il telefono che uso da 10 anni

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NokiaLeo

Il telefono che uso da 10 anni (15.000 sms inviati, 35.000 ricevuti, oltre 500 nomi in agenda) era già superato quando l’ho comprato. Prima ho avuto un Motorola usato, di quelli grossi come un walkie-talkie, che non è durato tanto.

Non saprei dire di preciso quando ho cominciato a diventare un consumatore di retroguardia, una volta anch’io ero un giovane all’avanguardia in fatto di tecnologia, abbigliamento, mobilità, mode culturali…

Forse è successo ai tempi dell’università, andando fuori corso, sì, è stato allora; o forse c’entra anche il crollo del comunismo, e la conseguente modulazione dell’imprinting anti-capitalista in rifiuto dell’omologazione consumista.

Non si tratta di una forma di integralismo, ma di resistenza passiva: essere alla retroguardia non significa essere fuori dal proprio tempo, ma arrivare per ultimi, adottare l’usanza comune quando è generalizzata, quasi per deriva, una resa al prodotto inevitabile, mentre chi è all’avanguardia è già due gradini oltre.

Il ciclo dei consumi, come quello della moda, prevede una nicchia di innovatori, cui segue la massa, e infine la nicchia della retroguardia.

Ora che quasi tutti hanno lo smartphone o l’iphone, anche noi della vecchia guardia, uno ad uno, ci arrenderemo all’usanza diffusa, e verremo normalizzati.

A un certo punto sei obbligato, e devi cedere: da mesi la Vodafone mi manda messaggi intimidatori: sappiamo tutto, solo per te il nuovo Galaxy gratis, cosa aspetti! Che domande! Aspettavo il decennale!

Nel frattempo, in condizione di handicap tecnologico, noi retrogradi in questi 10 anni abbiamo potuto osservare come è cambiata la vita dei nostri simili, e arrivare consapevoli, preparati al cambio  di vita: perchè è indubbio che l’innovazione tecnologica ti cambia la vita, e non sempre in meglio, come tutti prima o poi abbiamo potuto sperimentare.

Il mezzo è il messaggio, anche in questo caso: in un mondo dove tutti sono sempre reperibili e responsive, messaggi non in linea con il mezzo, come “please rispondimi su sms” “sarò off line fino a domani mattina” “mandami la foto via mail” “vediamoci martedì senza ulteriore avviso” vengono sempre ignorati dall’utente umano che ormai è tutt’uno con il mezzo.

Il mito delle reperibilità, iniziato con il cercapersone, oggi è una realtà totalizzante.

Nell’arco di questo decennio siamo cambiati. Poter mandare parole sempre a chiunque in ogni luogo ci ha fatto perdere il valore della parola data, e precipitare nello stress degli  appuntamenti elastici (“chiamami quando parti, chiamami quando arrivi”).

Eravamo esseri umani, con 5 sensi e 1 anima, e siamo diventati periferiche di un’intelligenza artificiale eterea, fatta di programmi, server e memorie che stanno tra le nuvole, proprio come la forma suprema d’intelligenza che programmiamo da millenni: Dio.

Eppure, nonostante sia (o appaia) sempre più accelerato, alla fine il nostro tempo ha sempre la stessa unità di misura e di senso: il decennio

Noi viviamo le nostre vite misurandoci sul decennio.

Pensiamo a noi stessi, a “come eravamo” a 20 anni, a 30 anni, a 40 anni. Gli stessi oggetti d’uso quotidiani, prima del consumismo, duravano un decenni, e accompagnandoci segnavano il nostro tempo.

Non solo la storia personale, ma anche la storia collettiva, la grande storia, è scritta sui decenni: basta dire gli anni 20, gli anni 30, gli anni 40 ed ecco le avanguardie, i totalitarismi, la guerra mondiale, poi gli anni, 50, 60, 70, 80, il boom economico, la dolce vita, gli anni di piombo e il made in Italy.

Il fatto è questo: 10 anni sono un pezzo di storia, e oggi né i nostri oggetti-feticcio, né le tendenze culturali arrivano a durare un decennio, a maturare.

