affamati e diffamati

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20 Subvertising writer

il destino dello scrittore sovversivo

Scrivere è allo stesso tempo il gesto base dell’ordine costituito, ma anche della sovversione sociale.

Uno scrive le leggi,  poi un altro (ma anche egli stesso) scrive un manifesto illegale contro quelle leggi. Arriva un terzo (che può sempre essere il nostro) e riscrive quelle leggi, accogliendo in parte le richieste del manifesto illegale.

La dinamica è questa, in un paese democratico sarà palese e pacifica, in un regime autoritario  segreta e cruenta.

Un sovversivo, preso nel verso giusto, è un ricostituente sociale.

Si tratta solo di vedere se a breve o lungo termine,  con conversione o martirio del sovversivo.

La conversione del sovversivo può avvenire solo  in due modi, a volte sinergici: per grazia di Dio, e con ricevuta del Dio denaro.

Il martirio del sovversivo, a differenza di quel che si è portati a pensare a tutta prima, non è opera degli aguzzini dell’ordine costituito, che tendenzialmente sono portati a ignorare il sovversivo,

ma dei fan e fedeli del sovversivo, che di fatto lo spingono a immolarsi per loro, secondo il testo base, sino a che la vera vittima, il carnefice, è costretto a fare la sua parte.

Come scrisse in “Massa e potere” il mitico Canetti, il vero boia è la folla degli spettatori che si riunisce attorno al patibolo.

Questo nella società dello spettacolo è tanto più e tremendamente attuale.

La conclusione logica è che la missione base del sovversivo, e cioè rivelare le ingiustizie nascoste e smascherare i cattivi,  oggi significherebbe dire alla massa dei telespettatori, dei consumatori di comunicazione: “i cattivi siete voi, siamo noi tutti!”

Cattivi nel senso di imprigionati, sotto incantesimo, in cattività, ma anche cattivi perché mandanti morali (con la nostra acquiescenza e dunque con il nostro consenso) di ogni violenza o ingiustizia che il telegiornale ci propina cinque volte al giorno:

se noi fossimo i buoni, dovremmo alzarci in massa cinque volte al giorno dal divano, sollevarci, andare in piazza e bruciare il palazzo del governo, e quel che ne consegue in termini di impegno, rischio, et coetera,

e invece se muoviamo un dito è solo per cambiare canale, per saperne ancora di più, per “vedere le immagini”, come se le immagini fossero la verità, mentre l’unica verità è che ci comportiamo esattamente come allodole attirate dagli specchietti,

Ce ne stiamo assorti e devoti davanti alla tv a guardare scorrere il sangue come antichi maya radunati alla base della piramide dove si fanno sacrifici umani.

Siamo disposti a pagare per essere informati su avvenimenti che a bene vedere avvengono perché c’è qualcuno disposto a pagare per sapere che avvengono.

Questa è la situazione, di fatto:  in poltrona col telecomando in mano, o al massimo, non bastando le news di massa a placare “la sete di verità”, si sposta il culo sulla seggiola girevole, e si va sul web in cerca delle verità nascoste,

come Indiana Jones armati di mouse, sulle tracce dei grandi complotti giudaico-massonici, catto-fascisti e nazi-shintoisti, seguendo martiri-profeti occultati dalle polizie di regime.

L’oro nazista? In vaticano!

Lo sbarco sulla luna? Una fiction di Kubrick.

La Mucca Pazza? Una bufala!

L’AIDS? Un’idea della CIA.

La vera causa dei tumori? Il GPS.

Finché si occupa di queste cose, e spara in alto, lo scrittore sovversivo non ha problemi.

I problemi nascono quando spara ad altezza d’uomo, cioè quando  scopre e scrive che il geometra del comune ha preso la mazzetta dall’immobiliarista per il nuovo mega-supermercato,

o la squadra del cuore, in serie C, ha comprato le partite (esempi del tutto ipotetici, ogni riferimento puramente casuale).

A quel punto lo scrittore sovversivo ha migliaia di lettori, centinaia di likes e commenti ed è tentato di credersi utile, e pensa:

se questi diecimila lettori per i quali mi sono fatto gratis il culo un mese, passando le notti a far ricerche e le giornate a inseguire e intervistare testimoni, mi cacciassero dieci cent a testa, oltre a dirmi bravo, e cliccare like, potrei dedicarmi a tempo pieno a questa antica missione, il reporter senza macchia e senza paura, stile Robert Redforf in “Tutti gli uomini del presidente”.

Invece quello che succede è questo:

i personaggi pubblici, gli enti pubblici o le imprese i cui “imbrogli” tu hai così abilmente e coraggiosamente smascherato, raramente si difendono usando le stesse armi che hai usato tu, cioè dati, ipotesi, fatti, argomenti, testimonianze, dichiarazioni, dimostrazioni,  e invece più facilmente ti “fanno scrivere” dagli avvocati (plurale).

Gli avvocati ti mandano un prestampato di tre righe con scritto: “l’articolo in oggetto presenta gli estremi del reato di diffamazione aggravata, con conseguenti danni morali al nostro cliente quantificabili in milioni di euro 4 (quattro)”.

Come minimo con quelle 3 righe su carta bollata hanno già guadagnato quei 1000 o 2000 euro che tu sognavi di guadagnare con le tue 100 sudate pagine di dossier sovversivo elaborato in mesi di lavoro eroico.

Crisi.

Ti verrebbe voglia di rispondere: scusate, dal momento che il risultato è lo stesso (rimozione del post) perchè invece di pagare gli avvocati per “farmi scrivere”, dal momento che lo scrittore sono io, non pagate direttamente me, chiedendomi di cedervi l’esclusiva dell’articolo in questione?

Certamente spendereste meno che “andando per avvocati”, e saremmo tutti più contenti.

Mossa caldamente sconsigliata.

Ricevereste una seconda carta bollata, nella quale l’accusa di diffamazione sarà accompagnata, e rafforzata, da quella, più pesante, di “tentata estorsione”.

Crisi.

In una situazione del genere, può anche capitarvi, come mi è successo, di sfogarvi con un grande guru delle comunicazioni di massa, il quale, bevendo un Gin Rosa con aria assorta, vi illumina infine così:

“quando Pilato si lava le mani, esprime l’impotenza del dittatore: per quanto le lavi,  le sue mani continueranno a sporcarsi di sangue…

…nessuno pensa mai alla violenza psicologica che un’intera massa oppressa esercita su un uomo solo, il dittatore”.

Crisi.

Il vero passo avanti, in fatto di sovversione, sarebbe ribaltare i termini della questione in maniera logica:

se il reato è la “diffamazione”, chi scrive può essere considerato il mandante,

ma chi compie effettivamente il reato è chi legge,

sono i lettori il problema del potere, per non affrontare i lettori zittiscono lo scrittore, ma se i lettori alzassero la voce invocando la libertà di lettura,

dicendo “si, io leggo questa roba, e voglio avere il diritto di farlo”,

avrebbero partita vinta,

perchè di fatto il concetto di “opera aperta” che informa ogni prodotto culturale dal XX secolo in poi, prevede la partecipazione del fruitore all’opera,

e questo a livello di blog vorrebbe dire condividere la responsabilità tra chi scrive e chi legge, come soggetto unico di cogitazione,

a questo dovrebbero lavorare nuovi avvocati sovversivi, a creare clausole a tutela della “publicity” come estensione della “privacy”…

se vuoi denunciare qualcuno, arrivi tardi, perché 5000 persone si sono già auto-denunciate come lettori del tema in oggetto, reclamando il diritto alla lettura.

