La società del contagio

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Che fare

Fino a quando non accetteremo di mettere in discussione ciò che il virus mette in discussione, non ne usciremo.

Ciò che il virus mette in discussione con la sua azione virale è proprio il cervello e il motore – cioè il sistema operativo – della  nostra organizzazione di vita: la circolazione contagiosa di merci, persone e messaggi.

Colpire, contagiare: per anni, per decenni è stato questo l’obiettivo di ogni messaggio, merce e impresa. Intere generazioni, le nuove generazioni, nate nell’era digitale, cresciute nei social, non hanno avuto altro input che questo: essere virali, diventare influencer, oppure non esistere, nemmeno come persona.

Finché resteremo sotto il dominio di questa dinamica e questa struttura mondiale basata sulla predisposizione personale e collettiva al contagio, saremo esposti a ogni tipo di virus informatico, ambientale e biologico.

La società  del contagio

Noi pensiamo di fare delle scelte sulla base di convinzioni personali, ideologiche o morali e che da queste scelte, dall’insieme di queste scelte, dipenda poi l’orientamento dei sistemi sociali, delle strutture produttive e delle reti commerciali. In realtà la catena gira in direzione esattamente contraria.

Nella società del contagio, come è logico che sia, la funzione dominante è la distribuzione. Quella che un tempo si chiamava GDO, grande distribuzione organizzata, è oggi una formidabile integrazione di reti e mezzi di comunicazione/connessione materiale e immateriale. Da un lato navi, aerei, ferrovie, strade, interporti, centri di stoccaggio, centri commerciali, outlet, distributori automatici; dall’altro reti commerciali, informatiche, telefoniche, televisive, server, satelliti, social network, piattaforme di e.commerce, applicazioni digitali.

Questa macchina mondiale della diffusione pervasiva supera ogni barriera, neutralizza ogni resistenza, annulla ogni identità, arriva ovunque, comunque, a chiunque. Veicola idee, immagini, prodotti, servizi, programmi, mode, medicine e malattie, indifferentemente. Diffonde il contagio, quale che sia, con un’efficacia automaticamente crescente.

La logistica della grande distribuzione è il vero sistema di controllo che determina il nostro sistema produttivo e di consumo, il nostro stile di vita e il suo senso.

Noi siamo il terminale della filiera. Noi non facciamo scelte, non abbiamo alcun controllo. Nell’inconscio, in fondo in fondo, lo sappiamo. Per questo ci sentiamo così impotenti.

Il software élite

Questa super-logistica mondiale è governata da semplici automatismi finanziari programmati per eseguire il software “concentrazione del profitto”.

D’altra parte, il software “condivisione del benessere”, insieme agli altri programmi similari, come le 17 mete dell’ONU, è limitato ad agire nella logistica sussidiaria del consenso, del governo delle coscienze, rispondendo così alla funzione di mitigare, smussare, puntellare e di fatto sostenere il programma/profitto della logistica globale integrata.

Il potere supremo, invisibile e senza nome delle élites finanziarie e tecnologiche ci sta portando senza esitazioni alla catastrofe ambientale, sociale e sanitaria, forse immaginando con perversa lungimiranza una tecno-ecologia terrestre per pochi eletti, e non saranno certo i sub-governi burocratici nazionali o gli organismi internazionali ad alta visibilità a riuscire nell’impresa, che pure è possibile, di fermare tutto questo.

Abbiamo ridotto la politica alla piccola amministrazione trasparente e i politici a brillanti icone di comunicazione: ed ora vorremmo grandi statisti capaci di grandi scelte. Ma non si può chiedere alle anatre di volare come aquile. Non serve prendersela con ministri, governatori e sindaci. Servono gli Olivetti, i Mattei, i Pasolini. Abbiamo bisogno di grandi maestri, grandi leader, non di amministratori condominiali.

Fermare la macchina

Liberarsi totalmente da élites oppressive, passive e irresponsabili: prima della rivoluzione francese era inimmaginabile. Se oggi pare di nuovo tale, significa che siamo nuovamente nell’antico regime. E dunque non ci resta che abbatterlo. Non ci sono altre possibilità. Da anni ogni genere di appello viene sostanzialmente ignorato. Il papa stesso lo ha ricordato nell’ultima enciclica. Eppure al momento ci si limita a voler fermare il virus, non volendo riconoscere la gravità del problema di cui il virus è solo la spia: il punto di non ritorno, la catastrofe irreversibile, globale, ambientale, sociale e sanitaria verso la quale la macchina mondiale ci sta conducendo.

Stiamo correndo verso lo strapiombo su una macchina senza pilota e senza freni. Possiamo bloccarne il motore interrompendo l’alimentazione della filiera logistica globale, e cioè chiudere Amazon, Mac Donald e Deliveroo e tutte le grandi compagnie.

E invece chiudiamo il piccolo negozio, il piccolo bar, isoliamo il produttore diretto, l’artigiano, l’esercente e gli consigliamo di andare a lavorare in un capannone automatico, come servo della macchina. Dovremmo ricostituire le reti di prossimità, e invece le smantelliamo.

