spaghetti al dente avvelenato

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Il fatto: Alias pubblica una special edition della Spaghetti Chair, con dimensioni stravolte e dunque impressioni spiazzanti, con effetto d’alienazione;

l’antefatto: la Spaghetti Chair è un must del design made in Italy, e per molte ragioni, tecniche e culturali, legate all’atteggiamento mentale, ironico, e affettuoso, su una forma/funzione pop e un materiale banale che segnò un’epoca;

il postfatto: dal suo profilo fb, Enrico Baleri, che nella nascita della Spaghetti ha avuto una parte non secondaria, lancia strali ferali, evidentemente ferito, indignato, e si erge a difesa della memoria del designer della Spaghetti, il compianto Giandomenico Belotti…

allora, Enrico, il tuo furore è sincero, ma improprio: ti tranquillizzo, sono anche io un Belotti di Grumello del Monte come il grande Giandomenico, e qualora si fosse levato nella tomba sarei stato il primo a percepirlo: invece lo sento sghignazzare, e non per l’oltraggio perpetrato da Alias, ma per la tua ira funesta…

Sei tu l’oltraggiato, non Belotti, che della Spaghetti è stato il papà, mentre tu sei stato la mamma, e oggi da mamma italiana tiri fuori le unghie: non toccate il mio bambino!

Penso che se gli Alias men ti avessero chiamato, consultato, corteggiato, spiegandoti il senso dell’operazione, forse lo avresti anche condiviso: e l’operazione parla da sé, evidentemente è un omaggio alla Spaghetti in quanto classico, non modernizzabile, però ironizzabile…

Lo stravolgimento dimensionale, l’iperbole de-funzionale, se ci pensi dice proprio questo: la Spaghetti non si tocca, progetto perfetto, e la sua perfezione viene proprio dalla sua curiosa armonia longitudinale, mai vista, inedita e unica.

Perché, diciamolo, la Spaghetti è sproporzionata di suo, da progetto, è questa la sua caratteristica che oggi viene presa in giro, e omaggiata.

L’operazione Alias non mi pare un furbata commerciale con effetti deleteri, come lo sono molte operazioni del genere “make it big”, e penso ad esempio al Vasone che qualche anno fa ha invaso ogni garden o cortile italiano,

si tratta invece di un gesto, forse anche irriverente – come è destino delle icone classiche che resistono alla modernità, a partire dalla Monna Lisa “duchampata” – per richiamare l’attenzione sulla Spaghetti. Questi pezzi unici, variazioni non destinate alla produzione seriale, non recano alcun danno alla versione originale, anzi, ne sono uno spot, forse un test di rilancio…

Il mio dubbio, in questi casi, considerate le dinamiche perverse della comunicazione, è questo: che la polemica pepata pompata da Baleri si riveli utile all’operazione Alias più che qualsiasi consenso o plauso,

e questo vorrebbe dire che tu, Baleri, sei cascato nel classico trabocchetto che il sistema spalanca ai giovani e ingenui sovversivi, i famosi “utili idioti” (absit iniuria verbis).

Al punto in cui siamo, prima che la polemica degeneri nell’inciviltà, consiglio agli Alias di invitare Baleri come special guest alle presentazioni della special edition, e a Baleri di cogliere l’occasione per raccontare la vera storia della Spaghetti, senza dimenticare il ruolo di Emilio Tadini nella scelta del nome Spaghetti, che ha fatto la fortuna del prodotto: eppure eravate indignati e infuriati all’idea di darle un nome così Little Italy!

Un nome imposto dalla lobby che ha finanziato il progetto, perchè voi, denotando scarsa cultura marketing, e anche scarsa cultura tout court, volevate chiamarla Odessa! E in quel caso dalle tombe si sarebbe levato non uno, ma intere schiere di morti…

E poi, se proprio vogliamo tirare fuori le offese fatte alla Spaghetti, perchè non parliamo della oscena proposta, avanzata ai tempi dal simpatico Montezemolo, di farla più larga, cioè più facile per venderne di più, privandola così del suo vero tratto d’identità e unicità, quella sproporzione che la rende bella e per sempre attraente perché diversa da ogni altra sedia: quello sì che è stato un tremendo insulto al progetto, e al genio del Belotti!

