Sulla pazzia a Bergamo

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Sulla pazzia a Bergamo, dopo aver perso in due mesi i genitori, la figlia, il figlio e la moglie, senti cosa scrive quest’uomo al fratello: per chi lavoro, per chi vivo adesso? Quest’uomo è Donizetti. Dopo vent’anni di lavoro frenetico, a cottimo, di trasferte, di solitudine, quest’uomo ha appena raggiunto tutta la felicità da sempre sognata, il successo, l’agiatezza, la fine dei debiti, l’affetto dei genitori, il grande amore, la gioia della paternità, e in un attimo perde tutto. Ha scritto migliaia di versi tragici, centinaia di arie strazianti, decine di opere liriche ma nel momento in cui si ritrova sul palcoscenico della vita si esprime come un qualsiasi lavoratore bergamasco, con poche semplici parole che pesano come pietre: per chi lavoro, per chi vivo adesso? Non c’è da stupirsi se dopo aver perso tutti, tutti gli affetti, perda anche la testa. Anche un genio come Donizetti può perdere la ragione una volta che gli si è spezzato il cuore. Donizetti evidentemente oltre ad essere un genio è anche un essere umano, cosa che non si può dire di tutti i geni. […] E così un pomeriggio a Parigi comincia letteralmente  a “dare i numeri”, nel corso di una sessione di prove, con sbalzi di umore, momenti d’ira, di tetraggine, di aggressività, lui che è sempre stato estremamente affabile e cordiale, con momenti di confusione conditi di sproloqui, frasi insensate e parole balbettate, lui che è sempre stato così lucido e chiaro nel parlare. Lo rinchiudono in manicomio, finché il fratello riesce a riportarlo a Bergamo, a morire in pace, nella sua terra. […] E qui comincia la pazzia di Bergamo. Seguimi. […] Passano cinquant’anni. Finalmente a cinquant’anni dalla morte, e nel centesimo della nascita, il grande maestro viene riconosciuto e onorato dalla sua città, che dunque gli dedica il teatro, non il teatro “gioiello” di Bergamo alta, ma il vecchio teatro popolare di città bassa, già teatro Riccardi, già teatro Bolognesi. Immagina di essere nel 1897, è la serata d’inaugurazione del nuovo Teatro Donizetti, tutta la città è presente, una serata che si preannuncia storica. L’edificio viene impaginato a nuovo, con la facciata completamente rifatta, in modo da renderlo “importante”, come si dice oggi, e immediatamente riconoscibile, con i titoli delle opere più celebri incisi sotto i finestroni. E grandi lavori di decorazione degli interni, il foyer e i palchi arricchiti di stucchi, dorature, nastri, festoni e  putti; la sala interamente affrescata e dotata di un grande orologio scenografico incastonato al centro dell’arcoscenico. Un intervento totale, che riguarda non solo l’edificio, ma anche lo spazio intorno. Lo spiazzo adiacente al teatro, da sempre adibito a mercato del bestiame, diventa un luogo romantico, un giardinetto romantico con al centro un laghetto romantico che circonda un isolotto romantico. Sull’isolotto si erge un grande basamento di marmo bianco, un palco-privée monumentale per le grandi statue della musa Melopea, ispiratrice della musica, e del nostro, il maestro Gaetano Donizetti. Ti sto parlando del monumento che io ho guardato tutti i giorni per ore intere, dalla mia panchina, un monumento che al di là di Donizetti e della sua musa rappresenta la situazione nella quale ogni creativo si è trovato e si identifica, un uomo e una donna, o comunque due persone, la cosiddetta coppia creativa. C’è sempre una coppia creativa all’origine di un progetto, di un’impresa. C’è il padre del progetto, solitamente il committente, l’imprenditore, il costruttore, e c’è la madre del progetto, l’architetto, il designer, il creativo. Il seme di uno, la pancia di un altro. C’è la musa che dà l’input, l’ispirazione, la storia, e c’è Donizetti che dà l’output, la musica, l’opera. Ogni volta che guardo questo monumento, questa scena d’intimità e di fecondità, dove lei balla per lui e lui scrive per lei, io penso alla Favorita, al quarto atto della Favorita, scritto dal nostro nel corso di una notte, di getto, per così dire. Ed ora, in questa notte del 1897 che si preannuncia storica, dopo aver ammirato il nuovo monumento e la nuova facciata, entriamo in teatro e prepariamoci a vedere la Favorita, non poteva che essere la Favorita l’opera scelta per la serata di inaugurazione del teatro. Dovrà essere il momento culminante di una serie di celebrazioni di tributo. Prima la traslazione delle spoglie mortali dall’anonima tomba del piccolo cimitero di Valtesse al cenotafio monumentale nella Basilica di Santa Maria Maggiore, nel cuore di Bergamo alta. Poi la festa d’inaugurazione della piazza/giardino con il grande monumento. Ed ora la messa in scena della Favorita. Ci siamo. Il grande Toscanini è stato chiamato a dirigere. Il pubblico è in fremente attesa. Il momento del ritorno, della rivincita. Lo spirito inquieto di Donizetti aleggia in sala. L’ora è giunta. Ma il sipario resta chiuso. Il pubblico inizia a rumoreggiare. Si presenta il direttore del teatro annunciando nervosamente che a causa di un’improvvisa indisposizione del maestro Toscanini l’opera sarà diretta dal maestro Pinco Pallino. La platea, i palchi, i loggioni, tutto il teatro ammutolisce. Sconcerto assoluto. Poi un brusìo crescente. In pochi istanti, come un incendio, la verità corre di bocca in bocca. Toscanini si è rifiutato di dirigere. Per rispetto a Donizetti, che pure non ha mai amato. Per rispetto della musica. Nel corso delle prove Toscanini si è irritato sempre più. Alla fine è esploso e ha dato forfait rigettando il suo appannaggio in faccia agli organizzatori per la “inconcepibile mediocrità” dei cantanti e degli orchestrali ingaggiati nell’occasione. La sala esplode. Subissato di fischi, il direttore si ritira. Dai loggioni volano insulti e oggetti di ogni tipo. Le persone in platea abbandonano i loro posti. La rappresentazione è annullata. Un fallimento imperdonabile. Donizetti si sveglia nella tomba, il suo fantasma si aggira sconsolato, senza pace. Doveva essere una serata di festa, di gioia, ma così non è stato. Un destino beffardo, una maledizione crudele sembra perseguitare Donizetti in questo teatro, in questa sala dove  Donizetti da vivo è stato invitato una sola volta, per la messa in scena de “L’esule”. Ti sembra un caso? Questa è la sala e il pubblico che hanno acclamato il suo grande predecessore e denigratore, Vincenzo Bellini, che non perdeva occasione