isis e made in italy

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Non prendiamoci in giro parlando di embargo allo stato islamico, a quelle 50 autocisterne di petrolio “in nero”: parliamo di embargo vero, totale, ai paesi che finanziano il Terrore – che il compagno Putin ha svelato al mondo –  e dunque tutti i paesi arabi ricchi, con tutte le ripercussioni che possiamo immaginare sulla nostra economia.

Questi nostri amici sceicchi finanziano l’isis in primis per non essere essi stessi il primo obiettivo del terrorismo, come sarebbe logico, cioè pagano per tenerli alla larga, non diversamente da quel che fece a suo tempo Papa Leone I Magno, quando si presentò incontro ad Attila con al seguito una carovana di carri carichi d’oro, chiedendogli di non oltrepassare il Po;

in secundiis per ragioni ideali, mossi da senso di colpa o simili, non diversamente da tanti nostri nababbi idealisti che pochi decenni fa finanziavano il terrorismo di estrema sinistra;

Vogliamo combattere il terrorismo? Dovremmo cominciare col dire la verità e avere il coraggio delle nostre azioni. Siamo pronti a tagliare ogni legame, a chiudere ogni attività commerciale, finanziaria, industriale con i ricchi sceicchi che lo finanziano?

E con ciò stendere un velo pietoso sulla mitologia del made in Italy moda e design, a finirla con questa commedia su “i nuovi ricchi che vogliono vestire italiano”.

(E questo vorrebbe dire rimetterci a produrre prodotti onesti, anonimi, competitivi, non drogati dal circolo pubblicità-finanza-propaganda, tornando a essere quel paese povero che in realtà siamo)

Con embargo e sanzioni, dovremmo altresì confiscare, requisire, nazionalizzare le proprietà degli sceicchi in occidente, in Italia, luxury brand, squadre di calcio, formula uno, immobili, a cominciare dal nuovo centro-bufala di Milano, che gli abbiamo appena venduto a prezzo triplo.

Di cosa parliamo quando parliamo di terrorismo islamico?

D’accordo, questi “terroristi” che si mettono a sparare random, non sono degni di essere chiamati uomini, e tantomeno soldati,

però non dimentichiamo che: le armi sono di nostra fabbricazione;

l’intelligence, la comunicazione e spesso perfino gli esecutori materiali sono cittadini occidentali,

e soprattutto i finanziamenti, che provengono da paesi o personaggi nostri amici, nostri partner in decennali business di sfruttamento delle risorse naturali del medio oriente, e questo a vantaggio di pochissimi membri di una elite reazionaria, maschilista, col risultato di affamare intere popolazioni ridotte in servitù;

Sappiamo perfettamente come stanno le cose, ma come tanti pecoroni preferiamo belare insieme ai nostri mass media;

Da 25 anni con ipocrisia sfacciatia offendiamo i nostri stessi valori (democrazia, diritti umani, pace) e bombardiamo, occupiamo, deprediamo  il medio oriente a scopo di lucro (petrolio, e cioè un’economa senza futuro, inquinante, dissipatoria, contraria al nostro stesso spirito scientifico e tecnologico).

Ora dopo tanto export bellico ci ritroviamo in casa il nostro stesso prodotto: violenza, distruzione, morte, terrore.

Se vogliamo ragionare seriamente, sulla base della nostra cultura, non possiamo far finta di non sapere che per ogni membro dell’aristocrazia saudita e affini (emirati, 2bai, 4tar, q8) nato ricco da petrodollari, schifosamente ricco, ci sono centinaia di migliaia di esseri umani che nel deserto accanto crepano di sete, fame, diarrea, bombe, epidemie, massacri, carestie, migrazioni,

e questo mentre lui, l’arabo di sangue blu, nostro amico, compra (da noi) yacht, aerei, elicotteri, auto sportive, gioielli, castelli, piscine, pellicce, borsette, autodromi nel deserto, piscine nel deserto, grattacieli nel deserto, fontane nel deserto, alimentando il peggio della nostra imprenditoria pseudo creativa, in realtà familista e ignorante, al pari della sua clientela.

Di cosa stiamo parlando quando parliamo di democrazia e diritti umani? Che cosa c’è di nuovo rispetto alla democrazia ateniese, basata sulla schiavitù di massa dei beoti, degli iloti, dei lavoratori della terra?

Sostenendo gli sceicchi sosteniamo un modello di sfruttamento improponibile nelle nostre comunità, e adesso ci ritroviamo a fare i conti con l’onda di ritorno, un’onda che sarà lunga, e fatta di sangue.

Per fare davvero la guerra al terrorismo, non serve chiudersi in casa, o ghettizzare la comunità islamica, e nemmeno fare della Siria un nuovo Vietnam,

occorre il coraggio di cambiare amicizie e vizi, smettere di drogarci di petrolio facile e di arricchire regimi anacronistici.

Non è dalle macerie siriane-irakene che viene il cancro del terrorismo, ma dal lusso degli emirati. Lo sappiamo.

