rileggendo le notti bianche

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Rileggendo “Le notti bianche” di Dostoevskij 30 anni dopo (una volta si firmavano e datavano i libri: e sulle “Notti bianche” trovo un “Leone Belotti, 1986”) mi rivedo e mi risento giovane e ingenuo, e sorrido: non avevo capito niente, allora.

Ne “Le notti bianche”, ambientato a San Pietroburgo nel periodo dell’anno in cui c’è il sole a mezzanotte, un giovane “sognatore” incontra su un ponte una fanciulla infelice per amore; questa fanciulla un anno prima si era promessa a un burbero, suo coinquilino in partenza, il quale le aveva a sua volta promesso di tornare dopo un anno a sposarla, e questo era stato tutto quello che era successo tra  loro;

ma adesso un anno è passato, e il burbero non si vede: così, per quattro notti consecutive, il sognatore consola la fanciulla, le dice cose bellissime, le apre il cuore, lei s’intenerisce, e di fatto passano quattro notti scambiandosi parole d’amore, cioè d’infelicità d’amore,

infine il sognatore, gli occhi lucidi, le confessa di amarla a sua volta, e a quel punto anche la fanciulla capisce di amare il suo consolatore (…al core gentile repara sempre amore), che è un uomo in carne e ossa, che le parla, e le dice di amarla, mentre il burbero è solo un fantasma, una proiezione…

ma ecco che sul più bello, mentre il sognatore tocca il cielo con un dito, compare il burbero (deus ex machina…) e la fanciulla come niente fosse molla il sognatore e se ne va con il burbero. E il sognatore cosa fa? Spara la frase di culto del romanzo, il colpo finale.

Quasi ancora a consolare e ringraziare la fanciulla che pure lo sta mollando, le dice: “Un istante di felicità! Fosse anche il solo nella vita di un uomo, è forse poco?”.

Ecco, al tempo io l’avevo letto come una sublimazione del romanzo romantico.

Invece, stanotte lo capisco, è una sublime, feroce ironia, un sarcasmo tranciante sul romanzo romantico, e sul sentimentalismo idiota che ci rende burattini di una sceneggiatura assurda, fatta di aspettative irreali, e di fissazioni fuori dalla realtà.

E i tre “eroi”, in gara a chi è più romantico, mi si rivelano per quello che sono. Prefigurazioni de “L’idiota”, e anche di “Aspettando Godot”. Marionette patetiche, che recitano un copione, un cliché amoroso basato sulle “grandi aspettative”.

In realtà, il sognatore è un felice e inconsapevole uomo-oggetto, usa e getta. Il burbero è un felice e inconsapevole promesso sposo cornuto. La fanciulla romantica è una felice e inconsapevole puttanella.

E mi vengono in mente le parole con cui David Linch, Palma d’Oro a Cannes 1990 per Cuore Selvaggio, interrompe la giornalista italiana, che sproloquiava sul senso del film, dichiarando annoiato: “Non è altro che una storia d’amore tra due idioti!”.  E mi figuro Fiodor chiosare: “Le notti bianche? La storia d’amore tra tre idioti!”.

Dall’essere impregnato di amore romantico, sembra dirci Fiodor, si riconosce l’idiota: “Quel tipo di uomo… assolutamente buono!”.  E assolutamente inconsapevole sia del male che fa che di quello che gli viene fatto giocando all’amore romantico: che è senza dubbio la più pericolosa delle perversioni erotiche, come tutti noi ormai sappiamo, consigliabile solo a individui dotati di eccezionali mezzi psicologici e morali.

La perversione erotico-romantica, mi ha spiegato una professionista della psiche (consigliandomi di rileggere “Le notti bianche”), può essere vista da due lati: dal lato buono, ti fa essere attratto sessualmente solo da persone a cui vuoi molto bene e per le quali provi grande stima; dal lato non buono, al contrario, ti fa credere di voler molto bene e ti porta a stimare molto le persone da cui sei attratto sessualmente…

 

 

oggi nasce Gesù birrino

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Il birraio innamorato (The brewer in love1)

Era una bella giornata d’inizio maggio2, e dal poggio panoramico sopra l’ansa del fiume3 a monte del villaggio, dopo le piogge d’aprile, la piccola valle si apriva in tutta la sua floridezza di odori e colori di primavera.

Mel Godwin aveva dodici anni, ma ne dimostrava quindici, e aveva già una certa esperienza della vita e degli uomini. Aveva conosciuto le privazioni, l’abbandono, la paura, la violenza, la schiavitù e infine la libertà. Ma non l’amore.