Un’altra soluzione, più ardita, estrema, e provocatoria sarebbe invece:

noi non ci appelliamo alla libertà di espressione dell’individuo, ma piuttosto alla libertà d’acquisto della merce-idea, è qui che li freghiamo,

noi non pretendiamo che i nostri post abbiano lo status di grandi verità, al contrario, sono banali merci di consumo con una loro nicchia di mercato, che non si possono “esibire” pubblicamente ma si possono “acquistare e visionare in privato”,

stiamo parlando della ponografia, chiaramente, ecco l’idea,

trattare i post sotto censura come materiale pornografico, per maggiorenni,

produrre un e-book “scottante”, red-hot, con firma di un’impegnativa a non divulgare, per uso privato, a pagamento (anche simbolico, 10 centesimi, ma tale da rendere quei contenuti da denuncia una semplice merce in vendita per adulti),

trasformiamo cioè, paradossalmente, la libera espressione in merce squallidamente protetta, riservata,  è questo che possiamo fare, per rivoltargli contro le loro stesse armi, e compiere la missione (fuck the power) con il culo parato,

esibendo così il vero scandalo, la nuda verità ridotta a piacere per pochi, nei postriboli, anziché trionfante nelle piazze a guida del popolo,

Finché esiste la pornografia, c’è ancora una speranza per la libertà d’espressione, è questo lo scenario della società catto-spettacolare,

l’aveva già capito Michelangelo, mentre realizzava la Cappella Sistina.

Crisi.

copyright al km

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Lamborghini Gallardo Super Trofeo al Kilometro Rosso

19 Mission Impossibile 2

operazione last minute

Altro esempio di mission impossible last minute: siamo nel 2007, si inaugura il KmRosso.

Dopo aver scritto i testi della brochure, i titoli, gli slogan per la campagna, le cartelle stampa e molte altre cose (tra le quali rivendico il suggerimento di scrivere Chilometro con la K e in forma abbreviata) pensavo di avere finito,

invece a pochi giorni dall’evento mi chiama lo staff di Luca Bombassei e mi chiede di scrivere il discorso che dovrà tenere all’inaugurazione come responsabile del team di progettazione (è lui che ha chiamato Jean Nouvel).

Ispirato (devo ammettere che l’ispirazione arriva quando ti pagano bene) gli scrivo un bel discorso e glielo mando.

Poche ore dopo mi richiama e mi dice: sai, l’ha letto lo staff di mio padre (Alberto Bombassei, boss della Brembo) e gli è piaciuto molto così vorrebbe farlo lui, il discorso che hai scritto per me, soltanto chiede se potresti togliere un po’ di architettura e mettere un po’ più di impresa. Ma certo.

Ancora più ispirato, aggiusto il discorso, e glielo rimando.

Dopo poche ore mi richiama e mi dice: sai, il discorso che hai modulato per mio padre, l’ha letto lo staff di Montezemolo, gli è piaciuto molto, e vorrebbe farlo lui, soltanto chiede se potresti togliere un po’ di impresa e mettere un po’ più di politica.

Ma certo, nessun problema.

Ispiratissimo, partorisco la versione finale, andata poi effettivamente in scena per bocca di Montezemolo.

Rileggendo oggi, salverei le ultime tre righe (non si deve “fare economia” di idee se si vuole davvero “fare economia” di aria, acqua,  terra ed energia e offrire ai nostri figli  un mondo possibile e felicemente vivibile) e le rilancerei in versione Expo2015.

Storie del genere, lavori del genere, potrei raccontarne a decine,

dal costruttore che a cantiere quasi finito si rende conto che per venderlo bisogna trovare un nome al villaggio turistico,

alla Fondazione che per una serie di ragioni che a te copy non interessano ha bisogno da un giorno all’altro di un nuovo manifesto ideologico, quei programmi dove ogni parola è soppesata, e tu immagini frutto di elaborazione complessa e condivisa, mentre il più delle volte è il parto notturno di un copy free lance.

Ad ogni modo, è crisi, viviamo nella dittatura della comunicazione, e i linguaggi creativi sono precisamente le catene che tengono la massa in schiavitù.

Fare il maniscalco che fabbrica le catene, è questo che viene chiesto oggi a un creativo.

Crisi.

Bisogna saltare il fosso del “cercare lavoro”  e lavorare per l’umanità.

Quando una massa consistente di creativi ridotta alla fame si aggregherà, superando il falso individualismo del creativo, allora tornerà di moda la necessità della  “rivoluzione culturale” in preparazione della rivoluzione vera e propria,

si comincerà occupando gli spazi pubblicitari,

e quindi si passerà ai centri commerciali.

le trasmissioni riprenderanno il più presto possibile

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Le trasmissioni riprenderanno il prima possibile

il Comitato Centrale dell’Internazionale Turbo-Comunista annuncia ai lettori del blog Calepio Press che il periodo di oscuramento delle pubblicazioni terminerà presto:

la pubblicazione sostituiva “47 tentativi fallimentari d’impresa culturale”,

sarà a sua volta interrotta dopo la pubblicazione dei tentativi n19 e n20

la Polizia Politica, avendo ormai ottenuto lo scopo, il fallimento del blog, precipitato da migliaia a decine di visite,  ha annunciato l’imminente liberazione del turbo-compagno blogger Belotti, che potrà riprendere a scrivere, nel rispetto della legislazione vigente.

Un encomio alla cellula bulgara, che nello sterminato archivio Calepio Press ha selezionato  le 47 puntate agiografiche sulla vita agra del writer sovversivo

la raccolta completa dei 47 tentativi, in cui il compagno Belotti tramanda ai posteri le atrocità da lui vissute sotto il regime spettacolare del Made in Italy, non sarà disponibile in e-book gratuito, come previsto, tanto meno in volume,  essendo stati ravvisati nella raccolta stessa, contenuti censurabili,

motivo per il quale la Polizia Politica ha avvedutamente scelto di tenere in vita il Belotti, e restituirgli libertà di pubblicare nuovi post.

47 TFIC – 18 mission impossibile

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18 Mission impossible

il writer-agente speciale 007

Chiamo mission impossible i lavori in extremis, da fare con  il conto alla rovescia, con remunerazione  adeguata ai risultati, dove la missione è rifare, ribaltare completamente in poche ore un lavoro sbagliato, prodotto da un team o una grande agenzia nel corso di mesi.

Qualche esempio.

Siamo nell’aprile del 2005, mancano cinque giorni alle elezioni regionali, e io sto ancora dormendo quando mi telefona Vania Russo, titolare di una piccola agenzia pubblicitaria.