per manifestare il suo disprezzo per Donizetti, invidiandogli il successo internazionale. Questa sala e questo pubblico hanno decretato il trionfo della Norma, che alla Scala era stato un fiasco, e riservato a Bellini, presente in sala, un’ovazione inaudita. Allo stesso modo questa sala e questo pubblico hanno osannato Verdi, l’emergente Verdi, e sancito l’affermazione di Verdi come successore di Donizetti, capace di un più alto livello non solo musicale, ma anche etico-morale, in contrapposizione a Donizetti. Capisci? Questa sala e questo pubblico hanno sempre avuto grande rilevanza nella storia dell’opera lirica, questo è uno dei primi grandi teatri all’italiana, qui hanno allestito le loro prime tutti i grandi maestri, ma non Donizetti, che ha dovuto andare a Napoli, a Parigi per essere acclamato, e alla fine, dei quattro grandi, è stato quello che ha avuto più successo in vita, ma non nella sua città. Donizetti non ha mai avuto il piacere di lanciare una prima di successo nel teatro della sua città, come ad esempio è capitato a Rossini nella sua Pesaro. E quando finalmente hanno deciso di dargli questo tributo, cinquant’anni dopo la morte, hanno chiamato cantanti indegni per la sua Favorita. Non hanno badato a spese nei lavori di facciata, di decorazione, non hanno lesinato in dorature e passamanerie, ma hanno imperdonabilmente trascurato l’aspetto artistico, musicale, la qualità esecutiva della messa in scena. Come trovare pace? E non ti ho detto tutto. Dopo aver perso la testa in vita, Donizetti, in quel terribile 1897, la perde anche da morto. Le sue spoglie mortali sono state traslate in Santa Maria Maggiore, è vero: ma la sua testa, il cranio, è sparito. Qualcuno l’ha rubato, forse pensando di ricavarne il genio, come già successo al divino Mozart. E non è finita. Apri gli occhi, osserva con me, dalla mia panchina, il monumento che immortala Donizetti ispirato dalla musa nell’atto creativo. C’è qualcosa che devi sapere. Lo scultore che l’ha realizzato si chiama Francesco Jerace. Jerace in realtà aveva concepito e realizzato l’opera per la città di Catania, come monumento al catanese Vincenzo Bellini, il grande invidioso, il grande denigratore di Donizetti, ma ad opera finita erano sorti problemi, a Catania non intendevano pagare la cifra richiesta e così Jerace, avendo saputo che a Bergamo si era deciso di celebrare Donizetti, pensò bene di proporlo a Bergamo così com’era, limitandosi a sostituire la testa di Bellini con quella di Donizetti. Povero Gaetano. Sepolto senza la testa, immortalato nel corpo di un altro, e il suo teatro inaugurato tra i fischi e gli insulti. Capisci? Donizetti è partito povero, ed è tornato pazzo. Bergamo è rimasta meschina. Donizetti ha vissuto d’amore, è diventato pazzo per il dolore, è morto per il dolore, questa è la grande verità che la sua città avrebbe dovuto gridare al mondo, e invece Bergamo sottovoce come una serva, come una beghina ripete dicendo e non dicendo, sempre e soltanto alludendo a quella cosa lì: ma quella cosa lì è l’origine del mondo, è la vita! […] Sei mai stato al Donizetti, o in un teatro all’italiana? Hai mai assistito a un’opera lirica?  La verità è che a teatro sei scomodo, non si vede molto bene e ti annoi. Non capisci i dialoghi, non riesci a seguire lo sviluppo della vicenda. Troppe voci, troppi gesti, troppi colori, troppa musica, troppo di tutto. Poi l’azione si spegne, l’orchestra tace, le luci si abbassano e sul palco resta una sola figura, immobile, raccolta. La protagonista, la primadonna. Ora canterà un’aria, la vicenda si ferma, è il momento dell’azione interiore, del sentimento. Come da lontano, percepisci una vibrazione. Una nota, un sospiro, un sussurro che diventa una melodia, un canto. Ti entra nella pelle, ti accende, ti scuote. Improvvisamente capisci tutto, senti tutto, tremi, hai le lacrime agli occhi. Sai che è finzione, sono attori, scene, costumi e vicende inverosimili. Ma i sentimenti e le passioni sono veri, ti toccano, è la tua vita che risuona in questo spazio. Ecco la magia dell’opera. […] Uscendo dal teatro Donizetti, ti ritrovi in un grande spazio scenico, il Sentierone, un palcoscenico che in una cornice di portici racchiude la Bergamo Moderna, la city, le banche, il tribunale, i tavolini dei caffè, le vetrine dei negozi. Se alzi gli occhi oltre la scena, vedrai un fondale fantastico, il profilo di Città Alta, con i palazzi, i campanili, le torri che svettano sulle mura venete.  Tra i portici-scenografia del Sentierone e le quinte-fondale delle Mura Venete va in scena un altro genere di spettacolo, il reality della vita moderna, il via-vai Bergamo Alta-Bergamo Bassa. Capisci? Quando esci dall’edificio-teatro ti ritrovi nella città-teatro. E rileggi l’identità e la fisionomia urbana: la città stessa è un super-teatro fuori scala, in dimensione urbanistica. Sono passati più di cent’anni, la città alta ha cambiato carattere, la città bassa ha cambiato immagine, l’opera lirica ha cambiato funzione. Potrei raccontarti molte altre storie traumatiche, a proposito di questo teatro e di questo spazio. Non c’è solo lo spirito di Donizetti da placare, sul Sentierone. E penso alla follia di Santa Grata che si aggira con in grembo la testa di Sant’Alessandro grondante sangue, perché è così che nasce il Sentierone. E sento le grida che arrivano da via Torquato Tasso, col furioso che da secoli chiede: perché avete voluto infilare la mia statua sotto il Palazzo delle Ragione, vi sembra spiritoso? E sento la voce del Colleoni, dalla roggia che passa qui sotto, da lui realizzata: io volevo farlo abbattere, ma non ho fatto in tempo. Si, il  vecchio Bart voleva far abbattere il Palazzo della Ragione per offrire più visibilità ai suoi Collioni, alla sua cappella e sfondare, dare prospettiva nuova alla piazza, profondità, un’unica piazza dalla Mai alla Mia, dalla biblioteca alla basilica, e invece la piazza è rimasta com’era, asfittica, con la Ragione in mezzo ai Collioni, però è stata ribattezzata, e astutamente, prima si chiamava piazza nuova, dopo è diventata piazza vecchia. Capisci? […] Per chi lavoro, per chi vivo adesso? Da vent’anni passo le notti con gli antichi maestri, palpeggiando vecchi tomi che vanno a pezzi, in polvere. Sulla pazzia a Bergamo sono al settimo volume. Per l’ottava volta nel corso della sua storia il Donizetti sarà rifatto e inaugurato a nuovo. Il genius-loci ha i nervi a fior di pelle.