La sua storia, come quella di tanti orfani, era scritta nel suo nome: quando le suore del convento di Tipperary4, una fredda mattina d’inverno, avevano trovato quell’infante depositato in foresteria, gli avevano dato il nome del santo del giorno, e l’avevano iscritto all’anagrafe col cognome Godwin, “volontà di Dio”.

«E poi?»

La piccola Evelyn, undicenne, occhi blu, capelli d’oro, lo ascoltava raccontare le sue avventure. Se c’era una cosa che a Mel non era mai mancata, era la facilità di parola.

«E poi sono scappato!»

Come due piccoli innamorati, se ne stavano a sussurrare rintanati sotto un cespuglio di mirto, sorseggiando una bottiglia di birra che Evelyn aveva rubato dalle cantine della taverna del padre, su precisa indicazione di Mel.  Si erano conosciuti pochi giorni prima, quando Mel, che lavorava come apprendista bottaio, era stato incaricato di consegnare due vecchie botti rimesse a nuovo  alla taverna del villaggio, gestita dal padre di Evelyn.

Mel aveva saputo da un vecchio birraio ormai infermo, che trascorreva le giornate sulla pubblica via sproloquiando con i fanciulli, che alla taverna del villaggio capitava a volte di poter bere la birra forte e speziata destinata alle colonie. Così, quando aveva incontrato gli occhi di Evelyn le aveva sorriso e subito le aveva fatto un complimento. Evelyn, che aveva molti difetti ma non la timidezza,  era subito rimasta ammaliata da quel ragazzo così ben fatto, di costituzione e carnagione più robusta e più scura della media, con occhi e capelli neri, parimenti vivaci. Era abituata ai ragazzi che le facevano complimenti per avere una birra sottobanco.

«E perché tu saresti diverso? »

«Io voglio diventare un birraio!» era scattato Mel alzando il mento.

(anteprima da “Il birraio innamorato”, tit. orig. “The brewer in love”, Calepio Press. Immagine: J.M.W. Turner, Cityscape. Note:

1 Il manoscritto autografo, inedito, anonimo, originariamente intitolato “The true story of the young brewer who trademarked the Indian Pale Ale”, ritrovato da Sean Blazer nell’archivio storico della Compagnia delle Indie in Calcutta,  qui tradotto in italiano da Iole Belnotte su iniziativa del Centro Ricerche Birrificio Elav, riporta una breve nota introduttiva, datata 1866, a firma del sesto conte di Cardigan, nella quale l’estensore dichiara di aver dettato al proprio attendente questa “cronaca veritiera” (truth cronichle) relativa alla vita e alle avventure del “brewer in love” cui si deve il merito di aver introdotto e diffuso nel Regno Unito le birre di tipo IPA (Indian Pale Ale) originariamente prodotte  per essere esportate nelle colonie. In questa edizione italiana, si è scelto di adottare la predetta espressione, “the brewer in love”, come titolo dell’opera (it: Il birraio innamorato)

2 Trattasi del mese di maggio dell’anno 1835, come risulta da riscontri filologici scaturiti da successivi riferimenti testuali. L’anno 1835, allo stato attuale delle ricerche, segna l’inizio dell’epopea delle birre IPA, sulla base di un annuncio commerciale comparso il 30 gennaio del 1835 sul Liverpool Mercury nel quale per la prima volta si fa menzione della denominazione IPA per identificare le birre destinate alle Indie Orientali.

3 Si riferisce al fiume Trent, nella contea dello Staffordshire, nell’Inghilterra centrale, la cui acqua ad oggi è considerata lo standard internazionale per la produzione delle birre IPA.

4  La cittadina di Tipperary, situata nell’Irlanda meridionale, al centro dell’omonima contea, nota per il motivo musicale “It’s a long, long way to Tipperary” che i soldati di origine irlandese cantavano nel corso della prima guerra mondiale.)

 

A Natale certe cose non ditele

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In risposta all’invito di Leone XIV (A Natale, ditele le cose!) una mia gentile amica d’oltremanica, Mrs. Drinkwater, mi ha fatto recapitare un librino dal titolo “Segreti e no”, a firma Claudio Magris, il grande critico letterario, custode della tradizione mitteleuropea.