Mi dice che la sua segretaria (ragazza bionda bellissima dal carattere durissimo, una vera ariana val brembana doc) vuole vedermi con urgenza.

Questa Ivana si è innamorata di un simpatico imprenditore/politico, tale Giosuè Frosio, mobiliere (arredobagno) e sindaco verde (verde padania) della Val Imagna, il quale si è candidato alle elezioni per il Pirellone.

Nella lista dei candidati occupa un ruolo di outsider, il suo compito è quello di portare al partito quel migliaio di voti sicuri del paese di cui è sindaco. Per essere eletti occorrono sette/ottomila preferenze.

Mi mostra la campagna elettorale del candidato Frosio (fotografie, volantini, santini) e vedo che abbiamo un candidato “impresentabile”: brutte le foto, sgrammaticato e insignificante il testo del volantino.

Gli dico di chiamarmi la prossima volta, quando ha intenzione di essere eletto, perché da quello che ha fatto sinora deduco che sta concorrendo per sport.

Servirebbe un miracolo, ma Ivana crede al miracolo, ha miracolosamente trovato una serie di spazi radiofonici last minute ed è convinta che io potrei fare il miracolo inventando e registrando degli spot vincenti, il tutto in poche ore, perché la programmazione inizia la sera stessa.

Avendo fame, accetto comunque di andare a pranzo con Ivana e il candidato Frosio, e devo ammettere che mi è anche simpatico, un po’ sbruffone, mi fa fare il giro della Valle Imagna sul Bmw cabrio aperto anche se siamo a inizio aprile e in montagna, così mi metto al suo livello e gli propongo un patto da creativo sbruffone:

realizzerò i comunicati radio per lui, ma mi deve dare carta bianca assoluta su contenuti e creatività, in cambio mi pagherà, e subito, solo se verrà eletto. Accetta subito.

Sono già le quattro, ho circa tre ore, per prima cosa bevo tre Tennent’s, poi chiamo l’amico Pianetti, gli dico di farsi prestare un registratore decente da qualcuno dei suoi amici musicisti e gli dò appuntamento in una pasticceria di Colognola.

Al banco c’è una signora gentile con la figlia avvenente, nel retro-laboratorio il padre-padrone che inizia a bestemmiare coi suoi apprendisti pasticceri quando c’è ancora buio. Sarà il mio speaker. In mezz’ora gli faccio registrare (buona la prima) i tre spot che ho scritto su un tovagliolo di carta bevendo le Tennent’s.

1) Teeee, belo!Anderesét in ndoè te ades? a otà chi?
ta set bergamasch a te, com a me, a nsé capes sobet noter, o no?
e agliura: VOTA LEGA! SCRIF SO FROSIO! HET CAPIT?

2) Scolta! Go dom a inte seconcc per contatela su: comincia a contai, e intant che ta contet, CAPESELA! VOTA LEGA! SCRIF SO FROSIO! HET CAPIT?

3) Te, oregia! Rampa fo la crisi, che an se amò in temp! Salta fo macarù! Fa andà i manine VOTA LEGA!  SCRIF SO FROSIO! HET CAPIT?

Per chi non masticasse la lingua e il genere, qualche spiegazione.

La prima cosa è la captatio benevolentiae, un’operazione che nella comunicazione dialettale orobica, impregnata di cultura del lavoro, è più che altro una captatio malevolentiae gridata con astio:
Teeee, belo! Scolta! Te, oregia!
Viene poi il punto della questione, una domanda in forma minacciosa:

Dove andresti adesso? A votare chi? Ho solo venti secondi per contartela su!

Quindi l’ordine abbaiato con fuoco: comincia a contare, e mentre conti, capiscila! Rampa fuori dalla crisi che siamo ancora a tempo! Salta fuori, maccarone, fai andare le mani! VOTA LEGA!  SCRIVI FROSIO! HAI CAPITO?

I tre comunicati radio sono destinati a Radio Zeta, una radio con un pubblico “popolare”, che trasmette musica anni sessanta, liscio e mazurke comprese.

La strategia è quella di rivolgersi “emotivamente” a chi già vota Lega per ottenere la preferenza, dunque comunicati in lingua dialettale, con tono e contenuto quotidiano, ricalcando forme tipiche di dialogo, la comunicazione secca, coattiva, “senza tanti discorsi” e “pane al pane”.

È una strategia in primo luogo musicale: considerando gli altri comunicati radio, seri e monotoni, il nostro deve risaltare per differenza e varietà tonale.

Ogni venti minuti viene trasmesso un comunicato, l’idea è quella di creare un refrain, un motivetto, un’aspettativa e un meccanismo seriale, con i tre comunicati che si alternano nel ciclo orario.

Si tratta di un’operazione di comunicazione “o la va o la spacca”, mirata a scardinare le convenzioni di genere.

Il genere comunicati radio elettorali è solitamente segnato da una specie di contraddizione, incomprensione, tra il cliente e il creativo, che non è mai libero di creare, anzi, gli viene chiesto di ingessare, rendere formale il discorso “perché la politica è una cosa seria, ci vuole rispetto” (parlo per esperienze precedenti, con grandi agenzie nazionali, per deputati di destra, centro, sinistra).

Diciamo questo: a prescindere dallo schieramento politico, la prima preoccupazione del candidato è sempre quella di non prendere in giro l’elettorato, o meglio, di non dare a intendere che sta prendendo in giro l’elettorato.

Viceversa, l’elettorato sa benissimo “che è tutta una presa in giro”.

L’operazione Frosio gioca proprio questa carta: si mette dalla parte dell’elettorato, e nel dichiarare smaccatamente di essere una presa in giro costruisce la propria credibilità e distrugge l’apparente credibilità degli altri comunicati.

La vera forza del messaggio, chiaramente, è la lingua. Questo parla come noi. Così per tre giorni Radio Zeta martella la bassa e le valli con queste tre perle.

Si va a votare. Al termine delle operazioni di scrutinio, il candidato Frosio risulta eletto con 7000 preferenze, subito dietro al capolista Belotti, mio omonimo, appoggiato dalla curva dell’Atalanta, che ne ottiene 10.000. La comunicazione è stata efficace.

Ma il consigliere Frosio non mi telefona entusiasta appena sa la notizia.

Non mi fa i complimenti. Non mi risponde al telefono. Vengo a sapere che è stato eletto leggendo il giornale.

Purtroppo, come spesso accade dopo un’applicazione creativa particolarmente performante, si è verificata un’eterogenesi dei fini.

Il consigliere Frosio, invece di capire l’importanza della comunicazione che l’ha proiettato da 1000 a 7000 preferenze in tre giorni, capisce l’importanza di sé, comincia ad atteggiarsi a uomo politico, si compra un gessato, si sforza di parlare a bassa voce e in italiano, cose che non sa fare, cerca cioè di trasformarsi nell’opposto dell’immagine che è risultata vincente.

Non accetta il ruolo di rospo della politica, crede di essere diventato un principe.

Devo andare ad affrontarlo a muso duro in pubblico per farmi dare il dovuto.