Ti amo come un cane

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Ti amo come un cane,

incondizionatamente, a prescindere da tutto,

mi addormento ogni sera e mi sveglio ogni giorno

col desiderio del tuo odore e la gioia di essere il tuo cane.

Ti seguirò fedelmente ovunque e ti aspetterò sempre, come un cane,

e anche quando non ci sarò più, sarò ancora con te.

La società del contagio

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Che fare

Fino a quando non accetteremo di mettere in discussione ciò che il virus mette in discussione, non ne usciremo.

Ciò che il virus mette in discussione con la sua azione virale è proprio il cervello e il motore – cioè il sistema operativo – della  nostra organizzazione di vita: la circolazione contagiosa di merci, persone e messaggi.

Colpire, contagiare: per anni, per decenni è stato questo l’obiettivo di ogni messaggio, merce e impresa. Intere generazioni, le nuove generazioni, nate nell’era digitale, cresciute nei social, non hanno avuto altro input che questo: essere virali, diventare influencer, oppure non esistere, nemmeno come persona.

Finché resteremo sotto il dominio di questa dinamica e questa struttura mondiale basata sulla predisposizione personale e collettiva al contagio, saremo esposti a ogni tipo di virus informatico, ambientale e biologico.

La società  del contagio

Noi pensiamo di fare delle scelte sulla base di convinzioni personali, ideologiche o morali e che da queste scelte, dall’insieme di queste scelte, dipenda poi l’orientamento dei sistemi sociali, delle strutture produttive e delle reti commerciali. In realtà la catena gira in direzione esattamente contraria.

Nella società del contagio, come è logico che sia, la funzione dominante è la distribuzione. Quella che un tempo si chiamava GDO, grande distribuzione organizzata, è oggi una formidabile integrazione di reti e mezzi di comunicazione/connessione materiale e immateriale. Da un lato navi, aerei, ferrovie, strade, interporti, centri di stoccaggio, centri commerciali, outlet, distributori automatici; dall’altro reti commerciali, informatiche, telefoniche, televisive, server, satelliti, social network, piattaforme di e.commerce, applicazioni digitali.

Questa macchina mondiale della diffusione pervasiva supera ogni barriera, neutralizza ogni resistenza, annulla ogni identità, arriva ovunque, comunque, a chiunque. Veicola idee, immagini, prodotti, servizi, programmi, mode, medicine e malattie, indifferentemente. Diffonde il contagio, quale che sia, con un’efficacia automaticamente crescente.

La logistica della grande distribuzione è il vero sistema di controllo che determina il nostro sistema produttivo e di consumo, il nostro stile di vita e il suo senso.

Noi siamo il terminale della filiera. Noi non facciamo scelte, non abbiamo alcun controllo. Nell’inconscio, in fondo in fondo, lo sappiamo. Per questo ci sentiamo così impotenti.

Il software élite

Questa super-logistica mondiale è governata da semplici automatismi finanziari programmati per eseguire il software “concentrazione del profitto”.

D’altra parte, il software “condivisione del benessere”, insieme agli altri programmi similari, come le 17 mete dell’ONU, è limitato ad agire nella logistica sussidiaria del consenso, del governo delle coscienze, rispondendo così alla funzione di mitigare, smussare, puntellare e di fatto sostenere il programma/profitto della logistica globale integrata.

Il potere supremo, invisibile e senza nome delle élites finanziarie e tecnologiche ci sta portando senza esitazioni alla catastrofe ambientale, sociale e sanitaria, forse immaginando con perversa lungimiranza una tecno-ecologia terrestre per pochi eletti, e non saranno certo i sub-governi burocratici nazionali o gli organismi internazionali ad alta visibilità a riuscire nell’impresa, che pure è possibile, di fermare tutto questo.