Democrazia, diritti e libertà sono solo parole vuote se non c’è un minimo di uguaglianza.  Non dimentichiamo come e dove è nata la civiltà occidentale moderna: a Parigi, tagliando migliaia di teste, quelle di sangue blu, perchè erano delle sanguisughe. Un periodo che sui libri di storia si chiama il Terrore.

il telefono che uso da 10 anni

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NokiaLeo

Il telefono che uso da 10 anni (15.000 sms inviati, 35.000 ricevuti, oltre 500 nomi in agenda) era già superato quando l’ho comprato. Prima ho avuto un Motorola usato, di quelli grossi come un walkie-talkie, che non è durato tanto.

Non saprei dire di preciso quando ho cominciato a diventare un consumatore di retroguardia, una volta anch’io ero un giovane all’avanguardia in fatto di tecnologia, abbigliamento, mobilità, mode culturali…

Forse è successo ai tempi dell’università, andando fuori corso, sì, è stato allora; o forse c’entra anche il crollo del comunismo, e la conseguente modulazione dell’imprinting anti-capitalista in rifiuto dell’omologazione consumista.

Non si tratta di una forma di integralismo, ma di resistenza passiva: essere alla retroguardia non significa essere fuori dal proprio tempo, ma arrivare per ultimi, adottare l’usanza comune quando è generalizzata, quasi per deriva, una resa al prodotto inevitabile, mentre chi è all’avanguardia è già due gradini oltre.

Il ciclo dei consumi, come quello della moda, prevede una nicchia di innovatori, cui segue la massa, e infine la nicchia della retroguardia.

Ora che quasi tutti hanno lo smartphone o l’iphone, anche noi della vecchia guardia, uno ad uno, ci arrenderemo all’usanza diffusa, e verremo normalizzati.

A un certo punto sei obbligato, e devi cedere: da mesi la Vodafone mi manda messaggi intimidatori: sappiamo tutto, solo per te il nuovo Galaxy gratis, cosa aspetti! Che domande! Aspettavo il decennale!

Nel frattempo, in condizione di handicap tecnologico, noi retrogradi in questi 10 anni abbiamo potuto osservare come è cambiata la vita dei nostri simili, e arrivare consapevoli, preparati al cambio  di vita: perchè è indubbio che l’innovazione tecnologica ti cambia la vita, e non sempre in meglio, come tutti prima o poi abbiamo potuto sperimentare.

Il mezzo è il messaggio, anche in questo caso: in un mondo dove tutti sono sempre reperibili e responsive, messaggi non in linea con il mezzo, come “please rispondimi su sms” “sarò off line fino a domani mattina” “mandami la foto via mail” “vediamoci martedì senza ulteriore avviso” vengono sempre ignorati dall’utente umano che ormai è tutt’uno con il mezzo.

Il mito delle reperibilità, iniziato con il cercapersone, oggi è una realtà totalizzante.

Nell’arco di questo decennio siamo cambiati. Poter mandare parole sempre a chiunque in ogni luogo ci ha fatto perdere il valore della parola data, e precipitare nello stress degli  appuntamenti elastici (“chiamami quando parti, chiamami quando arrivi”).

Eravamo esseri umani, con 5 sensi e 1 anima, e siamo diventati periferiche di un’intelligenza artificiale eterea, fatta di programmi, server e memorie che stanno tra le nuvole, proprio come la forma suprema d’intelligenza che programmiamo da millenni: Dio.

Eppure, nonostante sia (o appaia) sempre più accelerato, alla fine il nostro tempo ha sempre la stessa unità di misura e di senso: il decennio

Noi viviamo le nostre vite misurandoci sul decennio.

Pensiamo a noi stessi, a “come eravamo” a 20 anni, a 30 anni, a 40 anni. Gli stessi oggetti d’uso quotidiani, prima del consumismo, duravano un decenni, e accompagnandoci segnavano il nostro tempo.

Non solo la storia personale, ma anche la storia collettiva, la grande storia, è scritta sui decenni: basta dire gli anni 20, gli anni 30, gli anni 40 ed ecco le avanguardie, i totalitarismi, la guerra mondiale, poi gli anni, 50, 60, 70, 80, il boom economico, la dolce vita, gli anni di piombo e il made in Italy.

Il fatto è questo: 10 anni sono un pezzo di storia, e oggi né i nostri oggetti-feticcio, né le tendenze culturali arrivano a durare un decennio, a maturare.

Il decennio è un tempo-prova, un “periodo”, un principio cognitivo.

Tutti ricordiamo che a un certo punto nei libri di storia, al liceo, c’era un capitolo della storia d’Italia intitolato “il decennio preparatorio”, che racconta come si siano gettate le basi dell’Unità d’Italia tra le sommosse del 48 e la spedizione dei Mille del 1861.

