donizetti danger

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Donizzelav La Mia è la più vecchia istituzione della città, fondata nel 1265, al fine di praticare la “misericordia pubblica” “sostenere i bisognosi” e “prevenire l’eresia”. Una volta ci sapevano fare.

Nell’aula magna (ma niente da bere) della sede della Mia, in via Arena (dove c’era il Conservatorio, oggi allocato nell’impoetica città bassa) è stato presentato nei giorni scorsi il Donizetti Pride, denso e simpatico cartellone di diffusione expo-donizettiana in città, spettacoli, incontri, rappresentazioni non solo nei teatri, e non solo di repertorio.

Il Comune, la Mia, il Conservatorio, la Fondazione Donizetti, cioè enti solitamente in sclerosi, hanno preso coraggio e affidato la responsabilità creativa a un vero organizzatore di cultura, che incredibilmente ha meno di settanta anni, forse anche meno di cinquanta, e idee chiare,

niente grandi nomi, niente Bocelli, si spettacoli nuovi, sì spettacoli diffusi nello spazio-città; una ventata d’aria fresca,

lo si vede già dalla grafica della cartella stampa, molto al passo coi temp, nello stile “repetita iuvant” che riprende e omaggia la cover de L’Osservatore Elaviano, la testata più chic nei club di Londra e Berlino (ma qualcuno la trova anche a Bergamo, dove viene creata).

Bravo assessore, bravo direttore, bravo presidente, l’impressione è positiva.

Se proprio vogliamo trovare una pecca, semmai, è nell’anglofilia del naming della manifestazione, Donizetti Pride, articolata in Donizetti Night, Donizetti Off e Donizetti Alive;

cosa che certo non piacerebbe al nostro Gaetano, che insieme a Puccini, Bellini, Rossini e Verdi ha fatto parlare l’italiano in tutto il mondo proprio grazie all’opera lirica.

Negli Stati Uniti probabilmente questa rassegna si sarebbe chiamata “Donizetti Bel Canto”, o qualcosa del genere,

nella patria del bel canto invece l’hanno chiamata Donizetti Pride, che fa anche un pochino Gay Pride: e questo è davvero ingiusto, perchè Donizetti è stato un vorace mangiatore di donne, tanto da creparci. Rispettiamo i morti.

Farlo parlare in inglese, passi, ma farlo passare per gay mi sembra pericoloso.

Rischiamo che durante la messa della domenica in S. Maria Maggiore sorga dal sarcofago e si erga bestemmiando. Conosco il tipo.

 

 

io sono bortolo

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Leo1

Caro Giorgio, caro Stefano, sindaco della Città e rettore dell’Università, dicendovi “io sono Bortolo” intendo segnalarvi tutto il disagio psichico che mi causa una topica colossale propalata a vostro nome, live e on line,

mi riferisco al questionario somministrato ai cittadini attraverso il “Bg public space” sul Sentierone e sul sito omonimo,

dove per rilanciare il centro di bg si propone ai cittadini una prima domanda “cretina” come “vorresti che il centro di Bg rappresentasse l’identità dei bergamaschi?” (con risposta plebiscitaria “si” al 98%, incredibile!)

e subito dopo ecco la domanda “truffa”: “come vorresti ridenominare Largo Bortolo Belotti? a) largo della Roggia Nuova (era tale nell’800) b) largo del Convento (che non c’è più) c) largo San Bartolomeo (in omaggio… alla chiesa!).

Nel dubbio, basta imboccare la domanda successiva: vorresti che venisse evidenziato il tracciato della roggia tramite pavimentazione e cartelli digitali, qr code, realtà aumentata?

A questo punto mi viene da urlare: “io sono Bortolo!”

A parte il fatto che le rogge, eventualmente, vorrei vederle riportate alla realtà normale, alla luce, laddove sensato,

la topica è questa: per rafforzare l’identità della città si propone di eliminare il buon Bortolo Belotti, cioè l’unico personaggio bergamasco cui è intitolata una via nell’area in oggetto, tra Petrarca, Verdi, Tasso, Roma, Vittorio Emanuele, Dante e Cavour?

Ti dico in 5 righe chi era Bortolo Belotti, e cosa rappresenta:

1) un grande avvocato, uno storico insigne, un poeta raffinato, uno studioso di fama, un parlamentare scomodo;  2) uno dei fondatori del partito liberale, un antifascista vero, arrestato dal regime, mandato al confino, morto in esilio; 3) autore della monumentale Storia di Bergamo e dei Bergamaschi; 4) è stato uno dei pochissimi intellettuali bergamaschi del novecento di statura nazionale; 5) uno dei pochissimi esempi di intellettuale di successo che ha avuto il coraggio civile di dire no al fascismo, e non come uomo di sinistra, ma come liberale, erede della tradizione di giustizia e libertà.