Abbiamo ridotto la politica alla piccola amministrazione trasparente e i politici a brillanti icone di comunicazione: ed ora vorremmo grandi statisti capaci di grandi scelte. Ma non si può chiedere alle anatre di volare come aquile. Non serve prendersela con ministri, governatori e sindaci. Servono gli Olivetti, i Mattei, i Pasolini. Abbiamo bisogno di grandi maestri, grandi leader, non di amministratori condominiali.

Fermare la macchina

Liberarsi totalmente da élites oppressive, passive e irresponsabili: prima della rivoluzione francese era inimmaginabile. Se oggi pare di nuovo tale, significa che siamo nuovamente nell’antico regime. E dunque non ci resta che abbatterlo. Non ci sono altre possibilità. Da anni ogni genere di appello viene sostanzialmente ignorato. Il papa stesso lo ha ricordato nell’ultima enciclica. Eppure al momento ci si limita a voler fermare il virus, non volendo riconoscere la gravità del problema di cui il virus è solo la spia: il punto di non ritorno, la catastrofe irreversibile, globale, ambientale, sociale e sanitaria verso la quale la macchina mondiale ci sta conducendo.

Stiamo correndo verso lo strapiombo su una macchina senza pilota e senza freni. Possiamo bloccarne il motore interrompendo l’alimentazione della filiera logistica globale, e cioè chiudere Amazon, Mac Donald e Deliveroo e tutte le grandi compagnie.

E invece chiudiamo il piccolo negozio, il piccolo bar, isoliamo il produttore diretto, l’artigiano, l’esercente e gli consigliamo di andare a lavorare in un capannone automatico, come servo della macchina. Dovremmo ricostituire le reti di prossimità, e invece le smantelliamo.

Dovremmo imparare a vivere senza le grandi reti globali, e invece le facciamo diventare indispensabili. L’emergenza si autoalimenta e impedisce di attivare quei cambiamenti che permetterebbero di superarla.

Ci serve uno scenario diverso dall’emergenza continua. Quello che ci manca sono le visioni potenti, lucide. Le idee, i progetti, le alternative. Quello che ci serve in realtà è più libertà.

Non saranno i numeri o i pareri degli esperti, e nemmeno le garanzie bancarie, a darci un futuro, perché è questo che ci manca davvero, un futuro, un’idea di futuro.

(Sean Blazer in esclusiva per Calepio Press, testo raccolto da Sophie Rosti)

Visit Bergamo e poi muori

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Poiché in inglese “to visit” significa sia visitare che contagiare, sostiene la mia stagista, il claim “Visit Bergamo” già da sei mesi ottiene un effetto autolesionistico, presentandoci al mondo come città di untori.

In effetti, le dico, il Comune da anni investe sul titolo “Visit Bergamo” giocando proprio sul doppio senso, sull’allusione “vieni e lasciati contagiare da Bergamo”. Poi il covid in poche settimane è riuscito a portarci nella hit dei motori di ricerca.

E non ci si è chiesti, s’infiamma la stagista, l’effetto di questa grande visibilità internazionale di “Visit Bergamo”, cioè “vieni a Bergamo a farti contagiare”? Un effetto spaventosamente macabro, offensivo verso i morti, autolesionista per la città.

Ha ragione, penso. Con questa etichetta che noi stessi ci siamo dati e continuiamo a esibire, non solo nessuno verrà mai più a Bergamo ma chiunque ci chiuderà la porta in faccia appena saprà da dove veniamo.

Nessuno poteva immaginare quello che è successo, le dico.

Ma è successo, mi risponde, e “Visit Bergamo” non sarà mai più suggestivo, sarà sempre Visit Bergamo e poi muori. Troviamo un altro titolo, cambiamolo, interveniamo perché evidentemente Google non è quel gran cervellone che dicono, che capisce tutto e in tutte le lingua e corregge tutti gli errori. Altrimenti avrebbe già processato Visit Bergamo con un re-indirizzamento automatico alla pagina laùr de campane a martèl.

Paura e desiderio

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La paura di accendere il telefono

e sentire una voce stanca che chiede di me

e mi comunica che le mie persone sono decedute

e i corpi sono già in viaggio per essere cremati altrove

e le urne cinerarie mi saranno recapitate a casa

e alla domanda se ho compreso rispondere si

e sapere che la conversazione è terminata.

Il desiderio di spegnere il telefono

e lanciarlo contro lo schermo del computer

e divorare le scale per saltare in sella alla moto

e partire a razzo spalancando la manopola del gas

e volare a duecento all’ora a fari spenti in autostrada

e raggiungere i camion dell’esercito carichi di bare

e sverniciarli gettando al vento le lacrime di tutti.

out of CTRL

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NulloChe

Per quattro anni ho dato l’anima per CTRL, ho creduto di prender parte a qualcosa di molto valido, poi un anno fa mi sono staccato da CTRL in seguito a inconciliabili diversità di vedute sulle scelte che hanno snaturato CTRL. Ho molto sofferto per questo distacco, ma ancora di più mi fa soffrire leggere oggi “stiamo scomparendo”. E mi fa anche molto arrabbiare.

CTRL free fun magazine si proponeva al mercato sghignazzando, diceva al sistema: “una risata vi seppellirà”. Oggi la “rivista letteraria” – nel nome del fu CTRL – supplica il sistema ed elemosina fondi come fosse una categoria protetta.

E per che cosa? Per “mandare degli scrittori e dei fotografi a fare dei reportage” in giro per l’Italia minore “sulle lingue morte”, e poi fare un bel libro foto-testi con i ritratti dei vecchi sdentati. Mi manca la saliva per bestemmiare. Non si fa così. Bisogna rivolgersi alla community per fare le scelte giuste, non per fargli pagare quelle sbagliate.

Dobbiamo dire la verità: non c’è nessun CTRL da salvare, perché CTRL è già morto da mesi, da quando ha rinunciato alla sua identità terra-aria di free fun magazine fuori di testa sovversivo e inconfondibile per trasformarsi in una testata di aria-fritta letteraria, molto seria ma anche piuttosto triste.