Quel primo tratto di storia d’Italia, quel lungo decennio di anteprima all’impresa dei Mille, costituisce una metafora perfetta, nel suo sviluppo non lineare, ma circolare, di quelle  “micro-storie d’italia” che saranno le imprese del made in Italy: un’idea/sentimento d’innesco, il contagio/condivisione, quindi la fase difficile, l’epoca in cui l’idea deve diventare grande,  superare l’infanzia, fare presa nella realtà, resistere alla tipica dinamica di caduta dell’entusiasmo in corrispondenza della costruzione del consenso…

Se supera il decennio preparatorio, un’idea, un prodotto, un’azienda diventa adulta.

Ma la mortalità infantile del made in italy è sempre stata altissima. E anche nelle nostre vite private, spesso viviamo progetti di vita che non arrivano al decennio, in amore, nel lavoro, e poi ricominciamo. Cambiamo telefono, e cominciamo un nuovo gioco. Siamo eterni bambini, noi italiani.

Ma ci dimentichiamo della mission più importante dell’essere bambini: dire la verità, avere l’incoscienza di gridare che “il re è nudo”.

Photo: il mio telefono. Infilato nel Nokia: “faccine” by J.Gandossi, che ora uso come agenda-memo, col n. di tel. sul retro, dopo aver appurato che più della metà dei 500 n. in agenda… non so più chi siano!)  

 

 

nel posacenere di Fornasetti

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nel posacenere di Fornasetti ho visto le ceneri del made in Italy,

mi è successo ieri, alla Triennale, alla mostra su Piero Fornasetti,

un vortice di piatti vassoi vasi e scatole case e armadi infiniti e infinitamente scritti, disegnati, decorati,

mostra bellissima, elettrizzante, da vedere,

bellissimo il video finale fatto da Toni Meneguzzo,

ed ecco uscendo, sfogliando il libro delle firme, mi capita sott’occhio un commento amaro, che riporto a memoria: “un grandissimo artista, peccato sia stato ridotto a volgare business dal figlio Barnaba”

e mentre mi chiedo cosa significhi, fatti pochi passi verso l’uscita, m’imbatto nella book-shop, con tanto di vetrinetta dei gadget-ricordo, dove vedo la riproduzione in serie di piatti, vasi, e una didascalia che spiega:

Barnaba Fornasetti porta oggi avanti la tradizione del padre, continuando a produrre e a ravvivare i motivi Fornasetti. Direttore e cuore artistico dell’azienda, Barnaba custodisce l’eredità del padre, con riedizioni dei pezzi più rappresentativi e “reinvenzioni” nella tradizione di produzione artigianale inaugurata dal padre.

Mi colpisce in particolare il piattino-posacenere, in vendita a 135 euro.

Da qualche parte avevo appena letto che Piero Fornasetti immaginava un mondo dove la bellezza del disegno, grazie alle nuove tecniche di riproduzione industriale, fosse a portata di tutti.

Ironicamente, penso: per fare un lavoro completo, almeno il prezzo avrebbe dovuto essere scritto a mano dal figlio.

Scuotendo la testa, ho attraversato il parco, e continuando a ripensare al posacenere originale decorato da Fornasetti visto in mostra, e alla versione riprodotta in serie e commercializzata dal figlio, mi è venuta voglia di fumare,

e fumando, e camminando, ricordavo le frasi, le citazioni di Fornasetti lungo il percorso della mostra:

ho riposto in ogni opera un messaggio, un piccolo racconto certe volte ironico, senza parole evidentemente, ma udibile da chi crede nella poesia

ed ecco che il messaggio, il racconto poetico che scaturiva dal posacenere stampato a 135 euro assumeva il tono grave di una massa dolente che informe avanzava dalle brume,

una schiera di 135 nuovi schiavi, senza bisogno di parole io capivo cosa dicevano, siamo uomini e donne ridotti alla fame perchè 1 nuovo ricco possa recarsi nella capitale della moda a comprare a 135 euro un posacenere firmato made in italy,

ed ecco al seguito una schiera di 135 artigiani italiani rimasti senza lavoro, anche loro scaturiti dal posacenere made in italy a 135 euro,  prodotto magari in cina a 0,13 cent e identico a quello venduto a 5 euro dalla malavita organizzata clandestina!

il messaggio era chiaro, completo, geniale, fornasettiano:

ribaltiamo i termini del problema, perchè affamare 135 figli di nessuno per mantenere nel lusso 1 figlio di papà, è antieconomico,

perchè la Guardia di Finanza deve sprecare tempo e risorse a inseguire 135 vu cumpra quando potrebbe blindarne 1 solo, il vero contraffattore?

L’eredità di un genio non spetta al figlio di papà, ma all’intera umanità!

Giuro che questa frase l’ha pronunciata Piero Fornasetti, apparsomi nel parco.

47 TFIC – 16 pamphlet

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16 Libro inchiesta

lo scrittore di questioni sociali

Il libro-inchiesta, il pamphlet, il j’accuse, il manifesto di un nuovo pensiero o movimento, l’indagine, il reportage, il libello polemico:

parliamo del successo dello scrittore di cose sociali, dell’intellettuale impegnato, ieri Sartre, Queneau, Pasolini, oggi Naomi Klein, Travaglio, Saviano.