Dopo una discussione mitica, con i suoi fedelissimi pronti a farmi a pezzi, ottengo 3/4 di quanto pattuito, più qualche insulto presto dimenticato, più un senso di colpa cresciuto nel tempo, più una storia da raccontare un giorno agli amici.

Crisi.

imago: architetture sospese by J.Gandossi

47 TFIC – 17 naming

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17 The naming specialist

in principio era il verbo

A un certo punto, mi ritrovo a dover lasciare il rosa causa infortunio sul lavoro: essendo stato “mollato” dalla tipa (dopo dieci anni di sesso-fuga d’amore- due cuori e una capanna – l’attico a rate – la moto nuova – un certo imborghesimento) in piena crisi da maschio abbandonato anche solo l’idea di scriver la parola “ti amo” mi fa venire il voltastomaco;

così in cerca di scritture “senza passione”, che non richiedano “il cuore”, comincio a  lavorare all’architettura narrativa di videogame e cd-multimediali, non è per niente semplice.

Poi mi viene offerto di lavorare alla Thompson, la grande agenzia, come copy senior del below the line, che sarebbe una sezione della catena di produzione creativa.

E’ il sogno di tutti, stipendio sicuro, carriera, soldi, gratificazioni sociali.

Ma devi fare una vita da caserma, devi vivere lì, in questa location eccitante che ti porterà a depressione sicura.

Come sempre succede, quando rifiuti un posto sicuro non ti preoccupi perché hai molti lavori free-lance, ma puntualmente questi lavori spariscono e ti ritrovi pentito e piagnone.

Com’è, come non è, dopo aver rifiutato questa proposta-Thompson, passo veramente un paio d’anni in depressione, tutto il giorno a letto a fumare le Marlboro Lights, spendo tutto quello che avevo, vendo la casa, spendo tutto, alle banche chiedo mutui specifici come scrittore in crisi d’ispirazione, non li ottengo, così mi tocca alzarmi e andare a cercare lavoro.

Chi mi aiuta in questi momenti di crisi nera? Forse qualche fondazione europea? Qualche assessorato comunale alla cultura? Nessuno.

Crisi.

Poi trovo un vecchio art director scoppiato, A.T., uno dei “padri” della pubblicità italiana.

Sue citazioni preferite:

“L’immaginetta della Madonna è la base della pubblicità”

“La pubblicità è il vangelo del dio denaro”

“Nel paradiso terrestre il sesso serpeggia ovunque”

“Il quieto vivere è meglio della lotta sociale”

“Il lavoro base è la costruzione del super-io”

“La psiche è come il maiale, non si butta niente”.

Questo vecchio art in passato mi ha chiamato qualche volta per lavori di “”naming”, cioè trovare il nome a qualche nuovo prodotto, più tutta la salsa semiologica intorno, un lavoro che ti rende mille-duemila euro, e cinque volte a lui che, magari dopo aver corretto un po’ la salsa, “vende” il tutto alla grande agenzia, la quale a sua volta gli mette intorno la sua salsa e fattura al cliente il quadruplo del costo.

Sia chiaro che alla fine tu vedi i mille euro solo se viene scelto il tuo nome.

La grande agenzia ha magari in giro tre o quattro sub-fornitori di creatività i quali hanno in giro altrettanti copy.

L’agenzia non fa altro che scegliere e convincere il cliente, o il dirigente markentig dell’azienda cliente. Incassa ventimila, paga cinquemila al vecchio art che paga mille a te, mentre gli altri diciannove creativi in proprio hanno lavorato gratis, sperato invano, e quando va bene hanno preso un “rimborso” di cento o duecento euro.

Effettivamente tu alla fine, tra vocabolari e settimane enigmistiche e frittura della salsa, hai lavorato un paio di giorni.

Il dirigente-art ha svolto un po’ di lavoro di psiche, dovendoti dare gli input e dovendoti “caricare”, e dovendo poi anche “persuadere” l’agenzia.

L’account dell’agenzia fa identico lavoro, caricare l’art e scaricare sul cliente.

Morale, mi chiama questo vecchio art, e mi dice: c’è da fare il lavoro base per un cliente che opera sul mercato della politica.

Bisogna sapere che questo art director ha iniziato a fare il pubblicitario alla fine degli anni Cinquanta, dopo la chiusura dei bordelli, spiegando alle prime lucciole di posizionarsi sul lato destro dei sensi unici in uscita.

Oggi non sa usare un computer e quasi nemmeno un telefonino, però è riuscito a convincere De Michelis ad andare dal barbiere e a rimettersi in politica.

Così scrivo un po’ di slogan politici per il nuovo PSI, ma soprattutto faccio il copy per  enti che una volta si chiamavano sindacati e oggi hanno come missione base quella di far pagare le tasse ai lavoratori (precari).

Crisi.

Viene un momento, nel corso della carriera dell’aspirante writer, nel quale ci si rende conto di essere, da un punto di vista professionale, nella stessa situazione di una prostituta di lusso, tutti vogliono venire a letto con re, ma nessuno vuole sposarti.

Questo ti duole, perché professionalmente parlando continui a credere nell’amore, e sogni un matrimonio d’amore, e continui a sperare di incontrare il tuo Adriano Olivetti, e diventare un big letteratura-industria.

Crisi.

imago “architetture sospese” by J.Gandossi

47 TFIC – 16 pamphlet

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16 Libro inchiesta

lo scrittore di questioni sociali

Il libro-inchiesta, il pamphlet, il j’accuse, il manifesto di un nuovo pensiero o movimento, l’indagine, il reportage, il libello polemico:

parliamo del successo dello scrittore di cose sociali, dell’intellettuale impegnato, ieri Sartre, Queneau, Pasolini, oggi Naomi Klein, Travaglio, Saviano.

Tutti hanno il saggio-bomba nel cassetto, o perlomeno in testa.

 

Negli anni Novanta del secolo scorso, il decennio della conclamata “sobrietà”, il mio disgusto verso il sistema della moda raggiunse i massimi livelli.

Passavo interi pomeriggi a conversare con l’architetto Baroli – un compasso d’oro! – nel suo bunker in via Durini.

Lui mi raccontava con il sorriso dell’esteta depresso segreti e bugie del made in Italy, io cercavo un modo per rivelare al pubblico cose eclatanti e lineari, come i meccanismi finanziari del cosiddetto “valore culturale aggiunto” per cui una polo o un jeans da 5 euro – una volta griffati – vengono venduti (ancora oggi) a 20 volte tanto, cioè con un ricarico del 2000%.

 

Solo un popolo ignorante può pensare di comprare cultura in una boutique. Solo un paese marcio può asservire industria e banche a un gruppo di “stilisti”, dietro cui si muovono altre economie, è chiaro.

Solo un sistema mediatico corrotto può propalare per decenni certe menzogne colossali e non dire mai niente di quello che c’è dietro la facciata, e non parlo di modelle e festini, parlo di pubblicità, soldi e banche.

Che fare?

Se andavi da un editore con questi argomenti si metteva a ridere.

