sulla sfera emotivo-impulsivo-subcosciente. Esempio classico i messaggi “buonisti” tipo: se hai bevuto, fai guidare un amico. E tu pensi: che amico è se mi ha lasciato bere da solo? L’idea è fare una pubblicità progresso no limits, che voglia colpire e convincere di pancia, e non di cuore, o di psiche. In realtà, noi sappiamo perché molta gente, specie  giovane, con l’alcol in circolo si sente in pista. L’abbiamo sperimentato. Dobbiamo trovare qualcosa di più eccitante.

ispirazione: viene per serendipity (trovi una cosa quando ne cerchi un’altra), da un altro brain storming informale: si parlava in zona fumatori del successo di “50 sfumature di grigio”, a fronte di un prosa piatta. Provocatoriamente, qualcuno dice: provate voi copywriters a scrivere un pezzo porno di qualità. Raccolgo subito la sfida, mettendoci il carico:  “non solo ti scrivo un raccontino porno di qualità, ma ci metto dentro anche una morale positiva e un messaggio educativo”.

titoloDONNE CHE CORRONO CON I LUPPOLI

plot (per film 30”; mini-spot 5”; annuncio stampa con body copy):

Strada di montagna all’ora del tramonto, l’aria è frizzante, e il motore chiede di correre. Curva dopo curva, la guida morbida da “giretto romantico in moto” diventa sempre più veloce, aggressiva, ruggente. Hanno bevute due ipa a testa, e quando lei, cioè le mani di lei, e le gambe di lei, si stringono a lui, l’adrenalina schizza a mille, e allora lui spalanca il gas al massimo, e scatena i 100 cavalli del grosso motore.

Due curve, un’impennata, una staccata al limite, lui in trance agonistica, lei avvinghiata a lui, e poi ecco il tornante, lui ha già lo sguardo alla traiettoria d’uscita, ma lei gli fa un gesto deciso, che vuole dire fermarsi, subito.  Scendono dalla moto, si tolgono i caschi, si guardano. Lui, lei, la moto, il muretto. Al di là del muretto, il tramonto perfetto.

Lei, come scusandosi, dice: abbiamo dei bambini a casa. Poi si appoggia al muretto, rivolta al panorama, dandogli le spalle. Il disco del sole è una palla di fuoco che affonda tra le montagne incendiando la valle. Lui si avvicina, la bacia tra il collo e la nuca, con dolcezza.

Lei si slaccia il bottone dei jeans e si arcua come una gatta. Il gesto lo infiamma. Glieli abbassa insieme agli slip, si china, la bacia, la morde, il membro è eretto, si addossa a lei, le succhia il lobo dell’orecchio. Lei si solleva, si apre, si infila una mano tra le gambe e lo guida piano dentro sé. Meglio fare l’amore che un incidente, gli sussurra.

Photo: La Barbie by Ezio Manciucca, categoria Fine Art, serie: La plastica è debole; http://www.eziomanciucca.it/foto/fine-art/98/la-plastica-e-debole/page#

 

 

 

 

Amore e Psiche al tempo di WhatsApp

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Niente telefonate. Tramite WhatsApp, fin dal loro primo incontro si mandano un unico messaggio: Solito posto, solita ora? E la risposta invariabilmente è: Si.

Quando si vedono, non si perdono in domande, discorsi, richieste, promesse, attese. Passano tutto il loro tempo, che non è mai abbastanza, facendo l’amore. Una pura storia d’amore, solo d’amore.

Ma una mattina Psiche, svegliandosi dopo aver sognato i suoi baci, rimirando l’immagine di lui su WhatsApp, gli manda un messaggio che è un ordine, o forse una preghiera: Dimmi che mi ami.

Quando lo riceve, lui diventa di marmo. Non risponde subito. Lascia passare l’intera giornata. Sul far della sera, su WhatsApp, le manda un lungo messaggio. Te lo dice il mio corpo quanto ti amo, quanto ti voglio. Le parole e le aspettative rovinano tutto. Ogni cosa finisce. La malinconia fa parte di me, fa parte dell’amore. Non posso prometterti fedeltà.

Psiche lo rilegge più volte, poi spegne il telefono. Ora anche lei è di marmo. Si guarda allo specchio. Viveva sulle ali di un sogno d’amore. Si ritrova sola in una stanza densa di consapevolezza e malinconia. Un velo plumbeo le avvolge il cuore.