In poche pagine Magris fa luce sulla doppia natura del segreto, pubblica e privata, e sulla doppia pulsione che scatena: a mantenerlo, e a rivelarlo. Sul versante pubblico due dinamiche: nella custodia del segreto c’è la struttura del potere, nella sua rivelazione la base della narrativa. Ma è sul lato privato che troviamo le motivazioni al “riserbo”, anche Natalizio.

In quest’epoca “di nudismo psicologico”, riscopriamo il diritto all’opacità, a una verità interiore, privata, non condivisa. Argomentazioni a favore del segreto personale, e dunque del non dire certe cose, tantomeno a Natal):

–       perché proprio in questi spazi di libertà da tutti, anche dall’amato, anche da sé stessi, vive una parte importante di noi, una capacità di custodire, e di essere autoconsapevoli;

–       perché ci sono segreti destinati all’oblio, specie per fatti che si vorrebbe non fossero successi, che portati alla luce farebbero danni irreversibili, e senza  alcuna utilità;

–       perché custodire un segreto è anche un altruismo, si mente o dissimula per proteggere altri, che da questa rivelazione sarebbero annichiliti;

–       perché rivelare un segreto è già deformarlo, similmente a quanto dimostrato dal principio di Heinsenberg (osservare un fenomeno è già modificarlo);

–       perché non si apre un cassetto che potrebbe esplodere, quando si può lasciare che il suo potenziale distruttivo  si disinneschi poco a poco (questa sarebbe la “La dissimulazione onesta”, il trattato seicentesco di Torquato Accetto).

Mia cara Mrs. Drinkwater, La ringrazio cordialmente di questa lettura, e della Sua nota sul significato letterale della parola “ri-velare”.

Mi si conceda dunque di aggiungere una postilla al mio messaggio in preparazione al Natale: in questi giorni, amici, viaggiate senza paura nelle vostre stanze segrete, e scegliete con cura e amore, per le persone a voi care, quali cose dire a Natale, e quali invece non dire.

E riflettendo sul diritto all’opacità, “in quest’epoca di nudismo psicologico”, penso a quella forma comoda e geniale di protezione del segreto che è il sacramento della confessione.

E penso alla figura e alla storia di S. Giovanni Nepomuceno il “confessore”, il protettore dei ponti, quella specie di vescovo grigio che vedi sul ponte della Morla, di Gorle, di Nembro e in milioni di altri ponti nella vecchia Europa.

S. Giovanni Nepomuceno era vescovo di Praga, e confessore dell’imperatrice. L’imperatore lo trascina sul ponte Carlo, vuole sapere se la consorte ha un amante. Lo minaccia di morte. Ma il Nepomuceno non cede. E allora viene gettato giù dal ponte, ad annegare nella Moldava.

Rappresenta il martirio di chi custodisce un segreto, e in questo c’è la sacralità della confessione, e la forza, la sicurezza che ti offre nei momenti di passaggio, quando devi attraversare un ponte, affidare i tuoi segreti al Signore (o alla tua coscienza) e andare avanti, passare oltre.

Spesso mi sono chiesto: e se l’amante dell’imperatrice fosse stato proprio lui, il santo confessore? A quel punto, morire per morire, gli è convenuto morire da eroe…

Non è raro ritrovarsi santi per sbaglio, o eroi per caso, per ironia della storia. A volte questo genere di santi risulta anche più amabile. Facciamo tesoro di quello che il Nepomuceno, o qualsiasi altro nostro parente, rappresenta di buono, senza bisogno di sapere e chiedergli se…

A Natale, ditele le cose!

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Ditele le cose, a Natale, le cose che avete in pancia, in gola, ditele, tiratele fuori, aprite i pacchi, questi sarebbero i veri regali da aprire, i nostri cuori: c’è regalo più prezioso?

Dimmela nel modo giusto, quella cosa tra noi, con garbo, umiltà, quella ferita, quell’incomprensione, quella richiesta inascoltata, quella delusione, dimmela, dammi la possibilità di chiederti scusa, perdono, di abbracciarti, di ricominciare, di risanarci insieme.