I media italiani stanno in piedi con le pubblicità di moda.

Un libro verità sul papa, sulla camorra o sulla CIA si può fare: ma sugli stilisti no, impossibile.

L’unica strada come sempre era il Trojan Horse. Colpire dall’interno, sotto mentite spoglie.

Sabotaggio neo-situazionista.

 

 

Ancora non esistevano i blog. Così comincio a raccogliere dati e materiale fingendomi un laurendo adorante con la sua tesi celebrativa sul made in Italy. L’idea è un libro-verità, un pamphlet, un j’accuse.

Quindi mi occorreva uno pseudonimo dietro il quale lasciar intendere la presenza di un grande imprenditore, così da ottenere l’attenzione della stampa servilista. Infine un piccolo editore autorevole che pubblicasse e distribuisse il libro.

Niente da fare. Anche qui, occorreva usare le armi del nemico: se chiami un editore e gli dici ho un libro che è una bomba, ti mette giù il telefono, se gli dici ho un libro camomilla e trenta milioni da spendere, ti viene a trovare il giorno dopo.

Per fare un libro pagato – non avendo come sempre il becco di un quattrino – mi occorreva dunque un mecenate disposto a finanziare l’operazione senza alcuna prospettiva di profitto.

 

Parliamone a Boggi – mi disse Baroli – il vecchio Boggi ha sempre odiato il sistema della moda.

Il vecchio Boggi fu entusiasta, da anni cercava qualcuno che scrivesse un libro verità sul sistema della moda (avrei dovuto riflettere sul perché non l’avesse ancora trovato, in effetti) al punto che era disposto ad aprire la borsa e divenne egli stesso fonte di notizie interessanti:

ad esempio: le camicie cotone uomo Boggi, vendute allora  a 40.000 lire, e le camicie uomo della Standa, vendute a 25.000 lire, e le camicie uomo di Armani, vendute a 120.000 lire, erano le stesse, ma proprio le stesse, prodotte in India dal suo amico Bora.

 

Per l’edizione scelsi Lubrina, allora diretta da Claudio Calzana (che oggi dirige il marketing de L’Eco di Bergamo) a cui va il merito di aver inventato il nome dello pseudonimo: Sean Blazer.

Sean come Sean Connery, l’agente 007, e Blazer come Blazer, che vuol dire “strillone”, nome della nave inglese addetta alle comunicazioni divenuta celebre per l’estro del comandante, che fece fare le divise blu (nella stiva c’era una pezza di tela blu) in occasione della visita della regina, che apprezzò (così nasce il Blazer, la giacca blu con i bottoni dorati).

Così pubblico il pamphlet come Sean Blazer (“Mercanti di moda”, Lubrina 1997, retro di copertina: Sean Blazer è uno pseudonimo sotto il quale si cela un imprenditore fin troppo noto…) e lo mando a tutti i giornali. I pesci abboccano.

Le prime recensioni appaiono su Il Manifesto e Milano Finanza. Ci si chiede se Sean Blazer sia De Benedetti o Luciano Benetton.

 

Il libro va esaurito.

Boggi non resiste. Rilascia un’intervista a Diario dove si rivela come imprenditore di sinistra (!).

Subito dopo Panorama fa un reportage di 4 pagine con la mia foto e rivela che Sean Blazer è un anarchico di destra (!).

 

La mia idea su Sean Blazer era quella di un nome collettivo che chiunque potesse usare come scudo-egida, tipo Luther Blisset. Speravo che dieci, mille Sean Blazer saltassero fuori ad alimentare l’incendio.

Invece dopo tre settimane, visto che dietro non c’era Benetton né un pari requisiti, era tutto finito e l’unico ad essere rimasto bruciato era il sottoscritto.

Nella mia ingenuità, immaginavo che dopo questo attacco al sistema tipo Davide contro Golia (un lavoro giornalistico con i fiocchi, a parere di tutti gli addetti ai lavori) mi si sarebbero spalancate le porte della grande editoria, o del grande giornalismo.

Sbagliato. Anche da L’Eco di Bergamo, per il quale scrivevo di arte sacra, altra mia passione castrata, fui allontanato col marchio di “inaffidabile”. Invece del Pulitzer, mi ritrovai con un pugno di mosche.

 

Crisi.

Per trovare lavoro, dovetti cambiare nome e sesso (Alice Lewis) e rivolgermi all’unico settore editoriale dove vige piena e totale libertà d’espressione: Harmony, Confidenze, Intimità e Grand Hotel, romanzi rosa e fotoromanzi.

In seguito non sono mancate altre sorprese amare (la metamorfosi possessiva del vecchio Boggi, identificatosi totalmente in Sean Blazer) ma anche alcune soddisfazioni (la stima di Benedetta Barzini, che volle conoscermi, e inserì il testo di Sean Blazer nel programma d’esame del suo corso di Storia della Moda all’Università di Urbino)

e qualche sorpresa tardiva, come la telefonata di settimana scorsa, quando mi si invita a una trasmissione televisiva sulla moda, per discutere se il mio pamphlet, che ha ormai 14 anni, sia ancora d’attualità.

Mi fanno notare che anticipa di un paio d’anni parecchi dei ragionamenti che hanno poi fatto la fortuna del best seller planetario “No Logo” della Klein.

 

Così vado a questa trasmissione, leggo qualche brano, divulgo semplici verità e vengo assalito  dalle pr che lavorano per la Camera della Moda

(e anche insultato, fuori onda: voi intellettuali del cazzo che non fate un cazzo dal mattino alla sera e venite a tirare merda sulla gente che lavora)

ma se non altro conquisto i ragazzi del pubblico, che poi vengono a stringermi la mano.

Il giorno dopo guardo la registrazione e mi rendo conto dell’effetto casualmente o paradossalmente destabilizzante della trasmissione.

 

Esempio: io spiego il meccanismo del valore culturale aggiunto che fa vivere tutto il sistema mediatico parassita, e dopo la pubblicità viene mandata l’intervista al boss Boselli che trionfante dice: 2000 giornalisti alla fashion week! (alla Fashion Week, non in Siria!).

Quindi si torna in studio, io spiego che le banche strozzano tutto il popolo della partita iva, artigiani e piccole imprese per poi finanziare con centinaia di milioni di euro queste griffe che non restituiscono niente e costruiscono alberghi a Dubai, ed ecco dopo la pubblicità l’intervista al boss Moschillo, che con perfetto mix di arroganza e servilismo si vanta dell’appoggio di istituzioni e banche per rilanciare il made in Italy!

Cosa dire? Fare un libro per definizione effimero, un pamphlet,  sull’argomento più effimero che ci sia, la moda,  e ritrovarselo poi come testo universitario, e passati 14 anni scatenare ancora un putiferio, e tutto questo senza fare carriera e senza guadagnare un euro, beh, sono soddisfazioni impagabili.

Per tutto il resto, ci vorrebbe la Mastercard honoris causa.

(Per darti un’idea in tre minuti, ho selezionato alcuni spezzoni e li ho “caricati” in rete > clicca qui per vederli: www.youtube.com/user/officinabad)

Crisi.