Tutti hanno il saggio-bomba nel cassetto, o perlomeno in testa.

 

Negli anni Novanta del secolo scorso, il decennio della conclamata “sobrietà”, il mio disgusto verso il sistema della moda raggiunse i massimi livelli.

Passavo interi pomeriggi a conversare con l’architetto Baroli – un compasso d’oro! – nel suo bunker in via Durini.

Lui mi raccontava con il sorriso dell’esteta depresso segreti e bugie del made in Italy, io cercavo un modo per rivelare al pubblico cose eclatanti e lineari, come i meccanismi finanziari del cosiddetto “valore culturale aggiunto” per cui una polo o un jeans da 5 euro – una volta griffati – vengono venduti (ancora oggi) a 20 volte tanto, cioè con un ricarico del 2000%.

 

Solo un popolo ignorante può pensare di comprare cultura in una boutique. Solo un paese marcio può asservire industria e banche a un gruppo di “stilisti”, dietro cui si muovono altre economie, è chiaro.

Solo un sistema mediatico corrotto può propalare per decenni certe menzogne colossali e non dire mai niente di quello che c’è dietro la facciata, e non parlo di modelle e festini, parlo di pubblicità, soldi e banche.

Che fare?

Se andavi da un editore con questi argomenti si metteva a ridere.

I media italiani stanno in piedi con le pubblicità di moda.

Un libro verità sul papa, sulla camorra o sulla CIA si può fare: ma sugli stilisti no, impossibile.

L’unica strada come sempre era il Trojan Horse. Colpire dall’interno, sotto mentite spoglie.

Sabotaggio neo-situazionista.

 

 

Ancora non esistevano i blog. Così comincio a raccogliere dati e materiale fingendomi un laurendo adorante con la sua tesi celebrativa sul made in Italy. L’idea è un libro-verità, un pamphlet, un j’accuse.

Quindi mi occorreva uno pseudonimo dietro il quale lasciar intendere la presenza di un grande imprenditore, così da ottenere l’attenzione della stampa servilista. Infine un piccolo editore autorevole che pubblicasse e distribuisse il libro.

Niente da fare. Anche qui, occorreva usare le armi del nemico: se chiami un editore e gli dici ho un libro che è una bomba, ti mette giù il telefono, se gli dici ho un libro camomilla e trenta milioni da spendere, ti viene a trovare il giorno dopo.

Per fare un libro pagato – non avendo come sempre il becco di un quattrino – mi occorreva dunque un mecenate disposto a finanziare l’operazione senza alcuna prospettiva di profitto.

 

Parliamone a Boggi – mi disse Baroli – il vecchio Boggi ha sempre odiato il sistema della moda.

Il vecchio Boggi fu entusiasta, da anni cercava qualcuno che scrivesse un libro verità sul sistema della moda (avrei dovuto riflettere sul perché non l’avesse ancora trovato, in effetti) al punto che era disposto ad aprire la borsa e divenne egli stesso fonte di notizie interessanti:

ad esempio: le camicie cotone uomo Boggi, vendute allora  a 40.000 lire, e le camicie uomo della Standa, vendute a 25.000 lire, e le camicie uomo di Armani, vendute a 120.000 lire, erano le stesse, ma proprio le stesse, prodotte in India dal suo amico Bora.

 

Per l’edizione scelsi Lubrina, allora diretta da Claudio Calzana (che oggi dirige il marketing de L’Eco di Bergamo) a cui va il merito di aver inventato il nome dello pseudonimo: Sean Blazer.

Sean come Sean Connery, l’agente 007, e Blazer come Blazer, che vuol dire “strillone”, nome della nave inglese addetta alle comunicazioni divenuta celebre per l’estro del comandante, che fece fare le divise blu (nella stiva c’era una pezza di tela blu) in occasione della visita della regina, che apprezzò (così nasce il Blazer, la giacca blu con i bottoni dorati).

Così pubblico il pamphlet come Sean Blazer (“Mercanti di moda”, Lubrina 1997, retro di copertina: Sean Blazer è uno pseudonimo sotto il quale si cela un imprenditore fin troppo noto…) e lo mando a tutti i giornali. I pesci abboccano.

Le prime recensioni appaiono su Il Manifesto e Milano Finanza. Ci si chiede se Sean Blazer sia De Benedetti o Luciano Benetton.

 

Il libro va esaurito.

Boggi non resiste. Rilascia un’intervista a Diario dove si rivela come imprenditore di sinistra (!).

Subito dopo Panorama fa un reportage di 4 pagine con la mia foto e rivela che Sean Blazer è un anarchico di destra (!).

 

La mia idea su Sean Blazer era quella di un nome collettivo che chiunque potesse usare come scudo-egida, tipo Luther Blisset. Speravo che dieci, mille Sean Blazer saltassero fuori ad alimentare l’incendio.

Invece dopo tre settimane, visto che dietro non c’era Benetton né un pari requisiti, era tutto finito e l’unico ad essere rimasto bruciato era il sottoscritto.