Lo stato d’innocenza è perduto. Il pensiero di lui non le dà più gioia luminosa, ma infinito dolore. Le sue parole – ogni cosa finisce, non posso prometterti fedeltà –  le risuonano come campane funebri, mentre le parole che bramava come acqua nel deserto – ti amo, amo solo te! – non arriveranno mai.

Non dorme. Tra di loro, tra le loro labbra, ci sarà sempre una distanza, una piccola distanza incolmabile. Il cuore le suggerisce il messaggio che gli manderà domani, l’ultimo messaggio. Hai ragione. Il nostro amore è stato bellissimo. Addio!

Quando la mattina accende il telefono per mandarglielo, per prima cosa vede che l’icona di WhatsApp brilla, e nella chat trova tre messaggi che lui le ha inviato nella notte: Hai ragione tu, amore mio. Vincerò ogni paura. Ti amo. Con le dita tremanti, e il cuore in tumulto, gli risponde: basta stronzate e messaggi inutili, vediamoci al solito posto.

(photo, Amore e Psiche, Villa Carlotta)

 

Quando scrivevo romanzi molto veloci

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In fondo al rettilineo, prima della galleria, c’era una delle mie curve preferite. Conoscevo bene quella curva, a medio raggio, stringente, cieca, a destra, con la parete rocciosa da una parte e lo strapiombo sulle acque del Brembo river dall’altra. Una maledetta curva assassina, disassata, pericolosa, spesso scivolosa, con buche ai margini e brecciolino in carreggiata. Era una curva da prendere a 90-95 km/h in condizioni ideali.

Diedi un occhio rapido al tachimetro e realizzai che ci stavo volando dentro a 140 km/h pieni. Quando sei abituato a spremere al massimo i 30 cavalli scarsi del tuo 125, e ti dimentichi di essere su una belva da 110 cavalli, succedono cose come queste: ti rendi conto troppo tardi che stai entrando in curva troppo veloce per le leggi della fisica.

Mollai di colpo il gas e mi avvinghiai ai freni scalando a martello una marcia dietro l’altra. Un attimo prima ero un genio che voleva migliorare la staccata a gas spalancato. Adesso ero un idiota nel panico disperatamente appeso ai freni.

Le forcelle cominciarono a sbacchettare come martelli pneumatici. Cercai di esercitare una forza mostruosa sul manubrio, col risultato che già ai 60 metri i due dischi anteriori – due poveri Brembo di serie da 260 mm – mandavano bagliori arroventati. Stavano collassando. Ma soprattutto i 110 cavalli che avevo tra le gambe, pazzi di dolore per le mie violente scalate, ululavano come mandrie al macello, e parevano in procinto di sbiellare i due cilindri nei quali erano imbrigliati. Già mi immaginavo il carter sinistro esplodermi sulla caviglia, tra le altre cose.

Ad ogni modo, in questa situazione, e senza mollare i freni, buttai giù la moto in piega estrema, così, di colpo, con grande sangue freddo e anche con un certo sfoggio di tecnica speedway. La ruota posteriore cominciò a slittare e a saltellare come un bob su una pista con le gobbe. Tutto il retrotreno stava partendo in sovrasterzo: avrei dovuto controsterzare di avantreno per stare in carreggiata, ma avrei così innescato il noto effetto crazy horse, quando la moto si imbizzarrisce e ti disarciona esattamente come farebbe uno stallone selvaggio.

Ero nell’istante prima della caduta, quando hai la massima tensione e la piena consapevolezza, frutto d’esperienze già avute, che una sola impercettibile pressione sbagliata sul freno o sul gas significa essere catapultati in aria come il pilota di un caccia quando preme l’eject.

Fu proprio in quell’istante, mentre stavo per cadere, che, alzando gli occhi alla strada, dall’altra parte della carreggiata mi vidi apparire frontalmente e in tutto il suo splendore non già la Madonna, e nemmeno Atalanta, bensì la nota e massiccia sagoma di un furgone combinato modello magut, alla tipica andatura allegra noter gà mia tép de pèrd, con tre hulk in canottiera piantati nella cabina e i manici dei badili sporgenti mezzo metro fuori dal cassone, dalla mia parte.