Il decennio è un tempo-prova, un “periodo”, un principio cognitivo.

Tutti ricordiamo che a un certo punto nei libri di storia, al liceo, c’era un capitolo della storia d’Italia intitolato “il decennio preparatorio”, che racconta come si siano gettate le basi dell’Unità d’Italia tra le sommosse del 48 e la spedizione dei Mille del 1861.

Quel primo tratto di storia d’Italia, quel lungo decennio di anteprima all’impresa dei Mille, costituisce una metafora perfetta, nel suo sviluppo non lineare, ma circolare, di quelle  “micro-storie d’italia” che saranno le imprese del made in Italy: un’idea/sentimento d’innesco, il contagio/condivisione, quindi la fase difficile, l’epoca in cui l’idea deve diventare grande,  superare l’infanzia, fare presa nella realtà, resistere alla tipica dinamica di caduta dell’entusiasmo in corrispondenza della costruzione del consenso…

Se supera il decennio preparatorio, un’idea, un prodotto, un’azienda diventa adulta.

Ma la mortalità infantile del made in italy è sempre stata altissima. E anche nelle nostre vite private, spesso viviamo progetti di vita che non arrivano al decennio, in amore, nel lavoro, e poi ricominciamo. Cambiamo telefono, e cominciamo un nuovo gioco. Siamo eterni bambini, noi italiani.

Ma ci dimentichiamo della mission più importante dell’essere bambini: dire la verità, avere l’incoscienza di gridare che “il re è nudo”.

Photo: il mio telefono. Infilato nel Nokia: “faccine” by J.Gandossi, che ora uso come agenda-memo, col n. di tel. sul retro, dopo aver appurato che più della metà dei 500 n. in agenda… non so più chi siano!)  

 

 

un fantasma si aggira per l’Europa: l’Italia

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Italia

Un fantasma si aggira per l’Europa: l’Italia.

L’Italia è un fantasma perché la sua storia è quella di un fantasma, una sembianza, un’apparenza. E l’apparenza inganna. L’Italia, la storia dell’Italia moderna, è un caso esemplare di un’identità costruita sull’inganno delle apparenze.

Basta rileggere senza paraocchi le 4 mitologie cruciali della storia italiana contemporanea (Risorgimento, Ventennio Fascista, Resistenza, Made in Italy) per comprendere cosa sia lo stile italiano, e quanto sia storicamente radicato.

Il Risorgimento viene impartito – già dalla parola – come fenomeno morale che si manifesta in episodi esemplari (con specifica denominazione: i “moti risorgimentali”) che fungono da “trailer” di un sentimento nazionale e popolare in realtà inesistente.

La mitologia-mitografia risorgimentale con i suoi testimonial (Ciro Menotti, Silvio Pellico, Carlo Pisacane) i suoi art director (Mazzini, Garibaldi, Cavour) e la sua grande campagna di lancio (“Spedizione dei Mille”) è un grande esempio di costruzione spettacolare di una favola che non c’è:

pochi intellettuali e rivoluzionari professionisti, in esilio, completamente staccati dalle esigenze e dai sentimenti popolari, senza alcun seguito nelle masse contadine, quindi un colpo di stato (la spedizione dei mille) finanziato o organizzato dalle grandi potenze (con l’apertura del canale di Suez, per ragioni chiaramente commerciali, diventava fondamentale avere un’Italia unita e integrata al sistema europeo), quindi trattative in alto loco (ti do la Savoia, mi dai il Veneto) e l’Italia è fatta.

Il Risorgimento, cioè l’atto di nascita del paese Italia, è una grande operazione di falsificazione e costruzione di un patriottismo idealista, strumentale, del tutto inesistente, se non nella testa di qualche aristocratico idealista e qualche sincero rivoluzionario (gli “utili idioti”).