Il senso speciale di CTRL fun era in quel mix che non c’è più di cultura da strada e universitaria, topi da biblioteca + tipi da discoteca, rubriche di 1 pagina da leggere in 1 minuto, pisciando in un locale. Le cover story irriverenti sui personaggi storici, il TRIPPA advisor sempre molto scorretto, il RIP advisor ultra-pathos, le turbo minchiate terrible, la gente che le dice gros, l’oroscopo semiotico, il santo del mese, la messa, le pagine psico-porno, posti dove non andare mai, le interviste impossibili, gli eventi, la pubblicità ignorante.

Quell’adorabile CTRL non è stato ucciso dal mercato, dai cattivi, ma dai “buoni” che volevano “elevarlo” e l’hanno snaturato, e oggi in risposta a questo appello “per salvare CTRL” – ma di fatto si sta solo chiedendo di finanziare aspiranti scrittori –  mi viene da rispondere: non nominate CTRL invano, perché allora CTRL si rivolta nella tomba, con tutti quelli che hanno contribuito a crearlo. Sono due notti che non dormo e bestemmio. Dov’è che ho sbagliato? Dovevo pubblicare questo post un anno fa?

Personalmente, per 3-4 anni ho scritto, ideato, creato (con T e i Temp) quasi tutte le adv che hanno sostenuto CTRL, i titoli, gli slogan, le cover, le rubriche veloci, da 1 pagina, il fanta marketing, le porno-pagine, le pubblicità ignoranti, le interviste fotoromanzo, ho ideato le rubriche sulla messa del mese e il santo del giorno, ho inventato e scritto il RIP advisor sui cimiteri etc etc. Dimentico senz’altro molte cose, e vorrei citare le persone, i ragazzi – anche minorenni! – che hanno dato qualcosa di unico, ma non è il momento.

Ho rotto i coglioni per mesi per far capire ai CTRL che serviva una struttura che ne garantisse sostenibilità e sviluppo, prima di tirarmi fuori. Io dicevo: dove sono tutti questi laureati/e in scienze della comunicazione, perché non si trova nessuno che voglia fare il commerciale, l’account, il copy, la creatività pubblicitaria, le pr per fare partnership con le nuove aziende del food, del bio, del green. T ha sempre tenuto in piedi CTRL da solo, trovando e seducendo sempre nuovi inserzionisti. Ma non si poteva andare avanti così. Io dicevo: andiamo in edicola con un prezzo di copertina di 2 euro, e così possiamo avere i finanziamenti pubblici per pagare la stampa, come tutte le testate. Niente, parlavo con i sordi. Io dicevo: facciamo una cooperativa, prendiamo in gestione un centro sociale comunale tipo Polaresco, Edonè o Pilo e ci facciamo dentro il CTRL world, il locale, la stamperia, i concerti, il magazine, i video, le serate dj, le expo vintage, il teatro sperimentale, tutto il cazzo che si vuole, e col gestire il locale concerti + pub + cucina sosteniamo e sviluppiamo la redazione e la testata. Sappiamo tutti che è più facile vendere due birre e un panino che una rivista o un libro. Poi con tre figlioletti di puttana svegli + un vecchio stampatore pazzo avrei voluto creare e stampare ogni maledetta serata il CTRL sera, o la notte CTRL, e offrirlo fresco di stampa all’ora dell’ape, nel locale-factory CTRL. Un locale di culto, concerti, cucina, giochi, teatro, cabaret, concerti sperimentali, editoria, stamperia, legatoria, home made, mercatino vintage, e tutto il cazzo che ti viene in mente, un locale/factory adorato e detestato, ma certamente senza problemi di soldi, lo capisci.

Niente. Non interessava. Mi hanno detto: “Io non sono entrato nella redazione CTRL per fare il barista”. Ok. Va bene. Non c’è bisogno che ti citi Bukowski o Pulp Fiction. Le nostre strade si separano. Ai nuovi intellettuali CTRL che adesso vogliono andare a scrivere in collina l’idea di una vera factory creativa non interessava. All’ultima riunione di redazione cui ho partecipato gli “aspiranti scrittori” e “aspiranti fotoreporter” hanno detto chiaro e tondo di non volersi abbassare a fare la creatività pubblicitaria per gli inserzionisti locali.

Per pagare gli storytelling letterari e i fotoreportage artistici sarebbe bastato attingere ai budget delle grandi aziende nazionali. Elementare. Forse l’avevano letto su qualche manuale di scienze della comunicazione? Come avevamo fatto a non pensarci prima? Mandi una mail alla Barilla, all’Enel, alla Fiat, e subito piovono decinaia di migliaia di euro!

Ciao. Succedeva un anno fa, o poco più. Evidentemente qualcosa è andato storto.

Tolto dai coglioni il vecchio bastardo, si è scelto di fare la rivista letteraria pura, gli abbonamenti. E la cosa non sta in piedi. Non riuscendo a mantenere la promessa della rivista letteraria, adesso si chiede sostegno promettendo di fare un libro su un tema come la moria dei dialetti meridionali.

No, ma ragazzi dite sul serio? Scherzate, ditemi che scherzate, che è un film di Benigni. Perché se si chiede direttamente alla mafia, te lo finanziano subito.  La rivista letteraria, e adesso il libro reportage, vorrebbe campare da nobile con facciata crowfunding, donazioni, fondazioni e aziendone che “senza nulla pretendere in cambio” dovrebbero sovvenzionare lodevolmente iniziative e operatori culturali meritevoli (e politicamente innocui).  Il free fun magazine invece ha campato – e allegramente – per anni in autonomia con il volgarissimo retail pubblicitario locale, urbano e suburbano, e anche di quartiere, con le 200€ del piccolo negozio, del barettino, del pub, dei locali, cioè tutti inserzionisti legati alle tribù e ai consumi giovanili del territorio bg urban&suburban. Non si può chiedere a questi inserzionisti di sovvenzionare una rivista letteraria sui dialetti lucani e gli anziani del molise.