Imago: archittture sospese by Jennifer Gandossi

 

 

 

47 TFIC – 15 paraletteratura lucrosa

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15 paraletteratura Mondadori

guadagnare milioni scrivendo a cottimo

L’editor di Confidenze mi chiama e mi dice che vuole pubblicare un racconto (l’ex porno).

Il compenso è 350.000 lire. Salto sulla mia Kawasaki e dopo 19 minuti, partendo da Bergamo,  sono nella redazione di Confidenze, a Segrate, palazzo Mondadori.

L’editor di Confidenze è una donna sui 55-60, immaginatevi Emilio Fede donna (forse era sua sorella naturale) e piacente.

Alle sue spalle una targa con una frase di Pitigrilli avvisa: “Va bene il bacio al lebbroso, ma la mano al cretino no”.

Il compenso è 350.000, mi dice. Ok.

Pseudonimo? Non ci avevo pensato.

Così scrive il mio nome e cognome, Leone Belotti, e improvvisa un anagramma: dopo pochi minuti, dal battito della Bic rossa, nasce l’immortale Iole Belnotte, destinata a diventare in breve la nuova autrice più amata del settimanale femminile più venduto (Confidenze).

Non prima di un piccolo giallo che vale la pena raccontare, perché rientra nelle cose assurde che possono capitare all’aspirante scrittore.

Succede questo: il mio primo racconto è stato appena pubblicato, è in tutte le edicole, ovviamente ne compro una copia e passo la serata a ubriacarmi nei bar, così la mattina dopo, quando mi suona il telefono prima delle 9, sono veramente rintronato e non capisco quello che mi dicono.

Mi dicono, dallo studio legale della Mondadori, che vogliono chiedermi 2 miliardi di danni. Cado dalle nuvole, e dal letto.

Crisi.

Il fatto è questo: nel numero di Grand Hotel già in edicola quando esce Confidenze, c’è un fotoromanzo che in pratica è la versione con foto, nuvolette e didascalie, tale e quale, stessi dialoghi, stessi nomi dei personaggi, del mio racconto su Confidenze.

L’assassino però non sono io, è il tizio a cui io in buona fede avevo mandato i racconti.

A me parlava come editore di una nuova iniziativa editoriale, intanto vendeva come suoi i miei racconti a Grand Hotel.

Quindi occhio alle fregature, quando mandi tua roba a gente che non conosci (ma anche a gente che conosci, dal momento che non si finisce mai di conoscere qualcuno) e soprattutto quando mandi la stessa roba a più gente, importante mettere per scritto “materiale in visione” e in seguito, trovato un acquirente, diffidare gli altri dall’uso.

Non si finisce mai di pararsi il culo.

Nel mio caso, rischiavo di essere citato per 2 miliardi, a causa di un racconto del valore di 350.000 lire.

Il danno era questo: che queste novelle vengono vendute per vere (e spesso lo sono) e dunque centinaia di lettrici leggendo la stessa storia su Grand Hotel e Confidenze hanno dedotto che queste storie sono finte e addirittura copiate, così hanno mandato lettere e telefonate di protesta, richieste di disdetta di abbonamenti, a entrambe le testate.

Un casino dal quale sono uscito fortunatamente indenne, stante il riconoscimento della mia buona fede (chiaramente il vecchio lupo si difendeva sostenendo che io gli avessi mandato quelle storie con piena disponibilità d’utilizzo, certo, intanto lui le pubblicava e vendeva a suo nome).

Superato questo shock, continuo a scrivere per Confidenze, in modo sempre più intenso. In certi numeri c’erano più novelle mie e a volte un romanzo breve staccabile.

Mi specializzo in storie ambientate nel Ventennio, frequento le case di riposo e faccio parlare le belle ottuagenarie. Le novelle e i romanzetti ambientati nel Ventennio riscuotono un grandissimo apprezzamento dalle lettrici.

Ogni tanto me le immaginavo: un milione di donne,  cioè dieci stadi di San Siro strapieni di donne che leggono la mia novella.

Dirai: il successo! Si, trecentomila copie vendute ogni settimana, forse un milione di lettrici e una montagna di lettere (indirizzate a Iole Belnotte, donne, amiche che fondamentalmente mi ringraziano per averle fatte piangere, a volte solo una parola, un complimento, quasi dei like di facebook ante litteram): non ci crederai, ma ti assicuro che non ci stavo dentro.

Questi qui, cioè la Mondadori, mi pagavano trecentomila lire per una novella con cui riempivano dieci pagine o seicentomila per un romanzetto di venticinque.

Mediamente portavo a casa un milione e mezzo al mese, a volte meno, perché cercando sempre di infilare temi pesanti nella leggerezza della storia d’amore spesso la caporedattrice mi guardava di traverso, e non pubblicava, e non pubblicando, non ti pagano.

Considera poi che tu consegni oggi una storia che va in stampa tra uno-due mesi, quando va in stampa aspetti la fine del mese, e a partire da quel momento passano tre mesi esatti prima che la grande amministrazione dia disposizione di fare il bonifico, dopodiché tra una banca e l’altra sono capaci di far passare un altro paio di settimane.

Morale: lavori oggi, prendi i soldi tra sei mesi, in banca, e se sei già in rosso non li vedi neanche.

Crisi.

Se fai i conti in pratica tu vendi per trentamila lire una pagina di sogni ed emozioni, questa pagina di prodotto a loro costa trentamila lire e gli permette di vendere a trenta milioni la pagina pubblicitaria,

e il marchio che acquista la pagina pubblicitaria accanto alla tua bella pagina diventa il vero autore dei sogni e delle emozioni che tu hai “svenduto” ai signori dell’editoria, pensando comunque di regalarle al pubblico, mentre in realtà le regali al padrone di un’azienda di creme rassodanti con la mediazione del grande editore.

A questo punto capisci di essere davvero una mosca del capitale, e della peggior specie, poi pensi anche al tuo affitto, sai che con  40 caratteri di head line o pay off o claim guadagni come 20.000 caratteri di grande letteratura popolare,

allora mandi a quel paese e il grande editore e la paraletteratura e l’intellettuale organico nazional-popolare, e fai il copy delle creme rassodanti e abbronzanti, e anche delle linee shampoo.

Crisi.

Ma ecco che una bella mattina, mentre sto prendendo il sole al lago di Garda, mi suona il telefono, è il direttore di Confidenze: nella notte Lady Diana si è schiantata come una qualunque shampista.

Bingoo! Cioè, pace all’anima sua, ci vuole un instant book, la missione è: 270 pagine in nove giorni!

Prendo tempo (!) faccio due telefonate, scopro che prima di me hanno interpellato una delle due “regine del rosa italiano” che ha chiesto tot, chiedo metà di tot, lo ottengo, mi firmo Alice Lewis, l’opera si intitola “Il sogno infranto”, è allegata a Confidenze.

Vedo Silvana Giacobini aggirarsi nei box delle redazioni di Segrate, sventola il mio capolavoro e dichiara: è la cosa migliore che ho letto quest’anno. Direi che questa è la massima soddisfazione che ho avuto come autore di paraletteratura.