Ma chi se ne frega della storia, e chi se frega dei bergamaschi, tutti bortoli: chiamiamola via della roggia nuova, o del convento vecchio, che hanno un suono più turistico, più appeal, più app, più start up.

Così, mentre si annuncia di volerla valorizzare, si uccide la memoria e l’identità della città, e per far questo si cerca di usare – e si abbindolare – i bravi cittadini che partecipano al sondaggio.

Ma la domanda vera sarebbe da rivolgere a Giorgio e Stefano: perché? Perché volete eliminare Bortolo Belotti? Perchè volete il mio consenso per cancellare dalla toponomastica, e quindi dimenticare, un’icona della società civile locale, cosa che solitamente fanno le truppe d’occupazione?

Caro Giorgio, caro Stefano, vi assicuro che il 100% degli elettori al posto della realtà aumentata preferisce tenersi stretta la realtà storica, e la memoria di un grande studioso super partes che porta un nome e un cognome tipicamente Bergamo, cosa di cui io non mi vergogno.

O mi state dicendo che è proprio questo il motivo per cui si vuole farlo sparire, perché Bortolo Belotti, nella visione internazionale della città, suona troppo bergamasco, provinciale?

Così fosse, avremmo davvero un problema di provincialismo.

(PhotoAkam: Leone Belotti vestito da Bortolo)

non è una città per turisti

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NNcittàturisti

Bergamo non è una città per turisti, nonostante l’apparenza, nonostante la scenografia monumentale di città alta e la scenografia ambientale dei colli, Bergamo è una città geneticamente anti-turistica;

nonostante l’impegno, i programmi, i soldi che si stanno investendo per costruire questa “industria turistica”, l’impresa non decolla, il cittadino, il commerciante, le imprese non hanno la mentalità per fare accoglienza;

non c’è amore per la propria storia, non c’è cultura del territorio, non c’è realmente desiderio di ospitare l’altro, il diverso, lo straniero;

ospitare gente non è come produrre tondini metallici, occorrono materie prime come anima, cultura, cuore;

chi ha queste materie, da sempre è fuggito da questa città; tutti i grandi uomini che oggi si pretende di usare come icone turistiche, Beltrami, Quarenghi, Donizetti, fino a Manzù hanno sempre dovuto andarsene altrove, mai riconosciuti in patria: solo dopo che tutto il mondo celebra un genio, allora lo rivendichiamo, e volgiamo che tutti sappiano: è di Bergamo!   Si, peccato che a Bergamo sarebbe morto di fame!

Per fare un’industria turistica le risorse artistiche-paesaggistiche in realtà sono secondarie, primarie sono competenze come pazienza, elasticità, curiosità, tutte cose contrarie allo spirito del bergamasco introverso, lavoratore, ostico, mugugnante;

per questo, la costruzione di un’industria turistica, dovrebbe essere fatta umilmente, un passo alla volta, non da un giorno all’altro con slogan e iniziative destinate a sicuro fallimento;

per cominciare, si dovrebbe valorizzare l’autenticità, la verità, il carattere profondamente onesto, sincero, modesto, anti-show, della città, e dire questa cosa, usare questo contro-slogan:   “non è una città per turisti”, e valorizzare ciò che realmente può portare uno slogan del genere, e cioè viaggiatori che detestano la città turistiche, ad esempio, ovvero il target molto alto dei ricchi snob, e il target molto pregiato di intellettuali e artisti e viaggiatori no-massa;

lavoriamo sulla qualità, creiamo una mentalità, costruiamo un modello sostenibile di città storica, non risorsa da sfruttare ad esaurimento come un pozzo di petrolio, ma giacimento da mantenere vivo, e tutelare come una fonte sorgiva.

O davvero vogliamo le piazze di città alta invase da “restaurant” che propongono “lasagne e cappuccino 9 euro”, come a Roma? Seguendo gli esperti in marketing turistico, si finisce lì.

Con tutti i suoi difetti, è ancora una città vera, con un suo carattere, un suo pudore, non facciamo finta di essere bresciani o milanesi, dare spettacolo non sarà mai il nostro forte, troviamo il coraggio di costruire un nostro modello, una nostra prospettiva coerente, pertinente.

 

cosa vuol dire Dio è nei dettagli

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guttuso 62

Parliamo dell’abusata citazione “Dio è nei dettagli”; una di quelle frasi che tutti usano e quasi tutti fanno finta di capire. E invece ha almeno 3 significati molto diversi, a seconda delle versioni e delle attribuzioni: a Gustave Flaubert  (“Dieu est dans le detail”); ad Aby Warburg (“Gott ist im detail”)  e a Mies Van der Rohe (“God s in the details”).