Insieme abbiamo fatto cose bellissime, mi sono dato senza badare alle spese interiori, e anche molto divertito. A un certo punto ho rinunciato ai miei compensi. Un errore. Da quel giorno ho perso autorità.

Ok, avevate il diritto di fare scelte sbagliate. Ma una pubblicazione pre-finanziata annuale! Non si può buttare via così CTRL. Con tutto l’affetto che vi porto: chi vuol fare lo scrittore solitario, o il fotografo in purezza, lo faccia per i fatti suoi, si trovi le sue risorse.

In molti avremmo accettato un CTRL alla conquista del potere, e ancor di più un CTRL duro e puro che combatte il potere. Quello che non possiamo vedere è un CTRL impotente, che si offre come servo del potere (dopo aver disdegnato di servire il popolo!).

Questo progetto “stiamo scomparendo”, questo svendere le copie in archivio: è chiaro che ci si vuole disfare di CTRL. Ma allora si abbia il coraggio. Si metta in vendita il marchio stesso, la proprietà del marchio CTRL.

Quanto vale CTRL? Cosa si può fare con CTRL? Io non voglio vedere scomparire CTRL. Chi vuole scomparire, si faccia da parte, e non trascini CTRL con sé. Io sono pronto a mettere in campo un vero progetto di rilancio del vero CTRL, e non credo di essere l’unico. CTRL serve qui, adesso, alla gente che l’ha creato, seguito, amato. Più dei soldi, servono le persone, le idee, la voglia, l’energia, l’ambizione, l’entusiasmo. C’è da cambiare il mondo, affrontare la realtà, lavorare. C’è da rompere i coglioni, combattere, non fuggire. Essere protagonisti, non vittime. Parlo con te, parlo con tutti. Questo è il momento di farsi avanti.

 

Balilla incipit

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starace Seduto dietro una scrivania che pareva un tempio romano in miniatura, l’uomo era piccolo e all’apparenza molle, ma aveva un potere enorme e muscoli d’acciaio.

«Voglio una bambina di nove, dieci anni»

Alle sue spalle, accanto alla bandiera italiana, una grande aquila reale impagliata su un trespolo sembrava spiccare il volo ad ogni sua parola.

«Deve avere la pelle bianca, bianchissima, gli occhi verdi, e i capelli rossi»

Di fronte a lui, in piedi davanti alla scrivania come militi a rapporto, stavano una donna brutta, di una certa età, e una giovane e bella. Lo ascoltavano rigide, a capo chino, senza osare interromperlo. Prendevano ordini.

«La piccola italiana perfetta sarà di mente vivace, e di carattere docile»

L’uomo si alzò e andò a guardare fuori dalla finestra. Il sole aveva dissolto le nubi che per tutta la mattinata avevano minacciato pioggia.

Il suo sguardo cadde su una famigliola di aristocratici sicuramente inglesi che invece di prendere posto sui nuovi vaporetti pubblici attraversava il Canal Grande a bordo di una gondoletta abusiva.

«Meglio se viene dal popolo, meno problemi, più carattere»

(Incipit de “Il Balilla innamorato”, romanzo di Leone Belotti, edizioni Bolis. Immagine: Achille Starace, vecchia foto tratta dalle Domeniche del Corriere della nonna dell’autore. Il romanzo nasce così, guardando vecchie fotografie di vecchie riviste illustrate, e immaginando storie, come facevo da bambino in solaio. “Anche la creatività è una carenza che ci tiriamo dietro dall’infanzia”.)

Tre notti a Marsiglia con un libro e un incarico

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Marsiglia1

Il libro è “Casino totale”, uno di quei noir che hanno come vero protagonista la città. Marsiglia significa 900mila persone, 1/3 delle quali di origine italiana, e 1/3 di origine maghrebina. Pubblicato nel 1995, fa parte di una trilogia che ha reso Jean Claude Izzo (morto 50enne nel 2000) un autore di culto.

L’incarico riguarda un convegno internazionale che ha per titolo Re-Actor, e riunisce il top management di una holding di aziende italo-franco-tedesche del settore acciaio. Nel concept-intro si legge: “Le aziende della holding sono diverse per storia, nazionalità, tecnologie, dimensioni. In comune hanno l’oggetto di produzione: i profilati d’acciaio.”Il meeting si svolge al Palais du Pharo, imponente edificio neoclassico che domina l’accesso al Fos de Marseille, cioè il porto e il cuore della città.

Fos era l’Eldorado. Di lavoro ce ne sarebbe stato per secoli. Si costruiva un porto che avrebbe accolto enormi petroliere e fabbriche dove fondere tutto l’acciaio d’Europa. Il lavoro era duro, e più arabi c’erano meglio si stava. I vecchi dei cantieri navali si erano fatti riassumere. Italiani, perlopiù sardi, greci, portoghesi, alcuni spagnoli.

Marsiglia ci credeva. Tutte le città limitrofe ci credevano e costruivano case popolari a tutto spiano, scuole, strade per accogliere tutti i lavoratori a cui era stato promesso l’Eldorado. La Francia stessa ci credeva. Al primo lingotto d’acciaio fuso, Fos era già solo un miraggio. L’ultimo grande sogno degli anni Settanta. La più crudele delle delusioni.