Da non sottovalutare l’aspetto soldi, avendo portato a casa grazie a Lady Diana (sia lode) quel genere di cifra che ti permette la routine ideale dello scrittore, che a mio parere è questa:

in un mese nel bunker scrivi un romanzo che ti permette di vivere tre mesi,

cioè quello nel bunker e i due mesi successivi al cazzeggio integrale,

magari in qualche altra città o ambiente che ti attira per un qualche motivo,

o anche restandotene nel bunker a giocare a poker per entrare nello spirito giusto per buttare giù un sequel di “memorie del sottosuolo”,

o altro testo pro gloria imperitura o per caduco gaudio,

in attesa della prossima…

crisi.

imago: architetture sospese, 2013 by Jennifer Gandossi

www.jennifergandossi.it

 

 

47 TFIC – 14 paraletteratura rossa

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14 paraletteratura rossa

lo scrittore di storie pornografiche

Bene. Io sono arrivato al rosa per caso, passando dal rosso, cioè dal porno.

Da ragazzino, quando mi aggiravo in bicicletta in Val Calepio, ero sempre molto attento ai margini delle strade, dove spesso si trovavano dei giornaletti porno.

La gente li buttava dal finestrino, i camionisti soprattutto.

Una volta si buttava tutto con naturalezza dal finestrino, a cominciare dal pacchetto di sigarette vuoto.

Oggi il porno è morto, il porno cartaceo intendo, essendosi polverizzato e virtualizzato nel processo di migrazione dapprima al video quindi al video amatoriale e al web, per cui oggi chiunque fa un porno e lo carica in rete.

Ricordo perfettamente quel giorno di moltissimi anni fa, quando infilai un foglio nella mia Olivetti intenzionato a scrivere la sceneggiatura completa per un fotoromanzo porno da proporre alla International Press, allora il più grande editore porno italiano (testate come Caballero, Le Ore, Cronaca Italiana).

Ricordo il viaggio in moto a Milano (guidando un Caballero 50!) per consegnare il mio dattiloscritto come aspirante autore minorenne di porno-sceneggiature per lettori maggiorenni.

La sede della International Press era a Milano, tra i navigli e la Bovisa, dove spuntano tre grattacieli identici, modello America, tutto vetro a specchio.

Uno di questi grattacieli, nel quale io entrai per sbaglio, era ai tempi, forse lo è ancora, la sede della Nestlè.

Ad ogni modo, del mio porno fotoromanzo, non seppi più nulla, ma mi venne in mente quindici anni dopo, forse per motivi freudiani (la storia apparteneva al sottogenere anale), quando un’amica  di amici mi dice che ha un contatto con un editore di settimanali rosa in cerca di nuovi autori di serie b o anche c.

Crisi.

Mi metto all’opera. Ed è a questo punto che mi torna in mente il mio vecchio soggetto-sceneggiatura porno.

Lo ritrovo nel solaio dei miei e mi metto a tradurlo da porno a rosa, un lavoro soprattutto lessicale, togli “mi masturbo a cazzo gigante” e metti “ti penso con tutto il cuore”, ma mantengo struttura, senso e trama del racconto, e lo mando a questo tizio che subito mi chiama e incontro,

è un vecchio lupo del settore, già editore dell’Intrepido e del Monello,

mi dice che sta per lanciare un nuovo settimanale femminile, c’è molto da lavorare, e io ho talento, dunque mi chiede di produrgli altri racconti-sceneggiature per fotoromanzi.

Così ne scrivo due, tre, quattro, passano due settimane, tre, un mese, due mesi, e questo nuovo periodico non nasce mai, così a un certo punto mando a quel paese il tizio e mando i mie racconti ai due leader di settore, Intimità e Confidenze.

Come mi disse con cognizione di causa una pornostar, il sesso stanca, se non c’è il sentimento. – segue

Imago: architetture sospese, www.jennifergandossi.it

 

 

 

 

47 TFIC – 13 paraletteratura rosa

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13 paraletteratura rosa

far piangere milioni di donne 

Scrivere rosa, far piangere le signorine, le loro mamme e anche le nonne, è sempre stata la via maestra per la carriera di scrittore, la prima palestra, l’esercizio di stile formativo, una lunga tradizione, tutti i grandi romanzieri ci si sono misurati, dai romanzoni-feuilleton francesi di fine ottocento, alla scuola italiana con lo sviluppo dei sotto-generi.

Ad autori come Liala, Salgari, Guido da Verona, Pitigrilli si deve l’esplosione della narrativa popolare in un arcobaleno di sfumature dal rosa al giallo al nero all’erotico, e l’invenzione di format nuovi, il fumetto, il fotoromanzo,

un periodo che va dagli anni Trenta agli anni Sessanta-Settanta, quando la televisione uccide tutti i generi, e la scuola italiana  presenta l’ultimo maestro, il grande Scerbanenco, oggi autore di culto, idolo dei nuovi giallisti e ristampato in Adelphi, ma ai suoi tempi autore di novelle e romanzi rosa  per i settimanali femminili.

Ancora oggi ti capita di trovare su bancarelle o in librerie remainders prime edizioni di romanzi di Scerbanenco a 2 euro, con illustrazioni “rosa” in copertina, mentre in libreria lo stesso romanzetto viene proposto nella linea “alta cultura” a un prezzo dieci volte superiore con copertina design (lo stesso accade ai gialli di Simenon-Maigret), tale che mai uno si immaginerebbe che quel testo sia stato originariamente pubblicato a puntate su Intimità o Confidenze.

Scrivere novelle rosa vuol dire confrontarsi col grande pubblico.

Al grande pubblico non interessa minimamente chi tu sia e quanto sia bravo a scrivere, cioè a immaginare e fingere.

Il grande pubblico, nel caso del rosa, vuole divorare compulsivamente, sognare, emozionarsi, piangere per la storia in sé, come fosse vera, come fosse propria, la lettrice compulsiva capisce subito se stai menando il can per l’aia,  dunque non va sottovalutata la sincerità emotiva della storia, devi davvero tirarti fuori il cuore, o tirarlo fuori alle tue fonti.

L’approccio alla scrittura popolare, bassa, richiede più impegno, più dotazione psichica, più attenzione, più lavoro e responsabilità dello scrivere alto, “letterario”, artistico.

Se un tuo racconto letterario viene pubblicato su una rivista di poesia snob, sarà diffusa in qualche centinaio di case dove sarà letta da qualche decina di persone.

Poche ne vendono, e ancor meno vengono lette.

Se la tua novella rosa viene pubblicata su Confidenze sarà venduta in 300.000 copie e letta da un milione di persone, perché in ogni casa, da ogni parrucchiera, estetista, quella copia viene letta da 2,3,5, 10 persone.

E possiamo presumere che tu venga anche pagato.