Dovremmo imparare a vivere senza le grandi reti globali, e invece le facciamo diventare indispensabili. L’emergenza si autoalimenta e impedisce di attivare quei cambiamenti che permetterebbero di superarla.

Ci serve uno scenario diverso dall’emergenza continua. Quello che ci manca sono le visioni potenti, lucide. Le idee, i progetti, le alternative. Quello che ci serve in realtà è più libertà.

Non saranno i numeri o i pareri degli esperti, e nemmeno le garanzie bancarie, a darci un futuro, perché è questo che ci manca davvero, un futuro, un’idea di futuro.

(Sean Blazer in esclusiva per Calepio Press, testo raccolto da Sophie Rosti)

il telefono che uso da 10 anni

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NokiaLeo

Il telefono che uso da 10 anni (15.000 sms inviati, 35.000 ricevuti, oltre 500 nomi in agenda) era già superato quando l’ho comprato. Prima ho avuto un Motorola usato, di quelli grossi come un walkie-talkie, che non è durato tanto.

Non saprei dire di preciso quando ho cominciato a diventare un consumatore di retroguardia, una volta anch’io ero un giovane all’avanguardia in fatto di tecnologia, abbigliamento, mobilità, mode culturali…

Forse è successo ai tempi dell’università, andando fuori corso, sì, è stato allora; o forse c’entra anche il crollo del comunismo, e la conseguente modulazione dell’imprinting anti-capitalista in rifiuto dell’omologazione consumista.

Non si tratta di una forma di integralismo, ma di resistenza passiva: essere alla retroguardia non significa essere fuori dal proprio tempo, ma arrivare per ultimi, adottare l’usanza comune quando è generalizzata, quasi per deriva, una resa al prodotto inevitabile, mentre chi è all’avanguardia è già due gradini oltre.

Il ciclo dei consumi, come quello della moda, prevede una nicchia di innovatori, cui segue la massa, e infine la nicchia della retroguardia.

Ora che quasi tutti hanno lo smartphone o l’iphone, anche noi della vecchia guardia, uno ad uno, ci arrenderemo all’usanza diffusa, e verremo normalizzati.

A un certo punto sei obbligato, e devi cedere: da mesi la Vodafone mi manda messaggi intimidatori: sappiamo tutto, solo per te il nuovo Galaxy gratis, cosa aspetti! Che domande! Aspettavo il decennale!

Nel frattempo, in condizione di handicap tecnologico, noi retrogradi in questi 10 anni abbiamo potuto osservare come è cambiata la vita dei nostri simili, e arrivare consapevoli, preparati al cambio  di vita: perchè è indubbio che l’innovazione tecnologica ti cambia la vita, e non sempre in meglio, come tutti prima o poi abbiamo potuto sperimentare.

Il mezzo è il messaggio, anche in questo caso: in un mondo dove tutti sono sempre reperibili e responsive, messaggi non in linea con il mezzo, come “please rispondimi su sms” “sarò off line fino a domani mattina” “mandami la foto via mail” “vediamoci martedì senza ulteriore avviso” vengono sempre ignorati dall’utente umano che ormai è tutt’uno con il mezzo.

Il mito delle reperibilità, iniziato con il cercapersone, oggi è una realtà totalizzante.

Nell’arco di questo decennio siamo cambiati. Poter mandare parole sempre a chiunque in ogni luogo ci ha fatto perdere il valore della parola data, e precipitare nello stress degli  appuntamenti elastici (“chiamami quando parti, chiamami quando arrivi”).

Eravamo esseri umani, con 5 sensi e 1 anima, e siamo diventati periferiche di un’intelligenza artificiale eterea, fatta di programmi, server e memorie che stanno tra le nuvole, proprio come la forma suprema d’intelligenza che programmiamo da millenni: Dio.

Eppure, nonostante sia (o appaia) sempre più accelerato, alla fine il nostro tempo ha sempre la stessa unità di misura e di senso: il decennio

Noi viviamo le nostre vite misurandoci sul decennio.

Pensiamo a noi stessi, a “come eravamo” a 20 anni, a 30 anni, a 40 anni. Gli stessi oggetti d’uso quotidiani, prima del consumismo, duravano un decenni, e accompagnandoci segnavano il nostro tempo.

Non solo la storia personale, ma anche la storia collettiva, la grande storia, è scritta sui decenni: basta dire gli anni 20, gli anni 30, gli anni 40 ed ecco le avanguardie, i totalitarismi, la guerra mondiale, poi gli anni, 50, 60, 70, 80, il boom economico, la dolce vita, gli anni di piombo e il made in Italy.

Il fatto è questo: 10 anni sono un pezzo di storia, e oggi né i nostri oggetti-feticcio, né le tendenze culturali arrivano a durare un decennio, a maturare.

Il decennio è un tempo-prova, un “periodo”, un principio cognitivo.

Tutti ricordiamo che a un certo punto nei libri di storia, al liceo, c’era un capitolo della storia d’Italia intitolato “il decennio preparatorio”, che racconta come si siano gettate le basi dell’Unità d’Italia tra le sommosse del 48 e la spedizione dei Mille del 1861.