Nella mia ingenuità, immaginavo che dopo questo attacco al sistema tipo Davide contro Golia (un lavoro giornalistico con i fiocchi, a parere di tutti gli addetti ai lavori) mi si sarebbero spalancate le porte della grande editoria, o del grande giornalismo.

Sbagliato. Anche da L’Eco di Bergamo, per il quale scrivevo di arte sacra, altra mia passione castrata, fui allontanato col marchio di “inaffidabile”. Invece del Pulitzer, mi ritrovai con un pugno di mosche.

 

Crisi.

Per trovare lavoro, dovetti cambiare nome e sesso (Alice Lewis) e rivolgermi all’unico settore editoriale dove vige piena e totale libertà d’espressione: Harmony, Confidenze, Intimità e Grand Hotel, romanzi rosa e fotoromanzi.

In seguito non sono mancate altre sorprese amare (la metamorfosi possessiva del vecchio Boggi, identificatosi totalmente in Sean Blazer) ma anche alcune soddisfazioni (la stima di Benedetta Barzini, che volle conoscermi, e inserì il testo di Sean Blazer nel programma d’esame del suo corso di Storia della Moda all’Università di Urbino)

e qualche sorpresa tardiva, come la telefonata di settimana scorsa, quando mi si invita a una trasmissione televisiva sulla moda, per discutere se il mio pamphlet, che ha ormai 14 anni, sia ancora d’attualità.

Mi fanno notare che anticipa di un paio d’anni parecchi dei ragionamenti che hanno poi fatto la fortuna del best seller planetario “No Logo” della Klein.

 

Così vado a questa trasmissione, leggo qualche brano, divulgo semplici verità e vengo assalito  dalle pr che lavorano per la Camera della Moda

(e anche insultato, fuori onda: voi intellettuali del cazzo che non fate un cazzo dal mattino alla sera e venite a tirare merda sulla gente che lavora)

ma se non altro conquisto i ragazzi del pubblico, che poi vengono a stringermi la mano.

Il giorno dopo guardo la registrazione e mi rendo conto dell’effetto casualmente o paradossalmente destabilizzante della trasmissione.

 

Esempio: io spiego il meccanismo del valore culturale aggiunto che fa vivere tutto il sistema mediatico parassita, e dopo la pubblicità viene mandata l’intervista al boss Boselli che trionfante dice: 2000 giornalisti alla fashion week! (alla Fashion Week, non in Siria!).

Quindi si torna in studio, io spiego che le banche strozzano tutto il popolo della partita iva, artigiani e piccole imprese per poi finanziare con centinaia di milioni di euro queste griffe che non restituiscono niente e costruiscono alberghi a Dubai, ed ecco dopo la pubblicità l’intervista al boss Moschillo, che con perfetto mix di arroganza e servilismo si vanta dell’appoggio di istituzioni e banche per rilanciare il made in Italy!

Cosa dire? Fare un libro per definizione effimero, un pamphlet,  sull’argomento più effimero che ci sia, la moda,  e ritrovarselo poi come testo universitario, e passati 14 anni scatenare ancora un putiferio, e tutto questo senza fare carriera e senza guadagnare un euro, beh, sono soddisfazioni impagabili.

Per tutto il resto, ci vorrebbe la Mastercard honoris causa.

(Per darti un’idea in tre minuti, ho selezionato alcuni spezzoni e li ho “caricati” in rete > clicca qui per vederli: www.youtube.com/user/officinabad)

Crisi.

Imago: archittture sospese by Jennifer Gandossi

 

 

 

un fantasma si aggira per l’Europa: l’Italia

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Italia

Un fantasma si aggira per l’Europa: l’Italia.

L’Italia è un fantasma perché la sua storia è quella di un fantasma, una sembianza, un’apparenza. E l’apparenza inganna. L’Italia, la storia dell’Italia moderna, è un caso esemplare di un’identità costruita sull’inganno delle apparenze.

Basta rileggere senza paraocchi le 4 mitologie cruciali della storia italiana contemporanea (Risorgimento, Ventennio Fascista, Resistenza, Made in Italy) per comprendere cosa sia lo stile italiano, e quanto sia storicamente radicato.

Il Risorgimento viene impartito – già dalla parola – come fenomeno morale che si manifesta in episodi esemplari (con specifica denominazione: i “moti risorgimentali”) che fungono da “trailer” di un sentimento nazionale e popolare in realtà inesistente.

La mitologia-mitografia risorgimentale con i suoi testimonial (Ciro Menotti, Silvio Pellico, Carlo Pisacane) i suoi art director (Mazzini, Garibaldi, Cavour) e la sua grande campagna di lancio (“Spedizione dei Mille”) è un grande esempio di costruzione spettacolare di una favola che non c’è:

pochi intellettuali e rivoluzionari professionisti, in esilio, completamente staccati dalle esigenze e dai sentimenti popolari, senza alcun seguito nelle masse contadine, quindi un colpo di stato (la spedizione dei mille) finanziato o organizzato dalle grandi potenze (con l’apertura del canale di Suez, per ragioni chiaramente commerciali, diventava fondamentale avere un’Italia unita e integrata al sistema europeo), quindi trattative in alto loco (ti do la Savoia, mi dai il Veneto) e l’Italia è fatta.