Che cosa ci faceva un furgone magut di domenica mattina all’alba, in assetto da cantiere? Evidentemente stavano costruendo 18 villette a schiera nel fine settimana, ma sarebbero arrivati in ritardo quella domenica mattina, perché un sedicenne in moto si sarebbe spatarrato sul muso del loro Transit.

Potevo provare a evitare il frontale col Transit dei magut, con probabilità quasi certa di farmi schiacciare sulla roccia dalla mia stessa moto o volare insieme a lei giù dallo strapiombo. Niente poteva salvarmi. Era del tutto impossibile stare nella curva ed evitare il furgone. Era arrivato il momento cruciale.

In un istante ultrarapido nella mia mente si affacciò l’immagine del nonno, nella sua tipica posa da contro-predicatore, con la sua tipica espressione da vecchio gaudente monarcoide. Fin da quando ero bambino, il nonno mi aveva ripetuto: «Nessuna grande impresa è impossibile quando è animata da alti ideali». Me lo diceva quando avevo cinque anni, e a cinque minuti dalla fine perdevamo in casa con la Fidelis Andria, e me l’aveva ripetuto di recente, quando gli avevo chiesto se mai l’Atalanta avrebbe vinto la Champions League. Nessuna grande impresa è impossibile: come un mantra orientale, questa frase si era instillata nel mio cervello, ed era diventata un comandamento morale, un sentimento, un istinto, uno scatto in avanti. Fu questo che mi accese il cervello mentre stavo per ammazzarmi: la grande impresa.

Non c’era tempo per ragionare, né spazio per frenare; restava solo l’incoscienza della grande impresa. Così, davanti al muso del Transit dei magut, già quasi in fase di caduta per i fatti miei, lasciai per un istante che la moto seguisse la sua deriva, il suo istinto ad allargare, e poi iniziai a riprenderla in sbandata controllata, o derapagè. Ovviamente questa non era la manovra adatta a evitare il furgone. Le nostre traiettorie si sarebbero incontrate a centro curva, da manuale del frontale mortale. E qui ringrazio il Dio dei Magut, perché il driver in canotta comprese al volo la situazione, a invece di cercare di frenare o schivarmi – cosa che non avrebbe comunque impedito l’impatto – sterzò deciso all’interno, sicché io gli sfilai all’esterno, cioè dall’altra parte della carreggiata, all’inglese: manovra da urlo e oltre ogni codice, una cosa da tunnel dell’orrore, con il muso del furgone che ti si fionda davanti agli occhi e schizza via come un fotogramma.

Ero miracolosamente riuscito a infilarmi tra il furgone e il gard rail, sul lato strapiombo. Ora mi restava il secondo problema, cioè stare nella curva e non volare fuori per la tangente e giù dal dirupo roccioso verso le pozze verdi di acqua gelida ottanta metri più in basso. E qui ringrazio il Dio della Playstation che mi ha insegnato la guida di sponda, usando il gard rail come fosse il muretto-guida di una pista da micromachines. Dunque con la tranquillità dell’adolescente alla consolle presi a saggiare e strisciare il gard rail facendo skating col ginocchio sinistro – protetto dalle saponette para-rotul rinforzate con inserti di borchie metalliche – mentre la Yama riprendeva quel minimo di aderenza che mi diede la possibilità, subito sfruttata, di controsterzare, dare gas, e uscire a cannone dalla maledetta curva giusto mezzo metro prima del diabolico muretto, perché anche quando non ci sono più altri pericoli, anche quando hai evitato il frontale e lo strapiombo, c’è sempre un diabolico muretto killer ai lati della strada.

Nel breve rettilineo dopo la curva, a sessanta all’ora, le gambe mi tremavano come lenzuola stese al vento. La strada era sgombra e la moto aveva ripreso il suo assetto normale. Mi fermai sul ciglio della strada. Avevo distrutto la parte sinistra della tuta-salopette in pelle vintage, la saponetta era completamente abrasa, lo scarico ammaccato e il convogliatore d’aria in carbonio sfasciato.

Niente di grave sul lato danni fisici e materiali, ma uno sfacelo sul versante danni psichici. La mia carriera di centauro era ad un bivio. Avevo compiuto la grande impresa numero uno. Avevo portato in salvo i ciàp. Ero stato grande, e il nonno mi aveva come sempre ispirato, ma la mia manovra da urlo non sarebbe servita a niente se non fossi stato aiutato dall’alto. La Dea mi aveva salvato, era chiaro, proprio come nell’Iliade e nell’Odissea, quando le Dee si innamoravano di un guerriero mortale, e deviavano le frecce avverse.