Quel primo tratto di storia d’Italia, quel lungo decennio di anteprima all’impresa dei Mille, costituisce una metafora perfetta, nel suo sviluppo non lineare, ma circolare, di quelle  “micro-storie d’italia” che saranno le imprese del made in Italy: un’idea/sentimento d’innesco, il contagio/condivisione, quindi la fase difficile, l’epoca in cui l’idea deve diventare grande,  superare l’infanzia, fare presa nella realtà, resistere alla tipica dinamica di caduta dell’entusiasmo in corrispondenza della costruzione del consenso…

Se supera il decennio preparatorio, un’idea, un prodotto, un’azienda diventa adulta.

Ma la mortalità infantile del made in italy è sempre stata altissima. E anche nelle nostre vite private, spesso viviamo progetti di vita che non arrivano al decennio, in amore, nel lavoro, e poi ricominciamo. Cambiamo telefono, e cominciamo un nuovo gioco. Siamo eterni bambini, noi italiani.

Ma ci dimentichiamo della mission più importante dell’essere bambini: dire la verità, avere l’incoscienza di gridare che “il re è nudo”.

Photo: il mio telefono. Infilato nel Nokia: “faccine” by J.Gandossi, che ora uso come agenda-memo, col n. di tel. sul retro, dopo aver appurato che più della metà dei 500 n. in agenda… non so più chi siano!)  

 

 

l’identità divisa del bergamaschione

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Filago Bergamo settembre 2012

 

(riceviamo e pubblichiamo da Sean Blazer, il noto critico di moda)

Di passaggio a Bergamo, dove ho numerosi amici e non, ho incontrato la mia giovane amica fashion blogger Consu che sui due piedi mi ha chiesto: chi è il maschio berghem-vip che fa tendenza fashion?

Sui due piedi, le ho detto, me ne vengono in mente due, che esprimono le due diverse tendenze del maschio vip glocal: il sindaco Gori e il magnate Pesenti, diciamo Giorgio e Carlo per semplicità;

Giorgio è il maschio relax, camicia fluida, look complessivo sottotono, quasi sciallo, mai sciatto, sempre fresco, mattutino, anche alle cinque de la tarde, e dunque accogliente, invitante, ammorbidente, avvolgente, con gesti quasi affettuosi: ma attenzione agli occhi “ice smiling cobra”, come lo chiamano in America.

Sotto la pashmina, rischi di trovare un coltello affilato!

Carlo all’opposto è il maschio alfa dichiarato, regimental, savile row, l’abito una corazza, una divisa, la sartoria un’arte militare, rigido, statuario, il look serve a tenere a distanza, non ad avvicinare.

Ogni cosa dal colletto al calzino è perfetta e intoccabile, esprime potere e freddezza: e naturalmente ognuno, e ognuna, ha libertà d’immaginare sotto la fredda corazza un cuore caldo che batte, e fors’anche un uomo tenero mimetizzato nel rigido contegno.

Giorgio e Carlo certo mi perdoneranno, quello di cui parlo è soltanto ciò che la loro immagine riflette, l’archetipo, il tipo che rappresentano, effettivamente si tratta di abiti da lavoro, funzionali al ruolo, Giorgio deve attrarre, Carlo deve respingere, hanno effetti studiatamente diversi, con le loro “mimetiche”, e diversamente coatti.

Ma il vero nuovo maschio, superamento sia del maschio debole che del maschio antico, dovrebbe essere in grado di indossare insieme, con naturalezza, il rigido e il morbido, il casual e il classic.

La sua immagine/identità un tenuta composita e assemblata, ma omogenea e singolare, non “divisa”: il nuovo maschio è l’uomo qualunque, che qualunque cosa indossi è sé stesso.

Berghem-Vip così evoluti al momento, sui due piedi, non mi vengono in mente, abbi pazienza Consu.

contropassato prossimo

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Contro

Ok ragazzi, gettiamo la maschera, chi vi scrive è il vecio rimba della redazione e quello che vi dirò vi suonerà pessimo. Voi magari vi sentite delle mezze merdine perchè la famiglia vi mantiene, vi fa l’elemosina, vi compatisce: ma la verità è che i vostri padri, le madri, con i nonni, le nonne, gli zii e le zie vi stanno fottendo alla grande (e sfottendo) da almeno vent’anni, da quando siete venuti al mondo.

Vi racconto com’è andata veramente. Quando loro avevano la vostra età, c’era il boom economico, cioè il contrario esatto della crisi: vuol dire che qualsiasi cazzone (q.ca), aprendo una qualsiasi attività, in pochi anni faceva una palata di soldi; vuol dire che q.ca volesse fare il libero professionista, andava all’università gratis, si laureava col sei politico senza aprire un libro, avviava lo studio coi soldi dello stato e in pochi anni faceva una palata di soldi.

Vuol dire che q.ca privo di iniziativa trovava 3000 posti di lavoro in fabbrica, in banca, in ferrovia, in posta, in comune, in regione, con 3000 stipendi l’anno e mesate di malattia, permessi, vacanze premio e premi di produzione più la casa nuova in affitto quasi gratis e la casa di vacanze al mare o in montagna pagate dall’azienda o dall’ente statale.