Il Risorgimento, cioè l’atto di nascita del paese Italia, è una grande operazione di falsificazione e costruzione di un patriottismo idealista, strumentale, del tutto inesistente, se non nella testa di qualche aristocratico idealista e qualche sincero rivoluzionario (gli “utili idioti”).

Di fatto: sono bastati 1000 garibaldini ad annettere quasi pacificamente il Sud in due mesi, ma non sono bastati 100.000 soldati e cinque anni di repressione sanguinaria (culminata con la rivolta di Palermo – unico vero episodio di partecipazione popolare del Risorgimento, peccato che fosse anti-italiano)  che nessuno conosce, con migliaia di morti, deportazioni, villaggi incendiati, esecuzioni sommarie a sottomettere quelle popolazioni e regioni che si pretendeva di aver liberato,

e che invece si sono subito ribellate al nuovo stato, appena il nuovo stato ha tradito platealmente le promesse (distribuzione della terra ai contadini, che è invece diventata privatizzazione del demanio a beneficio dei grandi proprietari, e conseguente peggioramento delle condizioni contadine)  fino a  essere sottomesse con la forza, oltre che con la propaganda (e questo reale risorgimento e resistenza del sud italia al nuovo stato nordista viene chiamato “banditismo”,

e qualsiasi storico onesto vi dirà che questo passaggio storico è alla base della questione meridionale, cioè della non adesione del sud al paese, alle istituzioni, e della conseguente diffusione endemica di mafia, camorra, n’drangheta, etc).

Sulla “questione meridionale” hanno poi disquisito (e campato) generazioni di intellettuali e politici, senza mai andare alla radice della questione, chiaramente, perché se qualcuno (lo Stato italiano) ti paga per occuparti di un problema tu non puoi dirgli che la causa del problema è lui (lo Stato italiano).

Col Ventennio Fascista la tecnologia di costruzione dl consenso trova il suo massimo sviluppo: i mass media, l’architettura, la scenografia, lo sport, tutto diventa immagine coordinata e  diffonde in Italia e nel mondo questa nuova mitologia, lo stile italiano, cioè ordine, benessere, civiltà, modernità, ginnastica e tecnologia.

Starace, D’Annunzio, Mussolini: al di là del fascismo, sono i precursori della società dello spettacolo, della pubblicità e delle comunicazioni di massa basate sul consenso verso un sogno, una favola.

Ma la favola si interrompe di colpo, l’apparenza di un paese militarizzato si scioglie nelle nevi, in Grecia, in Russia, lo stivale italiano ha le suole di cartone, il regime costruito in vent’anni crolla in mezz’ora, il re scappa vilmente con tutta la corte (e ha sulla coscienza i martiri di Cefalonia) il paese è occupato da eserciti stranieri:

una catastrofe, una tragedia nazionale, lo stile italiano rivela tutta la sua falsità, è l’occasione per cambiare stile, mentalità, tutto, diventare un paese onesto, consapevole.

E invece cosa accade? Si inventa una nuova favola. La Resistenza!

La Resistenza, con i suoi copywriter (Vittorini, Pavese, Fenoglio) similmente al Risorgimento e al Fascismo mistifica la realtà: accade così che poche centinaia di sinceri antifascisti, e pochi episodi locali di guerriglia, diventino sui libri di storia della scuola dell’obbligo un movimento di massa protagonista di una gloriosa pagina nazionale (con specifica denominazione: “la Liberazione”) che copre la realtà storica, cioè la inenarrabile vergogna nazionale che è nei fatti storici, in certi fatti storici decisivi e davvero esemplari,

come la fuga del re e di tutto la classe dirigente, e soprattutto la guerra civile-macelleria-pulizia etnica: in un mese, maggio 1945, 40.000 morti “gratuiti”, a guerra finita, per lo più uccisioni di pura vendetta, faida, frustrazione, non una pagina onorevole, evidentemente, perché bastava essere additati come fascisti per essere ammazzati per strada, ed è chiaro che allora il 99% degli italiani avrebbe dovuto essere ammazzato per strada, a cominciare da quegli stessi “intellettuali” che questo massacro hanno giustificato e alimentato,

in primis il mostro sacro Vittorini, che dopo aver passato venti anni a far carriera come intellettuale squadrista e fascista con un colpo di spugna rinasce antifascista comunista e sanguinario: i suoi scritti incitano ad ammazzare “i fascisti” perché ci sono “uomini, e no” e i fascisti non sono uomini, sono solo “figli di stronza” .

Non solo nessuno gli rinfaccia il clamoroso voltafaccia ma tutti lo riconoscono e acclamano nuova guida morale del paese, e infatti dirigerà la più importante casa editrice italiana.

E’ l’esempio del trasformismo sfacciato dell’intellettuale italiano.