Natale è per tutti, è la festa della rinascita, finisce un ciclo lunare, ne inizia un altro, è questo l’origine del Natale, precristiana, pagana, è lo Yule nordico, e il significato è un vero e proprio bilancio di fine anno, un fare i conti con le cose importanti, le cose della tua vita, le scelte, i traguardi, i fallimenti, le persone, gli affetti, i comportamenti che hai tenuto: l’anno è finito, riconosci gli errori, paga i tuoi debiti, i debiti dell’anima, chiedi scusa e perdono, ammetti, e festeggiamo insieme, e da domani comincia un nuovo anno, e per cominciare bene questa notte di baldoria è fondamentale, è fondamentale la “pulizia” che si fa tra di noi, è per questo che facciamo baldoria, è dai regali del cuore che viene la gioia, e così il Natale è per tutti, è la festa della rinascita di noi, dei nostri affetti…

Invece, quello che succede, è una tragica caricatura, tutti cercano di interpretare la famiglia felice, e mettere in scena un giornata esemplare, di facciata, dove tutti sono felici, pasciuti, mielosi e capaci di menù, regali e presepi da copertina.

Poi c’è sempre qualcuno, la pecora nera, il cognato disoccupato, la nuora altezzosa o il nipote stronzo che a un certo punto non ce la fa più, e scoppia, e ubriaco dice la cosa sbagliata, nel modo sbagliato, e scatena il finimondo, la scenata,  il contrario esatto della rinascita.

Bisogna dire le cose nel modo giusto, nel momento giusto, bisogna avvisare prima, e quando vi chiedono “vieni a Natale?” bisogna dire “si, ma solo se festeggiamo davvero il Natale”, e gli spieghi questa cosa di aprire il cuore, e regalare il cuore.

In realtà, bisogna essere tutti più cattivi, a Natale, sia con sé stessi che con i propri cari, bisogna avere coraggio a Natale, il coraggio di riconoscere i propri torti, e anche il coraggio di chiedere all’altro ragione dei torti subiti, il coraggio e il bisogno di perdonare ed essere perdonati: allora questo è il Natale per tutti, anche per noi cani sciolti che non abbiamo la famiglia felice, e ci sentiamo male a vedere le luminarie, e il traffico da shopping.

Riprendiamoci il Natale, prepariamoci al Natale, abbiamo un anno per elaborare le nostre ulcere, curarle, leccarci le ferite, e poi far vedere ai nostri cari le nostre cicatrici – non i tatuaggi! – e raccontarle, e chiedere un bacio che benedica queste cicatrici.

Lascia perdere lo stress della corsa al regalo, non è nei centri commerciali che troverai la cosa giusta per me, ma dentro di te, nei giorni passati dentro di te, nelle cose sbagliate successe tra noi, nelle cose non dette.

Fammi un bel regalo a Natale, dimmi le cose che non mi hai detto, e lascia che io ti possa dire le cose che mi sono rimaste lì. Lo so, non è facile, non è detto che la riconciliazione sia automatica: ma mille volte meglio un autentico Natale difficile, di un buon Natale ipocrita. Non cureremo un’ipocrisia decennale in una sera, ma dobbiamo pure cominciare.

Capisci cosa ti sto dicendo, sorella, fratello, amico mio? Questi sono i miei auguri di Natale per te.

 

esci da facebook, e guardami in faccia

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“Su facebook non passa giorno senza che tu metta mi piace alla tua ex, qualsiasi pisciata lei faccia,

e a me, che sono la tua donna, e vengo a letto con te tutti i giorni, non hai il coraggio di dirmi che mi vuoi bene guardandomi in faccia”

(tratto da “Le ballerine di WhatsApp”, spettacolo teatrale – balletto, testo by Leone Belotti, prox on stage)

cosa vuol dire immacolata concezione

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LOTTO-Annunciazione-11 In realtà, si parla di diritto d’autore. Immacolata concezione significa che il codice sorgente è libero, e la creatura, che sia un software, un manufatto o un essere umano, non è di proprietà dei genitori naturali, ma è un dono del “padre nostro” all’umanità.

Questo è il ruolo dell’apparizione dell’arcangelo Gabriele, che l’ateo ignorante legge come un qualsiasi caso di gravidanza extramatrimoniale: il seme, la grazia creativa proviene dal padre di tutti, chiamalo Dio, Spirito del Pianeta, Padre che stai nei cieli o Madre Terra.

L’immacolata concezione è il momento nel quale accogli l’illuminazione creativa nel tuo ventre: ti viene affidato un dono, e il tuo unico compito è svezzarlo, e donarlo all’umanità.

L’unico copyright, l’unico prezzo da pagare all’Autore collettivo, in cambio di una vita libera, breve e autentica, è la morte corporale.

Da quando nasce a quando muore, il Bambino non è tuo, è figlio di Dio, di un free software, è frutto di un seme non in vendita, non di proprietà, e come tale è libero da ogni tag terrena e sciolto da qualsiasi obbligo di famiglia.