Vuol dire che q.ca universitario il giorno dopo la laurea era di ruolo nelle scuole, negli ospedali, nella pubblica amministrazione, con tutti gli scatti, avanzamenti, assegni familiari, sussidi, promozioni automatiche.

Vuol dire che a 35 anni, volendo, q.ca andava già in pensione, le famose pensioni baby, dopo aver lavorato in pratica 5 anni (+ 5 anni di università/assemblea + 5 anni di maternità o malattia professionale o ferie d’aggiornamento).

Voi invece a 35 anni state ancora facendo stage gratis, e se cercate di fare un’attività da morti di fame in proprio siete assaliti dall’asl o dall’inps o da tutte e due che a prescindere vi chiedono subito 3 o 5 o 7mila euro l’anno (per pagare le pensioni a genitori, nonni, zie, invalidi, cioè a tutta la famiglia, che poi vi fa l’elemosina)

Non parliamo della classe creativa, della bufala grassa di nome made in italy, moda e design, advertising e mass media: qui vi stanno stra-fottendo! La verità è che voi avete studiato, fatto esperienza, gavetta, e siete davvero dei creativi, ma siete dannati a essere dei poveri falliti, mentre loro, i q.ca 68ottini sono ingrassati sentendosi dei geni.

Naturalmente questo quadro è ipebolico e generalizzante: accanto ai q.ca in ogni settore abbiamo tantissimi b.ti – bravi tipi – che nelle scuole, aziende o in proprio hanno dato tanto e tenuto in piedi il paese, mentre i q.ca ingrassavano e dissipavano.

Ma la grande verità è che un’intera generazione di q.ca ha fatto un po’ di casino per alcuni anni, dal 68 al 78, facendo collettivi, assemblee, occupazioni, espropri proletari, manifestazioni, e poi anche tirando le bombe, in ogni senso: viene da lì il boom economico, dal cambiare tutto, con le buone o le cattive.

E a un certo punto le aziende, o lo stato hanno cominciato a comprare, cooptare, finanziare questi q.ca perchè creassero le loro aziende creative e ad assumere questi q.ca nei giornali e nelle televisioni e nelle case editrici o in qualche ente inutile dedito alla cultura o al turismo.

Quando siete nati voi, negli anni ottanta e novanta, crollato il comunismo, è finita la dinamica sociale, e i q.ca della boom generation si sono compattati, omogeneizzati, destra e sinistra si sono unite per fottere insieme le nuove generazioni.

Vi accusano di non avere identità. Vi chiamano x e y generation. Ricevete solo critiche, non vi fanno fare niente, non mollano niente, non cambia niente: e questa è l’origine e la statica della crisi.

Si sono presi il migliore dei mondi possibili, e se lo sono mangiato. Adesso vi lasciano un mondo invivibile. E vi accusano di non essere capaci di stare al mondo.

Oggi gli ex 68ottini non hanno alcuna intenzione di farsi da parte – come hanno fatto i loro veci! – ma avvinghiati alla cassa e alle poltrone hanno in testa una sola cosa: tenere da parte i soldi per trapianti e staminali, per ringiovanire! Cioè per rubarvi ruolo, posto e futuro.

Sean Blazer

cover story per CTRL magazine n.53; da stasera in distribuzione, versione on line su >

http://www.ctrlmagazine.it/2014/ctrl-magazine-53/

magenta destra ciano sinistra

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puma-players-tricks

per capire il senso della nuova moda lanciata da Puma al Mondiale con testimonial Balotelli e altri, scarpe di due colori diversi, sinistra ciano, destra magenta,

abbiamo chiesto un parere a Sean Blazer, il grande antropologo esperto di moda, il quale ha detto: basta chiedere a un immigrato extracomunitario, marocchino o algerino, che vi racconterà quanto segue:

in origine chiaramente mettere due scarpe diverse era una soluzione creativa da poveri, avendo magari una scarpa bucata e l’altra no, ci si arrangiava così, scambiandole, anche i nostri nonni lo facevano,

poi, sarà stato 10 anni fa, in Marocco e Algeria è scoppiata la moda delle scarpe bicolori, nike nuove molto costose e introvabili,  facendo il verso ai poveri per significare di essere talmente ricchi da avere non un paio, ma addirittura due di nike nuove;

subito dopo è diventata usanza scambiarsi le scarpe con un amico che avesse lo stesso numero, così da far intendere di averne due paia;

in seguito sono arrivate le nike contraffatte, vendute a ¼ del prezzo ufficiale, già vendute in versione bicolore, e a quel punto la moda bicolore è finita, perché ormai era una cosa da poveri;

a questo punto tutta la storia era pronta per diventare una moda ufficiale, e la Puma ha lanciato la linea bicolore, e tutti i bambini ricchi ora metteranno le Puma bicolore,

questo ti fa capire come funzionano le mode, nascono creative per necessità dalla miseria,  poi diventano esibizione di lusso per insultare i poveri, e infine prodotto ufficiale per tutto il mondo, indossato dai campioni

e comprato in tutto il mondo, senza alcun senso, o forse sempre con lo stesso senso di ogni moda: avere addosso qualcosa che in origine aveva un senso, una storia, senza nemmeno saperlo.