Oggi vediamo  l’ultima versione di questo tipo nella generazione dei sessantottini trasformatasi nella classe dirigente pubblicità-giornali-televisioni della società dello spettacolo.

Quindi, quando oggi celebriamo l’Unità d’Italia e il Made in Italy, stiamo celebrando questo, l’incredibile sfacciataggine e capacità  di imporre apparenze ad altissima percentuale di falsità aggiunta: e questo carattere, questo stile italiano, è costitutivo dell’identità e della storia nazionale, sia delle due grandi mitologie fondanti, Risorgimento e Resistenza, sia della mitologia “rimossa”, il Fascismo.

Il Risorgimento, propagandato e imposto come risveglio della coscienza nazionale e di valori come unità e indipendenza, nasconde la feroce repressione (brigantaggio) seguita a un colpo di stato (spedizione dei mille) finanziato dalle potenze straniere e realizzato da quelli che oggi chiameremmo terroristi o mercenari.

La Resistenza, propagandata come rinascita civile e di valori come libertà e democrazia, nasconde la vergogna del voltafaccia e della pulizia etnica per non affrontare la vergogna di un paese opportunista, codardo, vendicativo e servo del potere.

Poi cosa succede? Come si arriva al Made in Italy? Siamo nel 1945, l’Italia è un paese vinto, distrutto, occupato dagli Americani.

Succede che gli Americani hanno capito perfettamente cosa sia e a cosa serva lo stile italiano. E’ l’avanguardia di comunicazione del consumismo: diventerà il modello, l’immagine della democrazia del benessere, filoamericana.

E dunque niente sanzioni, niente punizioni, niente esame di coscienza collettiva e ricostruzione morale, ma invece: palate di dollari, ovvero: il piano Marshall, e la Thompson.

La Thompson è stata la prima agenzia pubblicitaria a lavorare sul mercato italiano, è subentrata direttamente al Minculpop: la Thompson è sbarcata a Salerno nel 43’, come ufficio stampa dell’esercito americano, poi diventata ufficio stampa del piano Marshall, poi prima e unica agenzia pubblicitaria ad operare in Italia nel momento del boom economico.

E quindi: la repubblica italiana nasce col piano Marshall, ed è fondata sulla pubblicità.

Soldi che piovono dall’alto. Un colossale investimento pubblicitario. A una condizione: niente comunisti al governo.

Ecco il paradosso, il capolavoro: proprio mentre si sventola una repubblica basata sull’antifascismo, con il più forte partito comunista di tutto l’Occidente, con intellettuali comunisti al comando nei giornali, nelle case editrici e nelle università, invisibile, reale, permane la condizione-cappio: niente comunisti al governo.

Da qui, come tutti sanno, la strategia della tensione (piazza Fontana, piazza della Loggia, treno Italicus, sequestro Moro, stazione di Bologna) cioè una serie di stragi (veri e propri avvertimenti) che arrivano puntualmente ogni qualvolta si presenta il pericolo che la sinistra vada al potere,

esattamente come accade in una classe di bambini dell’asilo cui viene promesso un premio, un premio che non arriva mai, e non per colpa della maestra, ma perché c’è sempre qualche bambino che all’ultimo momento combina un guaio, e rovina tutto.

Ecco lo stile italiano.

L’Italia contemporanea, la Repubblica, è un soggetto incerto e impotente per questo motivo, questo Economic Recovery Plan, questo “regalo”, questo “potlach” che ci ha reso succubi prima dell’economia e poi della cultura commerciale americana.

Lo stile italiano, cioè la capacità di costruire apparenze, trova la sua nuova ragione d’esistere nella moda  e nel design, e diventa in tutto il mondo il vangelo del consumismo vistoso e dello snobismo di massa.

Berlusconi, con la guerra dell’etere, porta a compimento questo tracciato, schiantando la “resistenza” cattolica e comunista: fino alla fine degli anni Settanta, per accordo catto-comunista, erano vietate le pubblicità dei beni di lusso, ed erano considerati beni di lusso tutti quelli non alla portata delle tasche proletarie.

Al Carosello vedevi il caffè, la pasta, il detersivo, non le auto di grossa cilindrata, non le pellicce.

Se non ci fosse stato prima il piano Marshall e poi Berlusconi, avremmo dovuto fondare il made in Italy sul lavoro (o sulla tecnologia vera, come ha fatto il Giappone) mentre l’abbiamo fondato sui debiti e sulla pubblicità.

Basta guardare le cifre per vedere che siamo il paese che proporzionalmente al nostro PIL è sempre il primo al mondo per spesa pubblicitaria e l’ultimo per livello d’istruzione.

L’Italia non è una repubblica fondata sul lavoro e sulla resistenza. L’Italia è una privativa basata sulle apparenze e sul trasformismo. La sua storia lo dimostra.