Di fatto: sono bastati 1000 garibaldini ad annettere quasi pacificamente il Sud in due mesi, ma non sono bastati 100.000 soldati e cinque anni di repressione sanguinaria (culminata con la rivolta di Palermo – unico vero episodio di partecipazione popolare del Risorgimento, peccato che fosse anti-italiano)  che nessuno conosce, con migliaia di morti, deportazioni, villaggi incendiati, esecuzioni sommarie a sottomettere quelle popolazioni e regioni che si pretendeva di aver liberato,

e che invece si sono subito ribellate al nuovo stato, appena il nuovo stato ha tradito platealmente le promesse (distribuzione della terra ai contadini, che è invece diventata privatizzazione del demanio a beneficio dei grandi proprietari, e conseguente peggioramento delle condizioni contadine)  fino a  essere sottomesse con la forza, oltre che con la propaganda (e questo reale risorgimento e resistenza del sud italia al nuovo stato nordista viene chiamato “banditismo”,

e qualsiasi storico onesto vi dirà che questo passaggio storico è alla base della questione meridionale, cioè della non adesione del sud al paese, alle istituzioni, e della conseguente diffusione endemica di mafia, camorra, n’drangheta, etc).

Sulla “questione meridionale” hanno poi disquisito (e campato) generazioni di intellettuali e politici, senza mai andare alla radice della questione, chiaramente, perché se qualcuno (lo Stato italiano) ti paga per occuparti di un problema tu non puoi dirgli che la causa del problema è lui (lo Stato italiano).

Col Ventennio Fascista la tecnologia di costruzione dl consenso trova il suo massimo sviluppo: i mass media, l’architettura, la scenografia, lo sport, tutto diventa immagine coordinata e  diffonde in Italia e nel mondo questa nuova mitologia, lo stile italiano, cioè ordine, benessere, civiltà, modernità, ginnastica e tecnologia.

Starace, D’Annunzio, Mussolini: al di là del fascismo, sono i precursori della società dello spettacolo, della pubblicità e delle comunicazioni di massa basate sul consenso verso un sogno, una favola.

Ma la favola si interrompe di colpo, l’apparenza di un paese militarizzato si scioglie nelle nevi, in Grecia, in Russia, lo stivale italiano ha le suole di cartone, il regime costruito in vent’anni crolla in mezz’ora, il re scappa vilmente con tutta la corte (e ha sulla coscienza i martiri di Cefalonia) il paese è occupato da eserciti stranieri:

una catastrofe, una tragedia nazionale, lo stile italiano rivela tutta la sua falsità, è l’occasione per cambiare stile, mentalità, tutto, diventare un paese onesto, consapevole.

E invece cosa accade? Si inventa una nuova favola. La Resistenza!

La Resistenza, con i suoi copywriter (Vittorini, Pavese, Fenoglio) similmente al Risorgimento e al Fascismo mistifica la realtà: accade così che poche centinaia di sinceri antifascisti, e pochi episodi locali di guerriglia, diventino sui libri di storia della scuola dell’obbligo un movimento di massa protagonista di una gloriosa pagina nazionale (con specifica denominazione: “la Liberazione”) che copre la realtà storica, cioè la inenarrabile vergogna nazionale che è nei fatti storici, in certi fatti storici decisivi e davvero esemplari,

come la fuga del re e di tutto la classe dirigente, e soprattutto la guerra civile-macelleria-pulizia etnica: in un mese, maggio 1945, 40.000 morti “gratuiti”, a guerra finita, per lo più uccisioni di pura vendetta, faida, frustrazione, non una pagina onorevole, evidentemente, perché bastava essere additati come fascisti per essere ammazzati per strada, ed è chiaro che allora il 99% degli italiani avrebbe dovuto essere ammazzato per strada, a cominciare da quegli stessi “intellettuali” che questo massacro hanno giustificato e alimentato,

in primis il mostro sacro Vittorini, che dopo aver passato venti anni a far carriera come intellettuale squadrista e fascista con un colpo di spugna rinasce antifascista comunista e sanguinario: i suoi scritti incitano ad ammazzare “i fascisti” perché ci sono “uomini, e no” e i fascisti non sono uomini, sono solo “figli di stronza” .

Non solo nessuno gli rinfaccia il clamoroso voltafaccia ma tutti lo riconoscono e acclamano nuova guida morale del paese, e infatti dirigerà la più importante casa editrice italiana.

E’ l’esempio del trasformismo sfacciato dell’intellettuale italiano.