a volte ritornano

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N70

La notizia circola da tre mesi, ad alcuni pare comica (a volte ritornano) e ad altri tragica (come si uccide l’informazione)

a Bergamo aprirà una nuova testata web di nome Bergamo Post, gravemente finanziata da Percassi Group (“il nostro successo è frutto dell’osservazione della realtà, unito al desiderio e all’ambizione di fare qualcosa di nuovo e di migliore”) e seriamente diretta da Ettore Ongis («Occorre il tempo per approfondire, se non si vuole gettare il cervello alle ortiche. Internet, per sua natura, non ha tempo di rielaborare le informazioni») ex direttore de L’Eco, già presidente del gruppo Imiberg, scuole cattoliche.

Nel 2009, l’allora direttore de L’Eco di Bergamo, così si confessava agli studenti del Mascheroni: «Non avevo le idee chiare su che cosa fare dopo l’università. Per fortuna è la vita che ha scelto per me. La mia prima esperienza da giornalista è  stata nel mondo della Rai. Alcuni dirigenti Rai vollero selezionare e reclutare dei giovani e venni assunto a Radiodue. Poco dopo entrai nella redazione de L’Eco di Bergamo e per così dire mi sistemai».

«Ho sempre pensato che non sia giusto imporre ai ragazzi la lettura dei giornali, nemmeno a scuola. Fino a venticinque anni la Gazzetta dello  Sport è il giornale più adeguato».

Un mito.

Sull’incontro Percassi-Ongis un amico, teorico della davantologia comica, approccio opposto alla dietrologia tragica (le cose sono lì davanti, da vedere, nella superficie delle cose la loro spiegazione)  ha detto: “ma quali lobby e finanza bianca! Piuttosto penso a  quella barzelletta milanese dove c’è un tipo un po’ ciula che chiama un suo amico un po’ ciula e gli chiede: non conosceresti qualcuno…si ma lo vuoi un po’ ciula ?”

Chi vede il lato comico,  pensa che ci sia del comico nel fare un giornale web con un direttore del cetaceo-cartaceo, e anche nell’avere la redazione e il budget per fare approfondimento sul web, e impiegarci tre mesi a partire.

Chi vede il tragico, invece, ha solo da scegliere:  partirei da un Gad Lerner del 2012, su MicroMega: «La confessione dell’imprenditore Pierluca Locatelli che ha pagato un milione e duecentomila euro la licenza per una discarica d’amianto, colpisce soprattutto per la destinazione della parte più cospicua di questa somma: la ristrutturazione “gratuita” della scuola paritaria Imiberg, 700 studenti e 100 docenti, fiore all’occhiello della “libertà d’insegnamento” lombarda.

Nel dicembre scorso Formigoni aveva inaugurato il suo centro sportivo lodandone la fisionomia esemplare, fiancheggiato dal giornalista ciellino Ettore Ongis che sovrintende alla sua gestione da quando il vescovo Francesco Beschi l’ha allontanato dalla direzione dell’Eco di Bergamo per liberare il giornale della curia dai vincoli eccessivi del gruppo di potere ciellino».

Per capire come un soggetto “troppo vincolato a cl per l’eco” possa ora vincolarsi al consumismo turbo capitalista del bell’antonio innominato, una pagina tratta da Sean Blazer, “Lo stile italiano”:

“l’informazione si uccide mettendo, o riportando, ai vertici dei media fidati yesmen molto ben pagati per garantire il massimo torpore d’opinione,

non la redditività editoriale, non la sostenibilità culturale, non la costruzione o la diffusione di una consapevolezza critica, ma proprio il suo esatto contrario, il massimo torpore d’opinione pubblica,

anche a costo di grandi perdite finanziarie, che saranno sostenute da imprese  impure, cioè non da editori puri, ma da super-imprenditori con interessi in settori diversi, che rappresentano il potere secolare, il braccio armato degli oligopoli bancari (quando non ne sono ostaggi)

nel mondo turbo capitalista l’informazione è controllata non attraverso la repressione ma con il finanziamento di testate opprimenti,

attraverso il controllo della pubblicità, in regime di monopolio od oligopolio, quei due o tre gruppi di potere associati escluderanno sia i professionisti che le testate indipendenti, o quelle comunque capaci di sostenibilità editoriale (cioè di stare in piedi per la qualità del prodotto realizzato)  e perciò doppiamente pericolose,

e d’altra parte invece si garantiranno introiti finanziamenti alle testate del gruppo, il che significa  che si darà il posto sicuro, prestigio, denaro e mille altri privilegi a un numero ristretto di direttori, capoccia, caporedattori e kapò,

non importa che sappiano scrivere, pensare, capire, comunicare, importante è che sappiano ammansire, riunire, condurre la redazione e i lettori come un gregge, come un curato fa con i suoi parrocchiani,

e al contempo si affameranno coloro che realmente lavorano, i giornalisti, i giovani freschi di laurea ed entusiasmo, o anche professionisti che da una vita fanno quel lavoro, tutti ridotti a vita a collaboratori esterni pagati una miseria, cioè il massimo della dipendenza, e il minimo della libertà di scrittura, che dovrebbe essere l’unico vero valore della professione”