Capivo che potevo essere morto, o restare traumatizzato a vita. Potevo non salir mai più su una moto o risalirci subito. Pensai di nuovo alla Dea, alla mia Dea personale che stavo per rivedere.

L’ultima volta che ci eravamo visti, quasi tre mesi prima, era salita dietro di me sul Caballero Competizione. Sull’onda di questo flashback la mia naturale idiozia di sedicenne ebbe il sopravvento: infilai la testa nel casco, balzai in sella come Zorro e con gesto sincronizzato avviai il motore, spalancai il gas e mollai la frizione.

La ruota posteriore, dopo aver frullato a vuoto come un frullatore senza frutta, fece presa e sparò in avanti me e la Yama come un’unica bestia che ruggisce e balza in avanti protesa e affamata. Divorai quel che restava del rettilineo in accelerazione rabbiosa con impennata continua e innesti al volo di prima, seconda e terza marcia. In fin di rettilineo planai dolcemente in carreggiata e lo stomaco, che era giunto in gola, ritornò al suo posto. Quindi mi alzai in piedi sulle pedane con l’idea di sgranchirmi, ruttare e scoreggiare. Ma sul bordo della strada vidi due ragazzini che mi osservavano a bocca aperta. Cosa ci facevano due ragazzini, uno bianco e uno nero, all’alba sui bordi della strada? Allora feci loro un cenno di saluto papale, con pollice, indice e medio in outsourcing, poi diedi gas stando in piedi sulle pedane per un’ultima penna trionfale prima di uscire dalla loro visuale.

(tratto da “Rapina al casinò”, by Leone Belotti 1993, classificatosi secondo al Premio Tedeschi Mondadori per il miglior giallo dell’anno. Vincitore quell’anno risultò Carlo Lucarelli. L’anno successivo, di nuovo arrivai secondo. Non contento, partecipai una terza volta. Arrivai secondo, e smisi di scrivere gialli d’azione.

Domenica scorsa, dopo aver perorato su questo blog l’idea di chiudere ai motori le Mura di Bergamo, con perfetta coerenza italiana, sono andato a farmi il mio giretto in moto sulle Mura, con la mia vecchia Yamati, ibrido telaio tipo Ducati e motore Yamaha TDM, quasi 20 anni su strada e 100.000 chilometri senza un problema.

Vedo questo fotografo con grande zoom che dal bordo strada mentre passo mi fotografa a ripetizione. Quando torno indietro lo rivedo, mi fermo, è giovane, mi dice di essere russo, si chiama Dimitri, indossa una maglietta Ducati, sta girando il mondo in compagnia di una bellissima ragazza, seguendo un progetto preciso, fotografare motociclisti di ogni paese.

Per questa sua capacità e voglia di mettere insieme le sue passioni, la fotografia e la moto (e la ragazza…) mi ricorda me alla sua età, quando scrivevo romanzi molto veloci, in venti giorni, con protagoniste le motociclette.

Ci scambiamo la mail, gli chiedo di mandarmi qualche scatto. Spesso queste promesse restano tali. Invece stamattina trovo le foto che mi ha fatto. Grazie Dimitri, se nel tuo giro del mondo ripassi da Bergamo, casa mia è casa tua!)

Photo by Dimitri Moseychuk; Instagram: @seitengewehr_98k – Facebook: https://www.facebook.com/dmitry.moseychuk.9

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Se le Mura Venete potessero parlare

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BGterrazzaUmanità

Se la cosa fosse avvenuta spontaneamente, l’accetteremmo; la lingua è una cosa viva, niente è immutabile. Ma che la cosa sia frutto di una scelta dall’alto, che venga imposta, e con motivazioni così basse, e linguaggio non pertinente (una scelta “stilistica”, la definisce un portavoce istituzionale) ci deprime profondamente.

Cambiare “leggermente” nome alle Mura Venete di Bergamo, creando un falso come le “Mura Veneziane”, che fa subito souvenir, con la motivazione di attirare turisti (considerati come allocchi), mi sembra un’operazione non dignitosa, che non crea valore, ma al contrario squalifica sia il messaggio che l’emittente.