Oggi vediamo  l’ultima versione di questo tipo nella generazione dei sessantottini trasformatasi nella classe dirigente pubblicità-giornali-televisioni della società dello spettacolo.

Quindi, quando oggi celebriamo l’Unità d’Italia e il Made in Italy, stiamo celebrando questo, l’incredibile sfacciataggine e capacità  di imporre apparenze ad altissima percentuale di falsità aggiunta: e questo carattere, questo stile italiano, è costitutivo dell’identità e della storia nazionale, sia delle due grandi mitologie fondanti, Risorgimento e Resistenza, sia della mitologia “rimossa”, il Fascismo.

Il Risorgimento, propagandato e imposto come risveglio della coscienza nazionale e di valori come unità e indipendenza, nasconde la feroce repressione (brigantaggio) seguita a un colpo di stato (spedizione dei mille) finanziato dalle potenze straniere e realizzato da quelli che oggi chiameremmo terroristi o mercenari.

La Resistenza, propagandata come rinascita civile e di valori come libertà e democrazia, nasconde la vergogna del voltafaccia e della pulizia etnica per non affrontare la vergogna di un paese opportunista, codardo, vendicativo e servo del potere.

Poi cosa succede? Come si arriva al Made in Italy? Siamo nel 1945, l’Italia è un paese vinto, distrutto, occupato dagli Americani.

Succede che gli Americani hanno capito perfettamente cosa sia e a cosa serva lo stile italiano. E’ l’avanguardia di comunicazione del consumismo: diventerà il modello, l’immagine della democrazia del benessere, filoamericana.

E dunque niente sanzioni, niente punizioni, niente esame di coscienza collettiva e ricostruzione morale, ma invece: palate di dollari, ovvero: il piano Marshall, e la Thompson.

La Thompson è stata la prima agenzia pubblicitaria a lavorare sul mercato italiano, è subentrata direttamente al Minculpop: la Thompson è sbarcata a Salerno nel 43’, come ufficio stampa dell’esercito americano, poi diventata ufficio stampa del piano Marshall, poi prima e unica agenzia pubblicitaria ad operare in Italia nel momento del boom economico.

E quindi: la repubblica italiana nasce col piano Marshall, ed è fondata sulla pubblicità.

Soldi che piovono dall’alto. Un colossale investimento pubblicitario. A una condizione: niente comunisti al governo.

Ecco il paradosso, il capolavoro: proprio mentre si sventola una repubblica basata sull’antifascismo, con il più forte partito comunista di tutto l’Occidente, con intellettuali comunisti al comando nei giornali, nelle case editrici e nelle università, invisibile, reale, permane la condizione-cappio: niente comunisti al governo.

Da qui, come tutti sanno, la strategia della tensione (piazza Fontana, piazza della Loggia, treno Italicus, sequestro Moro, stazione di Bologna) cioè una serie di stragi (veri e propri avvertimenti) che arrivano puntualmente ogni qualvolta si presenta il pericolo che la sinistra vada al potere,

esattamente come accade in una classe di bambini dell’asilo cui viene promesso un premio, un premio che non arriva mai, e non per colpa della maestra, ma perché c’è sempre qualche bambino che all’ultimo momento combina un guaio, e rovina tutto.

Ecco lo stile italiano.

L’Italia contemporanea, la Repubblica, è un soggetto incerto e impotente per questo motivo, questo Economic Recovery Plan, questo “regalo”, questo “potlach” che ci ha reso succubi prima dell’economia e poi della cultura commerciale americana.

Lo stile italiano, cioè la capacità di costruire apparenze, trova la sua nuova ragione d’esistere nella moda  e nel design, e diventa in tutto il mondo il vangelo del consumismo vistoso e dello snobismo di massa.

Berlusconi, con la guerra dell’etere, porta a compimento questo tracciato, schiantando la “resistenza” cattolica e comunista: fino alla fine degli anni Settanta, per accordo catto-comunista, erano vietate le pubblicità dei beni di lusso, ed erano considerati beni di lusso tutti quelli non alla portata delle tasche proletarie.