Infine, per coloro, come me, per i quali  questa nuova notizia-onda, la  new ongis, tecnicamente una risacca,  è peggio che tragica, e cioè funebre (come un requiem all’informazione, alla professione, e allo spirito d’impresa editoriale)

propongo in spirito a volte ritornano  il post L’eco di un suicidio by Leone, dedicato a tutti i precari- aspiranti giornalisti, tratto dal blog estinto bamboostudio, pubblicato all’indomani del cambio di vertice alla direzione de L’Eco:

“Hai meno di trent’anni, sei cresciuto nella favola del Made in Italy, seguendo questa favola hai studiato Scienze della Comunicazione, ti sei laureato, hai cominciato a fare piccoli lavori nel mondo della comunicazione, dapprima gratis (per fare esperienza, curriculum) poi pagato quasi niente, senza alcun contratto, ma sei bravo, ci credi, tieni duro, il tuo lavoro consiste nell’incensare eventi mondani, prodotti di lusso, persone di successo, tu non hai in tasca nemmeno i soldi per comprare le sigarette, non importa, smetti di fumare, sei pronto a fare sacrifici.

Poi ti chiedono di aprire la partita iva, d’accordo, e ti chiedono di diventare commerciale, di vendere pubblicità, d’accordo, puoi fare anche questo.

Con la partita iva chiedi un mutuo per andare a vivere in un monolocale con la tua fidanzata (che è nelle tue stesse condizioni); alla fine dell’anno hai fatturato 10.000 euro, fai parte della generazione 1000 euro, precaria, la “parte peggiore” del paese secondo un ministro, però tu sei in regola, formalmente anzi sei un imprenditore.

Poi vai dal commercialista, dai tuoi 10.000 euro togli l’iva, le tasse, l’INPS, il commercialista, ti restano 3000 netti, in un anno, e hai un mutuo da 6000, cominci ad andare sotto, eppure ti dai da fare tutto il giorno, non hai vizi, non esci mai a cena, non getti un euro in gratta e vinci, non ti droghi, non vai a donne, non hai la macchina.

Prendi la bici, e vai umilmente a chiedere aiuto ai tuoi, pensionati, vai da tua sorella che ha sposato un dentista, cerchi di stare a galla, ma l’anno dopo non ce la fai, non hai i soldi per l’INPS, ti sembra un paradosso essere obbligato a versamenti previdenziali quando non hai da mangiare oggi.

Non hai i soldi, non paghi, allora Equitalia comincia a perseguitarti. Poi non riesci a pagare la rata del mutuo, e la Banca andrà a rivalersi sui tuoi.

La vergogna è troppa, ti rendi conto di aver sbagliato tutto, aveva ragione tua nonna: impara un mestiere, idraulico, panettiere!

Non hai più nemmeno la forza di guardare in faccia la tua ragazza, le dici che hai bisogno di restare solo, la molli, molli anche il monolocale, tiri avanti altri tre mesi fregandotene delle ingiunzioni di pagamento, intorno a te sembrano tutti ricchi e felici, belle ragazze e belle automobili, showroom e vernissage, tu non esisti, i tuoi problemi non interessano a nessuno, non sono contenuti interessanti da condividere su facebook, e così un bel giorno la fai finita.

Il giornale della tua città, cattolico, non racconterà questa vicenda (“Il nostro giornale non pubblica le notizie dei suicidi” si vanta il direttore Ettore Ongis) i suicidi non meritano una parola, non importa se il suicidio è la prima causa di morte giovanile dopo gli incidenti stradali, non importa se i giovani suicidi sono aumentati del 60% in tre anni, non importa se la tua città ha il record di giovani suicidi in Italia.

A nessuno interessa il tuo fallimento, ti negano perfino il funerale in chiesa (eppure da bambino facevi il chierichetto), nessuno ha una parola per te. Eri il migliore della tua generazione, volevi fare il giornalista. Chi ti ricorderà? Nessuno, forse Equitalia. Qualcuno ti renderà giustizia? Qualcuno spiegherà che il vero fallito non sei tu, ma il modello sociale in cui viviamo?

“Ogni tentativo di capire, si inceppa a motivo dei sentimenti che affiorano nel nostro cuore: sentimenti di pietà, di tenerezza e di amicizia, di delusione e di sconfitta, di tristezza e di speranza”. Sono belle parole queste, il Vescovo in persona le ha pronunciate: ma non sono per te, sono per un prete colpevole di molestie sessuali che, smascherato dalle Iene, per un genere totalmente diverso di fallimento e vergogna, ha fatto infine la tua stessa scelta.

“Il suicidio di don Recanati non è un fatto privato, è un grido di dolore e di protesta che sale fino al cielo”. Lo scrive Ettore Ongis, il direttore del giornale della tua città, lo stesso uomo che da dieci anni ignora e quindi denigra migliaia di suicidi come il tuo. È il trionfo dell’ipocrisia di regime. E tu muori due volte. E quelli come te continuano a fare la scelta di Catone.