1) Gustave Flaubert è il padre del romanzo moderno, siamo nella Parigi secondo Ottocento, caput mondi  per artisti, scrittori, sovversivi, avventurieri, imprenditori; con Madame Bovary Flaubert ha creato non solo il modello nella nuova donna, psicolabile e “fashion victim” ante litteram,  ma il modello del nuovo romanzo;

la lezione del maestro Flaubert è condensata in un slogan, “occorre far parlare le cose”: è la tecnica narrativa che sarà poi la base  del cinema e della pubblicità.

Dalla descrizione della spazzola di Madame Bovary percepiamo l’inquietudine della donna moderna con più forza e più precisione rispetto a un’astratta e prolissa descrizione psicologica.

Attorno a Flaubert si ritrovano una serie di “nipotini” di grande futuro, Maupassant, Zola, Hugo, tutti i protagonisti del nuovo realismo.

Lo scrittore moderno è un selezionatore, un decoder, che costruisce una storia mostrando oggetti e fatti. Non è più il Dio onnisciente manzoniano, che vede tutto dall’alto.

Un giorno Maupassant chiese al maestro: “Dunque Dio è morto?”

No, rispose Flaubert, Dio non è morto:  Dieu est dans le detail.

2) Aby Warburg è il padre della critica d’arte contemporanea, siamo ad Amburgo nel 1925, attraverso una serie di conferenze Aby Warburg diffonde la sua fondamentale teoria sull’arte e l’architettura occidentale  come continua ripetizione di archetipi ricorrenti: proprio  dall’analisi dei dettagli si rintracciano una serie di rimandi, nei dettagli si nascondono stratificati significati simbolici ma anche diabolici:

il diabolon è un segno di doppiezza, che divide e falsifica, frammenta e disperde, il simbolon è la metà di un segno, che rimanda a un insieme originario autentico.

Warburg faceva l’esempio degli ornamenti architettonici – siamo nell’epoca del liberty simboli autentici di una realtà perduta, quando sono in rovina,  che diventano doppi e falsi quando vengono “restaurati” o “rifatti in stile”, tramutandosi da simboli in diavoli.

Per rendere chiaro il concetto, Warburg riprese Flaubert, e disse: non solo Dio è nei dettagli ma anche il Diavolo è nei dettagli!  Di fatto, la sua frase rese celebre il motto di  Flaubert, e lo diffuse nella lingua tedesca (Gott ist im detail!)

3) Mies Van der Rohe è il padre dell’architettura contemporanea: siamo a Chicago attorno al 1960, Mies Van der Rohe insieme a Gropius, Aalto e Wright è considerato il padre del movimento moderno,  già direttore del Bauhaus, quindi emigrato negli Usa a causa del nazismo,  è il capostipite nobile dell’archistar-guru contemporaneo.

Tutta la sua filosofia è in due celebri slogan: “less is more”, manifesto del minimalismo,  del sottrarre funzione alla forma per arrivare a dare forma alla funzione, quasi come se l’architetto fosse Dio, e a precisare la questione se l’architettura sia la divinità dell’uomo razionale, Van der Rohe pronunciò quello che divenne il suo secondo slogan:

“God is in the details”, Dio è nei dettagli, intendendo però dire l’esatto contrario  di quanto disse Flaubert: se per Flaubert Dio si rivelava nei dettagli, segnali e simboli di un’unità superiore,  per Van der Rohe i dettagli, ossia l’assenza di dettagli, o comunque la non manifestazione dei dettagli, rappresentano e significano l’assenza di Dio, o la sua non visibilità.

Dunque: per Flaubert dai dettagli si capisce la qualità divina di una creazione; per Warburg nei dettagli inutili, decorativi, si nasconde il Diavolo; per Van Der Rohe la perfezione divina è nella non visibilità dei dettagli, corrispondente alla non visibilità di Dio, il vecchio Dio absconditus. E quindi, oggi, la cura per ogni dettaglio è proprio nell’evitare di far vedere i dettagli!

(imago: R.Guttuso, Stiratrice e ragazzo di Caravaggio, 1974)

 

negri e handicappati

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coopi2

In tv vedi lo spot di Coopi che ti invita a donare qualche euro con un sms.

Coopi sta per cooperazione internazionale, è una onlus che raccoglie fondi per il sostegno a distanza di bambini denutriti nel sud del mondo.

Tra le altre cose, la voce fuori campo dice: “la malnutrizione provoca handicap”.

Cosa vuol dire la parola handicap?

Hand significa mano, cap significa cappello: l’handicap è la situazione di chi si trova a chiedere l’elemosina, col cappello in mano,

dunque, in primo luogo, gli handicappati sono i bisognosi.