Parliamo del monumento simbolo della città. Vogliamo tutelarlo, promuoverlo valorizzarlo. Noi siamo sognatori. Pensiamo al tracciato pedonale sotto le mura, e immaginiamo i bastioni panoramici come una terrazza dell’umanità, senza auto né asfalto.

E intanto ci sono persone al servizio della città che sui monumenti e sulla nostra identità fanno scelte di marketing adatte a merendine senza valore, cui trovare un naming appetibile. Noi non siamo tra i cacciatori di titoli e medaglie, non riusciamo a entusiasmarci per questa rincorsa al riconoscimento di “patrimonio dell’umanità”, ma se sei convinto che sia un patrimonio dell’umanità, come puoi pensare di cambiargli nome? Come puoi pensare di ristrutturare i parapetti con cemento armato, ed effetto “muretto in stile”.

Non possiamo sentir parlare di scelta “stilistica”. Le Mura Venete sono vere. Le Mura Veneziane suonano false a chilometri di distanza, puzzano di dolciastro come certi profumi. Il fatto è che le Mura Veneziane non esistono. Venezia non ha mura. Sono le Mura di Bergamo, non di Venezia. Bergamo è una città di pietra, non d’acqua.

Questo appello è lanciato dalle Mura a tutti coloro che amano questa città di pietra, e ascoltano i sussurri delle pietre, e i silenzi, e le urla.

Ma il Comune vuole attirare turisti a forza di like, segue la politica dei like, di google, e del SEO.  Bene, se il Comune capisce solo i like, diciamoglielo con i like.  Preferiamo tenerci le Mura Venete. Condivide, et impera!

(qui sotto, riporto un estratto da WALL STRETT 1588, by Max Rebelot:

…e allora perché non far luce sul più gigantesco abuso edilizio mai realizzato a Bergamo,demoliti centinaia di edifici orti vigne cascine monumenti chiese per rinchiudere la città in un enorme inutile muro, succedeva nel 1561,

da preventivo dovevano costare 40.000 ducati ma a fine lavori siamo arrivati al milione, era il 1588, si inaugurava il Viale delle Mura (in english: “wall street”)

mega opera completamente inutile, perché nel frattempo l’invenzione delle armi da sparo le rendeva militarmente superate, mentre il nuovo assetto geopolitico uscito dalla battaglia di Lepanto segnava la fine del ruolo di Bergamo come caposaldo di terraferma della Repubblica Veneta,

il suo vero valore è quello di opera concettuale, la città delle mura, la città dei muratori, la città murata, città chiusa, con i muri in testa,

all’alba della civiltà dei motori il circuito delle Mura ospitava gran premi di auto e moto, poi il soap box rally,

adesso sarebbe ora di chiuderle al traffico, e dare l’esempio della città pedonale,

ecco da cosa ci possono proteggere oggi le mura: dalle auto! Dall’idea superata di libertà come abitacolo mobile privato. Oggi abbiamo capito che la libertà è uscire da quell’abitacolo, gioia di vivere con gli altri, e condividere aria e terra, anima e corpo.

Vogliamo scale mobili, ascensori, piste ciclabili, vie ferrate, trenini elettrici,

per cominciare rimettiamo a posto i parchi e le aree archeologiche di città alta devastate per realizzare parcheggi da ignoranza atavica +  grasso benessere, mix micidiale, da sempre dna delle nostre elites sociali e politiche

poi per godersi veramente il fascino storico-paesaggistico delle mura, ed entrare nello spirito del luogo, ci vorrebbe un servizio di risalita slow-motion, a dorso di mulo

e per la discesa uno scivolo d’acqua diretto, mozzafiato, panoramico, spettacolare, un fast rafting  tra la piscina del Seminario e quella dell’Italcementi, e glielo facciamo inaugurare insieme, a esperti, artisti e assessori..

Visit Bergamo giù dalle Mura

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Le Mura di Bergamo da 455 anni sono e si chiamano Mura Venete, come la Repubblica Veneta, di cui Bergamo è stata, con queste sue Mura, caposaldo di terraferma dal 1428 al 1796.

Veneziane invece sono le tendine, la scrittura, e le brioche alla crema.