Eppure su 1000 aspiranti scrittori forse 2 si misurano davvero con la narrativa di genere, popolare, il rosa, il giallo vero

(non quello di moda: qualsiasi romanzo strampalato con dentro un morto ti viene propinato come un giallo, magari con un aggettivo intrigante, tipo “un giallo gastronomico”, e io immagino le segrete vicende di un tuorlo d’uovo andato a male).

Il giallo vero, come il rosa e qualsiasi altro genere, ha delle regole, che tu puoi anche cambiare, infrangere, ma devi sapere che esistono, che sono nella mente dei lettori, che per questo ti comprano.

Ci sono regole, o meglio programmi, riguardo al lessico, ai tempi verbali, alla struttura narrativa, il meccanismo del climax, del flash-back, del flash-on, la doppia linea narrativa, armonia e melodia, la scansione dei movimenti-capitoli, adagio-allegro-andante, il patto con il lettore, il narratore interno o esterno.

Oltre a tutto questo, occorre la storia, una storia vera, con l’anima, la passione, il mistero, che catturi completamente i lettori come persone che pendono dalle tue labbra (pagine).

Le lettrici di rosa non sono lettrici annoiate, sono fameliche, e se gli dai il brodino allungato te lo sputano il faccia.

La prima cosa che mi ha detto l’editor di Harmony è stata:

per fare lo scrittore di seria A possono bastare le raccomandazioni, per fare lo scrittore di serie B devi essere davvero capace”. – segue

imago: architetture sospese, by J.Gandossi 

www.jennifergandossi.it

 

47 tentativi fallimentari d’impresa culturale – 12

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12 case history writing

il biografo aziendale

Se proprio vuoi essere pagato per scrivere romanzi, l’opportunità più concreta è diventare uno scrittore di case history,  biografie aziendali,

non devi far altro che considerare l’azienda come un romanzo, tutti i generi risultano utili, dal romanzo di formazione alla saga familiare (dal mitico fondatore ai nipotini-mecenati).

Tutto può iniziare dalla classica paginetta che ti chiedono per la brochure o il sito, chi siamo,  la nostra storia.

Quella deve essere l’occasione per colpire al cuore l’imprenditore facendoti raccontare la sua storia e riscrivendola con belle parole, con richiami al quadro della grande storia, dandogli senso e dignità

e aprendo la strada, a seconda dell’età e delle aspettative del committente, a un volume sulla storia dell’azienda (tenere d’occhio i centenari) o a un libro autobiografico di memorie d’impresa.

Importante fargli capire che lavori come loro, produzione, consegna, tempistica,

dopo avergli dato un assaggio deve scattare il progetto con preventivo, gli devi promettere un libro firmato da lui in 2-3 mesi, con incontri-interviste settimanali o mensili, 30% anticipo e saldo alla consegna.

Gli inconvenienti, chiaramente, sono all’ordine del giorno.

Mi è successo, ad esempio, dopo aver intervistato per due mesi un riservato e ricchissimo signore, di quelli mitici, che hanno iniziato a lavorare a 12 anni e per una serie di motivi (boom economico) si sono ritrovati dapprima a mettersi in proprio, poi col cognato e il fratello, poi con un dipendente, poi cinque, poi venti, poi il capannone, e in breve alla soglia dei settanta si ritrovano plutocrati, a guidare società per azioni con sedi in mezzo mondo,

mi è capitato, dicevo, che una volta consegnatogli il suo libro, con la sua storia, con le sue parole, questo signore, leggendolo, sia entrato in una crisi d’identità tale per cui non ha più voluto vedermi, né stampare il libro,

e abbia invece cominciato ad andare dallo psicologo.

Questo succedeva diversi anni fa.

Crisi.

In ogni caso, il momento giusto per l’entrata in scena del biografo aziendale è al cambio generazionale.

Bisogna capire subito la situazione: se i figli vogliono giubilare il boss, il libro è l’occasione perfetta per togliere dai piedi il vecchio; se invece il boss è saldo e i figli un po’ ciula, il libro è lo strumento ideale per mettere le cose in chiaro e rimettere i bamboccioni scalpitanti al loro posto.

Sbagliare mossa o referente, dire la cosa sbagliata alla persona sbagliata – e succede facilmente perché ogni azienda/famiglia è sempre una dinasty con un magma di faide e invidie sotto la patina della grande favola,  ti pregiudica  il lavoro, indipendentemente dalle tue capacità.

C’è poi il caso dell’imprenditore senza figli che ti dice: si, mi piacerebbe, lo farei se avessi figli e nipoti:

devi essere pronto a ribattere: un motivo in più per lasciare ai posteri nero su bianco la propria eredità morale, la propria storia.

C’è il caso dell’imprenditore che dice: ne avrei non uno, ma dieci di libri da scrivere su quello che ho visto nel mio ramo.

Gli dirai: cominciamo dalle radici.

C’è quello che dice: mi piacerebbe, ma non ho nessuna storia da raccontare, ho iniziato trent’anni fa a fare guarnizioni per frigoriferi, e per trent’anni non ho fatto altro.

Gli dirai: ha mai pensato che ognuna delle guarnizioni da lei prodotte è entrata in una casa dove una famiglia ogni giorno ha aperto quel frigo, se raccontassimo la storia di una sola di queste guarnizioni avremmo già un romanzo sulla vita italiana, grazie a lei.

Il caso più difficile, non raro, è l’imprenditore che a questo punto con gli occhi lucidi ti dice: sì, ho sempre sognato di scrivere un libro, ma non le mie memorie, a chi importano, invece vorrei scrivere un libro su….

Devi bloccarlo, prima che continui a parlare.

Il vero pericolo è lavorare gratis.

Già lo fai per te stesso, vorrebbero che lo facessi anche per loro, che del resto ti danno gratis l’idea.

Loro non vogliono fare un libro per guadagnare dei soldi, ma per amore dell’arte, eventualmente i proventi li diamo in beneficenza,

e chiaramente vorrebbero da te lo stesso approccio.

La risposta giusta sarebbe: bellissima idea cavaliere, la capisco,

pensi che io scrivendo libri da una vita ho sempre avuto il sogno di guidare un’azienda,

allora facciamo così, per i prossimi sei mesi mentre lei si dedica a tempo pieno e gratis al romanzo, io nel frattempo le guido l’impresa e incasso utili e dividendi al posto suo,

potremmo scambiarci anche la casa e la macchina, per realizzare fino in fondo questo sogno.

Gli metti sul tavolo le chiavi della tua Fiesta, e prendi quelle della sua Cayenne.

C’è stato anche uno che mi ha detto: affare fatto!

Solo che il Cayenne era della banca, l’azienda perdeva centomila euro al mese,

e alla villa la governante ucraina venticinquenne specializzata in sado-maso era abituata a essere salariata in contanti tutti i venerdì sera,

tutte cose che io non ero preparato a fronteggiare,

abituato il venerdì sera a stare con tenere fidanzate lombarde

che mi portano fuori a cena pagando loro e facendomi anche il pieno della Fiesta.

(imago: Lee Iacocca, manager anni 70 della Chrisler, italo-americano, autore di una delle più leggibili autobio del settore manager-industria,  sottogenere solitamente al top della noia)