Izzo parla degli anni Settanta. La grande crisi petrolifera. Poi vennero i decenni della società post-industriale, dei servizi avanzati e della delocalizzazione. E oggi si parla di Industry 4.0, di reindustrializzazione e automazione. Ma il vero tema guida del convegno è la “diversità” come “reattore” per la costruzione del valore: “Questo meeting ha luogo a Marsiglia per focalizzare la diversità come risorsa e come opportunità. In un mondo che tende all’omogeneità, la diversità è una forza capace di scatenare reazioni, provocare cambiamenti, e favorire l’innovazione di pensiero, di processo e di prodotto”.

A Marsiglia esisteva uno strano francese, una mescolanza di provenzale, italiano, spagnolo e arabo, con una punta di argot e un pizzico di verlan. I ragazzi si capivano alla perfezione con questo linguaggio.

A casa mia si parla napoletano. Da te si parla spagnolo. A scuola impariamo il francese. Ma in fondo cosa siamo? Arabi, aveva riposto Manu. Eravamo scoppiati a ridere.

Ecco la diversità-reactor. Il diverso non come problema, ma come opportunità, scintilla. In realtà, molto dipende dai tempi, dai “mega-trend” socio-economici.

Già a quell’epoca gli arabi non mancavano. Né i neri. Né i vietnamiti. Né gli armeni, i greci, i portoghesi. Ma non c’era problema. Il problema era sorto con la crisi economica. La disoccupazione. Più la disoccupazione aumentava, più si notava che c’erano gli immigrati. E gli arabi sembravano aumentare insieme alla disoccupazione.

Nella sessione plenaria, numeri su numeri che parlano chiaro: gli anni duri della crisi iniziata nel 2009 sono superati. C’è cauto ottimismo, fiducia, desiderio di crescita e d’innovazione.

“Solo tornando a produrre in Europa potremo creare un modello realmente sostenibile, e solo tornando a produrre direttamente e sul nostro territorio beni materiali potremo tornare a produrre valori” (estrema sintesi, mia, della strategia RISE della UE, acronimo di Rinascita Industriale per un’Europa Sostenibile).

La sera mi ritrovo unico uomo tra un centinaio di donne (manager, commerciali e ingegnere europee, americane, asiatiche) al 95% belle o molto belle: è l’incontro sulla diversità di genere, ma anche l’atto costitutivo dell’associazione di categoria delle “donne d’acciaio” (che ha per slogan una citazione da Hemingway: “Di cosa sei fatta tu? Di quello che ami. Più l’acciaio”).

Confinato in un angolo, reporter senza diritto di parola, apprendo che l’industria dell’acciaio, storicamente maschile, nell’immediato futuro aprirà alle donne, a tutti i livelli, anche in fabbrica: con l’automazione all’operaio sarà richiesta meno forza fisica e più capacità gestionale e di controllo, più cervello insomma (hai capito?).

Il secondo giorno sessione motivazionale con i coach, figure che io tendenzialmente aborro, ma forse è un problema di naming, e infatti parlo di tutto con il coach italiano (che viene da Arcore!) e m’innamoro a prima vista e per sempre della coach americana (Oh, Nancy!).

Al tramonto, avendo bisogno della mia droga preferita (la solitudine) vado a fare un giro al vecchio porto. Il bacino ha la forma di una U allungatissima intorno alla quale pulsa la città. Devo camminare mezz’ora per arrivare dall’altra parte. Nel 1905, in euforia-Eiffell, fu costruito un ponte d’acciaio, poi fatto saltare in tempo di guerra.

Il porto fu il terreno di gioco della nostra infanzia. Avevamo imparato a nuotare tra i due forti. La prima volta, Manu e Ugo dovettero venire a ripescarmi. Stavo annegando, senza più fiato. Prima o poi bisognava fare l’andata e ritorno. Per essere uomini. Per far colpo sulle ragazze.

Ogni generazione ha avuto le sue iniziazioni, le prove re-actor d’incontro con l’altro, il diverso, la novità e la paura: da cui viene la  capacità di reagire positivamente e di essere attori del cambiamento, e responsabili verso il futuro. Ma oggi in Italia devi farti accompagnare a scuola dalla mamma fino ai 14 anni. E ti perdi l’unica vera scuola: che è quella che si fa nell’andare a scuola.

Marsiglia è stata contagiata dalla coglionaggine parigina. Sogna di essere capitale. Capitale del Sud. Dimenticando che quel che la rendeva una capitale

era il porto. Incrocio di tutte le mescolanze umane. Da secoli.

Oggi questo “incrocio marsigliese”, modello mediterraneo del melting-pot della grande mela, ha una nuova versione, proiettata al futuro: siamo già all’ultimo giorno di Re-Actor e ci fanno salire su dei bus speciali, ci fanno indossare caschetti e tute, e ci portano a visitare il cantiere di ITER, il mega-reattore condiviso di nuova generazione, la centrale energetica del futuro.

Un progetto gigantesco che ha per soci l’Europa, gli Usa, la Cina, la Russia, il Giappone e la Corea. Su questo set da fantascienza che domani fornirà energia all’Europa lavorano uomini e donne dalle fisionomie nordiche e nordafricane, mediterranee e mediorientali.

Questa era la storia di Marsiglia. Un luogo dove chiunque, di qualsiasi colore, poteva scendere da una barca o da un treno, con la valigia in mano, senza un soldo in tasca, e mescolarsi al flusso degli altri. Una città dove, appena posato il piede a terra, quella persona poteva dire: ci sono, è casa mia.

La guida ci spiega che l’enorme area della centrale non è territorio francese, ma zona internazionale. Tocchiamo con mano i cavi superconduttori e altre gioiellerie titaniche prodotte per questo reattore-cattedrale dalle aziende presenti a Re-Actor (e il naming fa il suo giro!).

La notte prima del rientro non dormo, mi agito, sto male, nel mio stomaco c’è una tauromachia tra il pollo al curry del pranzo e l’anatra all’arancia della cena. Prima dell’alba scendo di nuovo al vecchio porto.Un vecchio mi invita ad andare a pesca con lui. Un barbone triste col cane più triste di lui mi chiede un aiuto, e mi spara un sorriso che gli vale 2€. Mi siedo sul molo a prendere il tepore del primo raggio di sole. L’odore del mare – per reazione! – mi ha rimesso in sesto.