Ci voleva il sito di promozione turistica della città, che dovrebbe essere la Crusca del patrimonio storico culturale, per cadere in questa topica, e proprio sul monumento più visibile della città, in predicato di diventare patrimonio dell’umanità.

Da mesi sul sito Visit Bergamo io vedo la home con “Le Mura Veneziane ti aspettano”, e da mesi aspetto che correggano, ma i mesi passano, e le brioche restano lì, indigeste.

Per favore, non ce la faccio più: errata corrige!

Delitto e castigo in 4 sorsi di birra

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Mi mettono davanti una Raskol’nikov, il protagonista del romanzo più famoso di  Dostoevskij: “un’opera dove non esistono personaggi minori, ma dove ogni figura è portatrice di una voce, di una propria potente visione del mondo”.

È stato il critico Michail Bachtin a inventare l’espressione “romanzo polifonico” parlando di Dostoevskij: ogni personaggio rappresenta in qualche modo un’idea, un’ossessione, un punto di vista sulle cose”.

Siamo tutti Raskol’nikov, cioè: compiere un delitto, e passare il resto della vita a cercare di giustificarsi con sé stessi. Tutto è assurdo fin dall’inizio, e la Raskol’nikov è sicuramente una delle birre più strane del pianeta. Tutto strano, tutto illogico in linea con i tempi.

L’unica mentre si beve una Raskol’nikov?  Leggersi la biografia di Dostoevskij. Come si legge una biografia?  La vera lettura è la scrittura che ti fai nella mente quando decidi cosa ti devi ricordare! 4 cose al massimo.

1) A vent’anni è un rivoluzionario e scrive: “Le notti bianche”.

2) A trent’anni sposa una donna ricca, e cosa scrive? “Umiliati e offesi”.

3) A quaranta muore la moglie, lui inseguito per debiti, e scrive: “Delitto e castigo”.

4) A cinquant’anni  riesce ad acquistare una villetta in campagna dove si ritira a scrivere. E cosa scrive? “L’idiota”.

Meglio farsi un’altra  Raskol’nikov. In bocca è salata (sale rosso delle Hawaii!), acida, speziata, lamponata e persino luppolata, ma poco. Una rivisitazione delle classiche Gose di Lipsia. Ha un effetto vieppiù interessante: rende gli uomini più intuitivi e le donne  intelligenti.

testo di Alessandra Corti (ex conversazione con Papa LeoneXIV)

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cosa dicono i morti

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PAntheonB

Se parli con i morti, ti diranno in coro di non andare a trovarli in questi giorni, troppa gente, impossibile far due parole, non trovi neanche parcheggio e il fiorista non ti farà certo lo sconto.

Se approfondisci il discorso, non puoi che essere d’accordo con loro: la festa dei morti appartiene al genere delle festività ipocrite, come la festa della donna e simili, feste che in realtà rivelano la cattiva coscienza di una comunità che ignora i morti, e maltratta le donne.

In realtà, non è la festa dei morti, ma del peggior lato dei vivi: le apparenze. Il vero motivo della visita è fare vedere a parenti e conoscenti che la tomba è curata, i fiori freschi.

Stamattina sul giornale un prelato raccomandava di non lasciare le tombe spoglie…

E così il cimitero in questi giorni è affollato di una massa di individui compunti, affettati di gravità, che si sforzano vanamente di sentire una voce interiore, provare un sentimento, ma presto devono ammettere di non sentire niente, è questo che li rende tristi, e li conferma che venire al cimitero è inutile, è solo una formalità sociale annuale. E il discorso è chiuso.

Invece, chi ascolta le raccomandazione dei morti, e sta a casa, e va a trovarli nei giorni qualsiasi, negli orari qualsiasi, la mattina, o all’ora dell’happy hour, nella quiete, nel silenzio, ritroverà facilmente il dialogo con i propri cari che stanno nell’aldilà, cioè aldilà delle apparenze, aldilà dei luoghi comuni.

Se festa dei morti deve essere, i vivi devono stare fuori. Il giorno dei morti i cimiteri dovrebbero essere chiusi. Altrimenti è la festa dei morti viventi.

Immagine: Cimitero Vantiniano di Brescia, Pantheon rimesso a nuovo con espulsione dei “cittadini non illustri”, preview RIP advisor CTRL magazine next publishing,  ph. by Michele Perletti http://portraitreportage.weebly.com