Al Carosello vedevi il caffè, la pasta, il detersivo, non le auto di grossa cilindrata, non le pellicce.

Se non ci fosse stato prima il piano Marshall e poi Berlusconi, avremmo dovuto fondare il made in Italy sul lavoro (o sulla tecnologia vera, come ha fatto il Giappone) mentre l’abbiamo fondato sui debiti e sulla pubblicità.

Basta guardare le cifre per vedere che siamo il paese che proporzionalmente al nostro PIL è sempre il primo al mondo per spesa pubblicitaria e l’ultimo per livello d’istruzione.

L’Italia non è una repubblica fondata sul lavoro e sulla resistenza. L’Italia è una privativa basata sulle apparenze e sul trasformismo. La sua storia lo dimostra.

Per un paese che già nell’Ottocento è stato capace di vendere un colpo di stato con conseguente repressione militare (cioè: la tipica nascita di un regime) come un’epopea eroica di patriottismo e più tardi, nel secondo dopoguerra, è stato capace di vendere, in pacchetto completo, venti anni di consenziente servilismo di massa culminati in un mese di pulizia etnica come eroica resistenza antifascista, per questo paese, è stato un gioco da ragazzi vendere il Made in Italy, lo stile italiano, è chiaro:

puoi falsificare la tua storia cambiandoti d’abito, noi lo sappiamo fare, noi siamo i numeri uno, noi ti diamo gli strumenti per governare l’apparenza e creare realtà ingannevoli.

Tu sei avido, invidioso, vile, disonesto, incapace, bramoso, ridicolo, furbo, vorace, ignorante, ottuso. Ti rivolgi allo stile italiano.

Diventi sofisticato, intrigante, sensibile, elegante, colto, seducente.

Ha funzionato per trent’anni. Adesso è finita. Serve una nuova favola.

tratto da “Lo stile italiano” by Sean Blazer (alias Leone Belotti) – Calepio Press

 imago: Biennale di Venezia, padiglione Italia, 

lo stile italiano

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7.13_Onofrio_Martinelli

Lo stile italiano si basa su un’unica, potente promessa: l’apparenza  inganna.

L’italia stessa trova la sua identità nell’inganno delle apparenze.

Lo stile italiano stesso in apparenza è autentico, unico, intelligente e suggestivo; in realtà è falso, riprodotto, stupido e freddo.

In questo, risponde esattamente al target di riferimento, il signorotto italiano, e le sue donnette.

Basta guardare una pubblicità di moda italiana per capirlo: Armani, Versace, Prada, Dolce&Gabbana, Cavalli e Diesel, insieme, non fanno che gridare “vendiamo fumo, la merce più utile in un mondo in cui l’apparenza inganna”.

Il signorotto italiano nelle sue varie configurazione (signorino, signorone, possidente, imprenditore, professionista, dirigente)

è in Italia quel che nel resto dell’occidente è il borghese, ma differisce da questo perché i valori-guida del borghese (onestà, meritocrazia, sobrietà, giustizia, libertà etc) in Italia sono semplici etichette (apparenze) che coprono i meccanismi reali, radicati da secoli, del funzionamento sociale (raccomandazioni, privilegi, corruzione, intimidazione, servilismo, nepotismo, familismo, etc).

Lo stile italiano ha origini nella storia d’italia, nella transizione dalla civiltà classica greco-romana alla civitas cristiana.

Il primo carattere di questa fusione, è il maschilismo:  non è un carattere originario, ma un portato ideologico costruito dai padri della chiesa, così come il secodo carattere, la sacralità delle scritture, e dunque della legge. Maschilista, teologico, codificato. E’ lo stile italiano.

L’italia in apparenza è un giardino con palazzi rinascimentali e borghi storici, un manto verde tra un cielo bianco e una terra rossa; con intorno un mare azzurro.

In realtà l’italia è una discarica di storia e cultura, rifiuti e veleni, un angolo morto di cielo grigio e terra bruciata, circondato da un mare nero.

i valori civili in italia sono rimasti quelli torbidi  della congiura di palazzo, che sia un condominio, o palazzo chigi, la delazione e il doppiogiochismo sono pratiche di massa, maggioritarie,

il carattere principe dell’italiano è il trasformismo, anche istantaneo:

stiamo parlando di un paese la cui maggioranza dei cittadini è capace con grande naturalezza storica di andare a letto la sera fascista a vita e svegliarsi la mattina antifascista da sempre. La vita è un sogno, l’apparenza inganna.