Questo vuol dire immacolata concezione. Nascere liberi.

(imago: annunciazione by Lorenzo Lotto)

 

dopo un mese su whatsapp

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Da un mese, compiuti cinquant’anni, vivo su WhatsApp,

come molti, ho con la tecnologia un rapporto schizofrenico, passo anni da retrogrado, come un eremita nel deserto, poi quando il Signore me lo chiede torno in città, e resto fulminato,

il mese scorso ho perso il mio vecchio telefonino di 15 anni fa, niente foto, niente internet, così mi sono rassegnato a entrare nel mondo smart, e il giorno dopo ero già nel tunnel di WhatsApp. Oggi posso condividere alcune considerazioni:

a)    dopo un mese su whatsapp sei un’altra persona, con una solitudine diversa, fatta da una moltitudine di virtualità, che ti priva dell’unica risorsa della solitudine classica, te stesso;

b)    il vecchio dogma Mc. Luhan – il mezzo è il messaggio – è ancora “buono”, e spiega senso e successo di whatsapp: trovarti davanti questa lista di faccine, con delle mezze frasette, solo da toccare, ti porta a comunicare con messaggi fatti di mezze frasette e faccine, di fatto un balbettare con smorfie sorrisi o sghignazzi. Passi delle mezz’ore a scambiarti emoticon, icone, segni da cavernicoli, e infine la quantità e qualità di informazione che trasmetti e ricevi in questa mezz’ora è infinitamente minore di quella che passa in una comunicazione reale, faccia a faccia, con sguardi, toni, aura, contatto. In realtà sei sempre lì da solo davanti a questa tavoletta a chiederti cosa intendeva, cosa rispondere, problemi che in dialogo reale non hai, perché il tono, lo sguardo, la voce di un essere umano ti fa capire subito cosa sta dicendo il tuo interlocutore, a differenza degli emoticon, che di fatto diventano i tuoi sentimenti, i tuoi messaggi, il tuo mezzo di comunicazione.

c)    la tesi che ero curioso di sperimentare è questa: le tecnologie e le opportunità di connessione e comunicazione sempre e con chiunque assorbono il nostro carico di ansia, o lo alimentano? Per quanto mi riguarda, decisamente la seconda. Ho anche più ansia rispetto all’oggetto: il vecchio scatolino mi dava il senso di avere in mano una bomba a mano, questa tavoletta da scriba, luminosa, sottile, fragile, da sfiorare, mi incute soggezione, emana un alone sacrale, non so mai da che parte prenderla.

Stasera, dopo un mese di dipendenza, sempre lì a guardare sto tabernacolo, aspettando un suo segno – che per l’appunto è il tipo di rapporto che si ha con la divinità – ho capito di dovermi disintossicare, come si fa con qualsiasi droga.

Il vero problema è rendersi conto che l’iper-comunicazione come qualsiasi droga o forma di vita religiosa ti promette la felicità, ma di fatto ti crea dipendenza. Dipendi da quei bip, è il bip che vuoi: puoi fare a meno di tutti i tuoi amici, in realtà, ma non puoi fare a meno di whatsapp. E del web, di fb, etc.

Da domani, prenderò una serie di misure per disintossicarmi, tornerò alla forma di vita religiosa catto-militare, francescana, regolata. Per ritrovare quella “solitudine in rapporto con sé stessi” che il mondo smart non prevede, adotterò 4 regole, cioè 4 divieti di utilizzo di ogni mezzo di connessione (oltre a quelli ovvi causa lavoro, riunioni, incontri, cinema, intimità): 1) durante la preparazione e il consumo dei pasti; 2) quando ti dedichi alla tua igiene e benessere personale (relax, ora di depressione quotidiana, sport, stanza da bagno); 3) quando guardi un film o leggi un libro, perché se sei in un film o in un libro e intanto whatsappi o altro, fai male entrambe le cose; 4) quando dormi, e magari sogni.

Alla fine WhatsApp è una forma di vita religiosa, devozionale, basata su delle immaginette che promettono miracoli, come i santini che le nostre nonne tenevano ovunque, o le foto dei morti di famiglia incorniciate e disposte su altarini o bacheche in salotto, con le quali dialogavano/pregavano quotidianamente.

Ma loro avevano meno ansia legata al bisogno di risposta, e forse anche più consapevolezza riguardo al “mistero” etereo del rivolgersi a esseri che sono altrove, e che noi facciamo rivivere nel nostro spirito.

(imago: elaborazione friendly by C.Rocchi)