L’handicap non è un carattere, una malattia, una menomazione dell’individuo, ma una condizione di bisogno, uno svantaggio sociale che i soggetti “diversi” (per es. non deambulanti) si trovano di fronte in un mondo su misura dei “normali”.

Evidente che se fossimo al 99% paraplegici, in un ambiente a misura di sedia a rotelle, il diverso, l’handicappato, sarebbe quello privo di sedia a rotelle.

L’handicap è dunque un deficit, un difetto dell’organizzazione sociale, non dell’individuo “diverso”. Invece, nel senso comune l’handicap è un difetto del soggetto, e dunque l’handicappato un essere “difettato”. Per rimediare a questa “scorrettezza”, ecco la diffusione di espressioni “corrette”, per cui gli “handicappati” sono diventati dapprima “portatori di handicap”, poi disabili, poi diversamente abili.

Torniamo allo spot Coopi contro la malnutrizione.

Il senso con il quale viene usata la parola handicap è proprio quello del luogo comune, scorretto, fuorviante, che associa il disagio al deficit, e il deficit a tare genetiche/ambientali, secondo concezioni pseudo darwiniste-lombrosiane, classiste e razziste.

Da decenni si cerca di superare questa idea dell’handicap come marchio di un individuo “tarato”, inferiore, proveniente da un mondo inferiore, ed ecco che proprio un emittente del mondo “altruista”, in modo superficiale, o forse furbo, si permette di usare la parola handicap alla vecchia maniera, a indicare il diverso come inferiore.

Possiamo ben dire, in questo caso, che gli handicappati sono loro, i comunicatori della onlus che chiedono soldi al pubblico, col cappello in mano.

 

dillo in italiano, bergamo

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erroriItaliano

A proposito della petizione “Dillo in Italiano!” lanciata da Anna Maria Testa, contro l’abuso di terminologia anglo nella comunicazione pubblica, istituzionale, ieri sera ho guardato per 2 minuti il tg-orobie su berghem tv:

1 minuto di immagini di Gori e architetti in piazza Dante, dove ci sarà un inf-point sul Palma e lo show-cooking del territorio, poi 1 minuto di intervista a Piazzoni, ma il fuoco dell’immagine è sulla nitida scritta alle sue spalle, come fosse l’azienda per cui sta parlando: roof-garden.

Poi si parla della Bergamo Experience e mi viene in mente l’orridicolo marchio University of Bergamo.

Ah, il problema della lingua!

Vorrebbero valorizzare città, territorio, architettura, arte, cultura: ma il primo valore di un territorio è la lingua! Noi abbiamo una lingua autentica, nobile, e la buttiamo via come carta straccia per usare la lingua internazionale, cioè la lingua dei luoghi privi di identità e di storia, la lingua dei non luoghi.

Se il mezzo è il messaggio, tanto più la lingua è il messaggio.

Allora, come la mettiamo con il Campanone? The Big Bell?

E il Viale delle Mura? Wall Street?

 

Isis in Libia e Qatar a Milano

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MilanoQatarTi spaventa di più l’Isis in Libia o il Qatar a Milano?

Il Qatar si è appena comprato il nuovo cuore di Milano, da oggi la più grande e ricca area urbana di proprietà araba in Europa, i 15 edifici più grandi, più moderni, 2 miliardi di euro,

se avessi un figlio, o dei bambini, gli chiederei: temi di più l’Isis in Libia, o il Qatar a Milano, l’occupazione di Milano da parte del Qatar?

Che sia questa la “risposta” all’occupazione della Libia da parte dell’Isis? Perchè la nostra principale forma di propaganda, il tg, che ci terrorizza con l’Isis in Libia, ci presenta il Qatar a Milano come una buona notizia, luminosa?

Non ti sei mai chiesto perchè il proletariato islamico e il proletariato occidentale dovrebbero scannarsi mentre i rispettivi padroni vanno d’amore e d’accordo e si condividono a suon di petrodollari città, mondiali, luxury brand, squadre di calcio e gran premi?

Che il Qatar e l’Isis siano due facce della stessa medaglia, versioni islamiche di una guerra sociale che ci fa comodo ammantare di etichette religiose, culturali?

Che l’europa mediterranea stia diventando il teatro della iper-guerra nord-sud?

Cosa deve pensare, scrivere, dire un intellettuale erede dell’intelligenza storica del canone occidentale, in questa situazione? Prender parte all’ipocrisia storica e fare il gioco del padronato multinazionale, o rivendicare la tradizione illuminista, marxista, strutturalista, e interpretare la realtà utilizzando il buon vecchio  materialismo storico?

Se avessi dei bambini, gli direi:  oltre all’abbigliamento vintage, prova a indossare anche l’abito mentale vintage, corri il rischio di capire cosa sta succedendo.