Sono passati sei mesi, e la notizia del giorno è questa: a l’Eco di Bergamo hanno cambiato direttore.”

> sono passati tre anni, e il direttore scaricato da l’eco ritorna in carica col  post

frau heineken dolens in Italy

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heineken-champions-league-arrival-large-7

nello spot dell’heineken, trasmesso prima, durante e dopo le partite di calcio in tv, vediamo un giovane uomo che arriva di corsa alla stadio last minute, salta le transenne, entra sparato, si siede vicino alla bella donna che gli tiene il posto, e insieme si sbevazzano una heineken:

nella realtà oggi in italia bere alcolici allo stadio è ultra-vietato,

perfino tutti i pubblici esercizi, gli alimentari e i supermercati nel raggio di tot km dallo stadio non possono vendere alcolici il giorno della partita,

e se anche solo osi immaginare di entrare allo stadio con una bevanda alcolica (con una bottiglietta di vetro addirittura!) ti blindano seduta stante, ti portano in questura, ti affibbiano un provvedimento di nome “DASPO”, acronimo di Divieto Accesso Spettacoli Sportivi (versione urban contemporary delll’antico ostracismo ateniese) per cui allo stadio non ci vai più per anni,

e allora, cosa mi sta dicendo la heineken, e cosa mi sta dicendo la tv, e lo stato, quale di questi soggetti è più ipocrita, quale più autorevole, a chi devo obbedire, ai divieti di legge nazionale o agli imperativi di una multinazionale?

(… il messaggio vero è uno solo, e piuttosto deprimente: non andare allo stadio, stai a casa, guarda le partite in tv, telecomando in una mano, birra nell’altra. 

E immagina di essere allo stadio, in buona compagnia, con una buona birra.

Vietano cose che poi ci chiedono di immaginare, per venderci feticci.  

Il calcio, come ogni spettacolo di regime, in realtà teme il proprio stesso pubblico.

tratto da Sean Blazer, “Lo stile italiano”, cap.VII  “La società dello spettacolo nella sua fase ultima, l’ipocrisia conclamata”, Calepio Press 2015) 

invisible show

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s

> invisible show  è un concept no logo no time no space,

un ossimoro perfetto, un contro-senso in termini, invisible e show,

> invisible la location, un mistery locus, address last minute, venerdi 24 gennaio h21.30 all’oratorio settecentesco di san Lupo, (“oratorio” in senso pre salesiano, no social, privè, forma mixta archi-musicale per la preghiera recitata-cantata) con introitus ex via San Tomaso, lungo la

> invisible directory geo-temporale via Brigata Lupi-Palazzo Lupi, nel back stage di S.Alex de la Crux, a Bergamo,

> invisible la facciata neoclassica, quattro semicolonne d’ordine gigante, trabeazione altissima,

> invisible l’epigrafe sul fregio DIVO LUPI BERGOMATUM DUCI,

> invisible il genius loci: il “divo Lupo” , in seguito “san Lupo”, duca longobardo di Bergamo, epoca Carlo Magno, figura leggendaria, confusa con gli omonimi e coevi  San Lupo di Troyes, Verona, Lione, ex antiqua casata franco-longobarda (Lupo, Lupi, de Lupis, Lopez) con grandiosi palazzi a Ragusa, Soragna, Padova,  Roma

e il citato e prospiciente Palazzo Lupi di Bergamo (project 1560 by archistar Pietro Isabello, salone d’onore fantastique, oggi invisible e in svendita, già sede del comando della Brigata Lupi, di stanza alla circonvicina e invisible Montelungo)

> invisible il retroscena: San Lupo era il padre di Santa Grata, la fan girl di S.Alex Martire decapitato per non aver abiurato la fede cristiana: per lui Santa Grata fece costruire non 1 ma 3 chiese: de la Crux, in Columna, ex Cathedra (la grandiosa Cattedrale invisible di Bergamo, demolita per costruire le mura venete)

> show absolut opening at h22.00: lo space inside un teatro verticale su 6 livelli connessi (cripta con vista su atrium-tabernaculum sovra-esposto vs due piani di cubicoli finestrati + due piani di loggette colonnate),

esercitazione mystic luxury d’illusionismo baroque-privè pensato per subvisioni e supervisioni upside-down, accessi-scale come organi viscerali, una elicoidale, l’altra a rampe giustapposte,

tutto in scala ridotta 2:3 ergo adatto a persone piccole e magre e dunque tutto un toccarsi, un chinarsi, uno sfregarsi.

> show incredible at h22.30 pump up the music, un grande show, una sorpresa, Malaikat Dan Singa (angeli e leoni) un trio blues-rock etno-primitivista americano in trip indonesiano scatenato su testo ultrà-romantico old british by William Blake (le tigri dell’ira sono più sagge dei cavalli dell’educazione)

> show strong effect at h23.30: moto ondoso dionisiaco-pelvico from rocker leader to massa compatta di spectatores in trance-compulsion elettronica-voodo, quasi a “stuprare” la delicatessen di uno spazio intimo progettato 300 anni prima per la musica sacra-devozionale,

> show uncommon sense in exitu at 24.00, experience in apparence dissacrance for simplex b.got, non così per l’homo d’ecclesia teologato che apprezza la correttezza filologica del fare musica demoniaca proprio in San Lupo,

cioè colui che protegge dalla possessione demoniaca, dalla paralisi e dall’epilessia secondo il martirologio official dei santi e dei beati della catholic church. Mica scemi in Curia.