Per un paese che già nell’Ottocento è stato capace di vendere un colpo di stato con conseguente repressione militare (cioè: la tipica nascita di un regime) come un’epopea eroica di patriottismo e più tardi, nel secondo dopoguerra, è stato capace di vendere, in pacchetto completo, venti anni di consenziente servilismo di massa culminati in un mese di pulizia etnica come eroica resistenza antifascista, per questo paese, è stato un gioco da ragazzi vendere il Made in Italy, lo stile italiano, è chiaro:

puoi falsificare la tua storia cambiandoti d’abito, noi lo sappiamo fare, noi siamo i numeri uno, noi ti diamo gli strumenti per governare l’apparenza e creare realtà ingannevoli.

Tu sei avido, invidioso, vile, disonesto, incapace, bramoso, ridicolo, furbo, vorace, ignorante, ottuso. Ti rivolgi allo stile italiano.

Diventi sofisticato, intrigante, sensibile, elegante, colto, seducente.

Ha funzionato per trent’anni. Adesso è finita. Serve una nuova favola.

tratto da “Lo stile italiano” by Sean Blazer (alias Leone Belotti) – Calepio Press

 imago: Biennale di Venezia, padiglione Italia, 

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ModaChiama

sul viale del cimitero, al posto della donna dalle perle in bocca che ci invitava bassamente allo shopping selvaggio a Oriocenter, è apparso un nuovo mega-manifesto, di tono più elevato,

(e più grande, in metri quadrati, dei bilocali in cui viviamo noi comuni mortali);

da un telefono azzurro, è la moda che vi chiama, bambini, al Franciacorta Outlet Village,

un borgo agricolo ricostruito finto, tipo parco giochi per bambini, con parcheggi, parquet e telecamere,

e tutte le boutique e i negozi monomarca al posto delle stalle, dei pollai, dei fienili,

e le commesse di marca al posto dei contadini,

e la security con gli auricolari al posto del fattore col frustino;

e quello che vuole dirvi la Moda, bambine e bambini di 6-60 anni, è che voi siete le mucche, le galline, i conigli, i maiali, carne da macello, da latte, da ingrasso, capite,

la Aberdeen Asset Management, proprietaria dell’Outlet, amministra 250 miliardi di euro, e può mangiarsi interi stati africani a colazione,

perciò all’outlet troverete anche i comici di sinistra, di Zelig, di Colorado caffè, pagati per farvi divertire

e non farvi pensare cosa è davvero oggi il Made in Italy,  la punta dell’iceberg del più insostenibile e deleterio assetto sociale possibile, con la miseria di moltissimi asservita al lusso di pochissimi;

ridete, e non ascoltate le prediche  dei vetero-sociologi

(abbiamo inventato la democrazia, l’industria, il socialismo, l’informatica per ridurci a un nuovo medioevo

dove la massa schiavizzata, succube della superstizione e adoratrice di feticci – moda, calcio, lotterie – permette alla nobiltà il potere assoluto e la dissipazione vistosa del bene pubblico);

venite al’outlet, bambini, poveri e numerosi,

qui potete pagare una polo o un jeans costati 5€ in produzione fino a 20, 50, 100 volte tanto, ma pur sempre meno di quel che li paghereste nel quadrilatero della moda,

in via della Spiga, in via Montenapoleone, lì sarebbe meglio che voi non ci andaste, non sono posti per voi, sono posti per adulti,

voialtri, bambini, ascoltate il telefono azzurro, venite a giocare con i vestitini e le bambole, e portate pure qui, all’outlet, il vostro piccolo contributo al Made in Italy,

al nobile scopo di arricchire sempre più un’esigua minoranza di grandi parassiti che hanno finanziamenti record dalle banche e impiegano i loro utili record per costruire alberghi a Dubai

mentre in Italia i pensionati si suicidano a causa dell’inps, gli artigiani a causa di equitalia, i disoccupati, i precari, gli esodati a causa dell’euro,

il vero problema, bambini, è che l’eleganza e lo stile che aveva vostra nonna, che in quelle cascine dove oggi venite a fare shopping  era la matrona del focolare, voi ve la sognate;

e la grinta e il fascino che avevano vostra madre e vostro padre, quando negli anni settanta interpretavano davvero lo spirito ribelle oggi ricotto a pura immagine di moda, voi ve lo sognate;

perciò, visto che vi piace tanto sognare, bambine e bambini, e nella realtà non valete niente, venite a sognare al Franciacorta Outlet:

se invece vi svegliate, quando la moda vi chiama da Dubai o da Rodengo Saiano, ditele di andare a quel paese,

e se poi osservate la location dell’affissione (affacciata sul cimitero, forse l’unico spazio urbano rimasto senza pubblicità) capirete che è meglio non alzare proprio quella cornetta,

perché quando la Moda vi telefona promettendovi sconti del 70%,

state pur certi che poi vi passa sua sorella, la Morte

che non fa sconti.

(tratto da: seminari di decontminazione adv;  esercizi DDD  denigrazione d’assalto difensivo; Sean Blazer: “La nuova pubblicità per bambini”,

post sponsored by Just Leopardi Baby, competitor di Just Cavalli nel jeans maculato,

 pubblicato su licenza Leopardi Moon Fashion Group by Calepio Press )