Al lavoratore viene offerta l’apparenza del possedere, il posto di lavoro e la casa, vincolati l’uno all’altro dal più potente strumento di sottomissione, le rate del mutuo;

all’artigiano viene offerta l’apparenza del diventare imprenditore, e la sostanza dell’annegare tra le onde del mercato e/o essere stritolato tra i tentacoli del fisco.

Il lavoratore, persa la dignità del nullatenente, e l’artigiano, persa la libertà del proprio lavoro, non hanno altra strada che quella ormai imboccata:

portare avanti la recita, ingannare se stessi, ingannare gli altri,

e dunque l’interesse del vivere si concentra sull’indossare abiti firmati, non importa se falsamente autentici o autenticamente falsi, basta che garantiscano l’apparenza (o un’apparenza d’apparenza).

Nello stile italiano  identifichiamo l’anima  della società dello spettacolo,

figura ultima del capitalismo  come sistema di sfruttamento finanziario, morale, culturale esercitato da una esigua minoranza  (l’elite) sulla stragrande maggioranza (la massa).

Circense, curtense, ecclesiale, militare, industriale, radiofonico, televisivo, telefonico, informatico: il modo d’aggregazione è il mezzo di sfruttamento, ecco il filo nero del modello storico italiano.

Le radici del modello spettacolare italiano  affondano nella Roma circense. Nerone ha inventato il reality show.

Quindi nella teatralità della liturgia cattolica e nello sfarzo esemplare delle corti rinascimentali.

Nell’età moderna, c’è un solo prodotto del genio italiano: l’opera.

Nell’opera lirica,  l’ideologia italiana è sublimata: l’apparenza  inganna, i fondali sono di cartapesta, i cantanti truccatissimi, ma quanto sono veri i sentimenti che questa apparenza produce!

L’ideologia italiana  promette di confezionare in un mondo di sogno la vita interiore.

Non la vita reale, non il lavoro, non la società civile, ma lo spettacolo, il sogno, il teatro, il gioco saranno gli ambiti nei quali l’italiano investirà sentimenti, credenze, speranze.

Lo stile italiano moderno nasce radiofonico nel ventennio fascista: nello spettacolo del regime fascista, ravvisiamo le origini della moda e del made in Italy come modello di apparenza e consenso sociale.

La matrice radiofonica-fascista dello stile moderno italiano viene travolta dalla guerra e dopo un trentennio di catto-comunismo rinasce negli anni ottanta come made in Italy grazie al mezzo televisivo – e quindi telefonico.

La moda e il design sono la sceneggiatura dello stile italiano contemporaneo,  il calciatore e la velina i suoi interpreti,  il mondo intero il pubblico pagante.

Bellezza, vigore, eleganza, unicità, igiene, tecnologia, ecologia, ironia, leggerezza, beneficenza e arte sono i valori propalati.  Ignoranza, violenza, furbizia,  scaltrezza, arroganza, familismo, possesso e usura del denaro sono i valori sottesi.

Lo stile italiano è il cardine della società dello spettacolo.

La società dello spettacolo si basa sull’immagine,  il suo senso è l’apparenza,  il suo codice la finzione, la sua prassi la recita.

E’  la tragica caricatura di una mitica società ideale platonico-epicurea, basata sul teatro, la ginnastica e le sensazioni del piacere nelle sue varie forme (dell’occhio, dell’orecchio, della gola, del naso, della pelle).

Rispetto alla sobrietà e all’etica protestante del capitalismo industriale, lo stile italiano rappresenta una società al contrario, carnevalesca, dove nulla è quello che appare e nella quale il capocomico viene fatto re (o il re si fa capocomico).

(tratto da Sean Blazer “Lo stile italiano” CalepioPress 2013, immagine: “Composizione di nudi” by Onofrio Martinelli, 1938)