(recensione nozionistica by Sean Blazer evento invisible show “malaikat dan singa” tenutosi 24-1-2014 in oratorio San Lupo Bergamo – http://invisibleshow.tumblr.com/)  

5 sensi e 1 anima

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Burroughs with gun

la configurazione naturale dell’essere umano, la dotazione di cinque sensi e un’anima,

oggi è ormai compromessa in favore dell’ipertrofia di due sensi, vista e udito,

ciò che porta inevitabilmente alla disattivazione dell’anima, ridotta a ricettore audio-video,

oggi non parliamo più di uomini, ma di periferiche umane, prive di memorie, di elaboratore, di processore, questa è la realtà portata dalla rivoluzione tecnologica.

Oggi vediamo oggi sappiamo che si trattava di menzogne, parliamo del progresso tecnico, della democrazia, dei miracoli della medicina e delle telecomunicazioni,

oggi sperimentiamo che tutte queste cosiddette conquiste altro non sono che strumenti di ulteriori sopraffazioni dell’uomo sull’uomo, cioè: dell’uomo bianco turbo-capitalista sul resto dell’umanità,

– l’uomo bianco dominatore nasce dal commercialista,

dopo la laurea la casa il cane la seconda casa come bene di lusso supremo si programma un figlio,

questo figlio nasce in seguito a dei test con utlizzo di tecnologia medica, appena nato è sottoposto a riprogrammazione chimica,

all’ingresso in età scolare è già stato trattato ad antidepressivi ed eccitanti ed è titolare di almeno quattro polizze assicurative,

entro la pubertà riceve i sacramenti della telefonia mobile e del pago bancomat –

l’uomo schiavo non bianco nasce dal coito sessuale,

la sua prima speranza di vita è quella di sopravvivere ai cacciatori d’organi,  il sogno ultimo è quello di ricevere un giorno dalla DHL un paio di Nike spedite direttamente dal paradiso da un fratello spacciatore o una sorella prostituta

è questa realtà –

dal basso, dalla strada viene la vita; dall’alto, dai palazzi di vetro viene la morte –

dagli strati bassi, dai poveri viene il gesto, la vita, l’innovazione, la materia prima della società della comunicazione;

gli espedienti, i segni, i modi,  i rimedi, le trovate, gli aggeggi, i suoni, le vesti, le musiche, tutto quel che i poveri inventano e creano diventa prodotto e merce e feticcio e packaging e moda attraverso l’industria occidentale e attraverso la mediazione degli artisti della classe creatrice-ricreatrice

c’è una precisa responsabilità di un’intera generazione di viaggiatori in cerca di sé stessi in realtà importatori di look e altri consumi ingranaggi fondamentali dell’economia degli stili di vita vero motore del mega-consumismo

ogni merce occidentale altro non è che sangue cavato ai poveri

col sangue dei poveri e la merda dei ricchi si inventano nuovi stili di vita, linee di prodotto e strategie di comunicazione

questo in ogni settore  dell’economia

e questo è il migliore dei mondi possibili, secondo loro

(Manifesto Turbo-Comunista by Sean Blazer, art.6 e 7, imago: il poeta Burroughs)

manifesto turbo comunista art.1

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tcFR

Manifesto TurboComunista

con contributi ExtraDemocratici e IperFascisti

1 – Uno spettro si aggira per l’Europa

è lo spettro dell’ipercapitalismo –

è la voragine del debito della finanza del petrolio –

è il panico delle catastrofi finanziarie ed ecologiche e sociali che ci travolgeranno –

la catastrofe psichica è già arrivata ––

viviamo nella società dello spettacolo, l’ultimo spettacolo –

stiamo entrando nella fase di estinzione dell’homo sapiens –

il Made in Italy era il canto del cigno –

già oggi i farmaci il sesso le droghe e lo smaltimento rifiuti unici settori sani dell’economia –

la pulizia del design non arresta la polvere –

non sappiamo che fare, compagni –

siamo in trappola, camerati –

non c’è speranza, fratelli –

anche i sensi di colpa si possono pagare a rate –

le rate sono inesorabili –

il mondo è intorno a te –

la vita ti sfugge in diagonale –

che fare?

(testo by Sean Blazer alias Leone Belotti alias CalepioPress

efffigie Int.Turbo Com by Athos Mazzoleni,

articoli del Manifesto TurboCom già pubblicati: 2-3-10-17-18

https://calepiopress.it/2013/01/25/preview-manifesto-turbo-comunista/

https://calepiopress.it/2013/03/12/contributo-iper-fascista-al-manifesto-turbo-comunista/

https://calepiopress.it/2013/03/01/la-proprieta-intellettuale-e-un-furto/

https://calepiopress.it/2013/02/15/e-ora-di-occupare-gli-spazi-pubblicitari/