Marsiglia non è una città per turisti. Non c’è niente da vedere. La sua bellezza non si fotografa. Si condivide. Qui bisogna schierarsi. Appassionarsi. Solo allora ciò che c’è da vedere si lascia vedere.

Un ubriacone molesto mi offre l’ultimo sorso di birra e un’invettiva che non afferro. Non capisco un cazzo! – gli dico in italiano, e lui mi risponde ridendo: è perché sei italiano!

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La doppia velocità delle ultime giornate d’agosto

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DuplicdFilare

Risalendo in mountain bike il Serio da Ghisalba a Grassobbio per la sponda occidentale (molto più accidentata e adventures della ciclabile tracciata lungo l’orientale) da qualche parte nei dintorni della Basella di Urgnano infili questo duplice filare con tappeto di foglie e sei in mood rinascimentale: è un attimo convincersi di essere Bartolomeo Colleoni che rientra nei territori della Serenissima dopo aver sbaragliato gli imperiali.

Pochi chilometri prima eri in un altro mondo, guardavi il Serio ma vedevi lo Zambesi e la savana, e ti domandavi dove fossero finiti gli elefanti. Certamente più a sud.

Proseguendo ti ritrovi nella foresta pluviale, senti sparare molto forte e molto vicino. Ti hanno detto che lì c’è il tiro al piattello, ma tu hai paura di essere il soldato Ryan circondato dai vietcong, e continui a pedalare più forte che puoi.

Improvvisamente  sbuchi all’aperto, davanti a una recinzione di filo spinato. L’enorme uccello d’acciaio appare dal nulla, con un boato, e pare volerti schiacciare. Poi leggi le insegne sulla carlinga, e sorridi: è Ryanair che viene a salvarti, soldato.

Osservi l’aereo atterrare, e preghi per quei poveri turisti che per viaggiare sono costretti a fare migliaia di chilometri per mare, per aria e per terra.

In lontananza un elicottero vola basso davanti al sole al tramonto sulla pista BGY: esci da Apocalipse Now, superi il canile, rientri sull’asfalto urbano e in pochi minuti sei a casa.

Stai sveglio la notte, leggi un giallo dietro l’altro, dormi la mattina. Nel primo pomeriggio fai finta di lavorare, provi a lavorare, ma presto rinunci. Ti godi l’accidia e la noia, finché senti un richiamo indefinito ad  uscire.

Prendi la bici, vai a zonzo. Parli senza motivo con persone che non conosci, osservi cose che non avevi mai notato, cerchi un varco nelle strade a fondo chiuso, e ti capitano cose curiose.

Le stesse cose che facevi d’estate a dodici anni. Ogni giornata pare infinita, ma il mese vola via in un attimo.

donne sul piedistallo

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z-suffraggette

L’invito-evento fb dal titolo “Muti… e rassegnati. Il silenzio degli uomini” parlava di “uno spettacolo teatrale seguito da una conferenza esperienziale” con psicologa e regista (donna).

Nella presentazione si dice: “Gli uomini di oggi sono muti” “Persino i più colti sono poco inclini all’interrogazione su di Sé e incapaci di avere un pensiero sulle relazioni e una visione del proprio mondo interiore” “Questo silenzio degli uomini è spesso l’anticamera di una sessualità che può essere compulsiva, estranea a se stessa, separata dai legami, ignara dell’altrui desiderio.” “L’afasia del maschio contemporaneo sembra essere alla base di moltissime problematiche nella relazioni affettive, con i partner e i figli, ed in particolare nelle situazioni più drammatiche di violenza domestica.”

“Due donne, una regista e una psicologa, per strade diverse hanno iniziato una ricerca spinte proprio dal desiderio di esplorare l’interiorità maschile, la prima attraverso un progetto teatrale e la seconda attraverso la conduzione di cerchi di parola per soli uomini.”

Decido di rispondere a questo invito con un commento.  Prima sorpresa, appena digito “pubblica”, compare una scritta con “il tuo commento deve essere approvato dall’amministratore”. Non mi piace. Mi inviti a un evento, mi inviti a commentare, mi inviti a prender parte alla discussione, e dopo che mi sono espresso mi dici che serve la tua approvazione? Dopo due ore seconda sorpresa: il mio commento è stato approvato. Dopo tre ore terza sorpresa: il mio commento è sparito.

Sempre molto umiliante, maschio o femmina che sia, essere censurati.

Ad ogni modo il commento col quale rispondevo all’invito, era questo:

“Grazie dell’invito, ma da quello che leggo – a cominciare dal titolo – vedo una concezione superata del maschio, forse stai parlando del maschio antico, non hai visto la rivoluzione (o devoluzione) del maschio debole: il problema non è il silenzio del maschio, il nuovo maschio parla e straparla anche di sentimenti…

il problema è il fallimento del femminismo, che davvero poteva cambiare il mondo, e invece si è adeguato a una specie di maschilismo femminile furbo e consumista…

il tema della questione maschile è molto interessante, ma non con quei presupposti d’altri tempi… la violenza non viene dal maschio antico, ma dalle nuove tecnologie di comunicazione…

c’è bisogno di un nuovo maschilismo con accezione positiva, in grado di promuovere un nuovo maschio con i valori sia del maschio antico (sicurezza) che del maschio debole (capacità di comunicare) senza i difetti dell’uno e dell’altro…

e poi, sorella, sii sincera, quel titolo “muti, rassegnati, il silenzio degli uomini”… come avresti visto una serata dove gli uomini pretendono di parlare dei problemi delle donne con un titolo come: “isteriche, depresse, il rumore delle donne”. Offensivo, no?