 

Baleri non è ieri

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Baleri Ho conosciuto Enrico Baleri un pomeriggio d’estate dei primi anni Ottanta, nella sua cascina bianca di via dell’Allegrezza sui colli di Bergamo: allora, mi dice subito, tu vuoi scrivere, sì, bene, ascolta, Philippe ha disegnato questo tavolo che io produrrò, tu invece adesso mi scrivi un testo su questo tavolo, ti siedi a questo tavolo e scrivi un testo sul tavolo, un testo poetico a proposito del tavolo, se ti piace l’idea, e se vuoi sapere qualcosa sul tavolo chiedi a Philippe, tu lo parli il francese, no?

Il Philippe in questione era Philippe Starck quando ancora non era Philippe Starck. Io ero il direttore, fondatore e redattore unico del giornalino del liceo Bergamo bene. Avevo dieci in italiano, e sedici anni. Una ragazzina nell’intervallo mi aveva detto che suo padre, Enrico Baleri, aveva letto i miei articoli e voleva conoscermi.  Adesso avevo davanti questo re vichingo che mi diceva: dai, scrivi, fammi vedere cosa sai fare, a me serve un copywriter che scriva di design, ma non il solito copywriter, vuoi qualcosa da bere, un caffè?

Baleri fa così, ti chiama e butta lì la palla. Baleri in realtà vuole giocare. Il suo marchio è un gallo rosso, il suo slogan “mobili in festa”. Che tu sia un geometra neo-diplomato di 20 anni o un archistar mondiale di 80 anni per lui non cambia, ti tratta allo stesso modo,  butta lì la palla, e ti mette comunque in moto. Baleri vi chiederà sempre tutto e subito, e vi tratterà, anche duramente, come se voi foste dei geni creativi, e parecchi, in questo modo, lo sono diventati davvero.

Imprenditore, designer, catalizzatore, motivatore, comunicatore, affabulatore, ha fatto ricerca, cultura, impresa, business, ha creato gruppi, società, aziende, fondazioni, ha formato designer, architetti, grafici, critici, imprenditori, ha lavorato con fotografi, musicisti, artisti, intellettuali, accademici, industriali, registi, artigiani, tecnici, informatici, soprintendenti, direttori marketing, stilisti, ricercatori, teologi, chimici, vetrai, filosofi.  Ha creato oggetti, eventi, messaggi, e tutto questo sempre con qualcuno, soci, amici, nemici, grandi maestri, giovani promesse.

Chiunque sia entrato in contatto con Baleri sa che ci sono due Baleri. Uno è il Baleri bianco, giovanile e swing, socratico e affabulatore,  l’altro è il Baleri nero, asperrimo e crudele, ferale e ieratico. Il Baleri bianco lavora sull’amore che l’allievo nutre per il maestro. Il Baleri nero invece si basa sull’odio, sul desiderio che il figlio ha di uccidere il padre, il padrone, il patrigno, l’orco, il tiranno. Il risultato non cambia.

Quando Baleri è tetro, quando Baleri è gelido, in configurazione severità e rigore, è un re shakesperiano, fa davvero paura, ci sono nel mondo decine di segretarie e di designer che hanno superato le loro paure ancestrali superando la paura del Baleri nero. Quando ti ritrovi col Baleri nero in una stanza interamente bianca con i tavoli di vetro e le sedie grigie hai anche il terrore di aver sbagliato il colore delle scarpe.

Sono passati più di 30 anni dal nostro primo incontro. Ha un piede ingessato,  e lo sguardo indignato dell’Achille vulnerato. E’ successo giocando a golf, ammette. Come non pensare a MrBean che inciampa nella buca?

Baleri ti mette di buonumore anche involontariamente. C’è sempre in Baleri una riemersione del comico e del goliardico, anche in pieno registro tragico o drammatico, anche quando recita la parte del demolitore critico o dell’imprenditore furioso, c’è sotto il Baleri bianco, quello che vuole giocare con tutti, che preme e spinge, e fa scherzi.

Se guardi bene, Baleri ha sempre un piede ingessato, la pancia che gorgoglia, qualcosa di suo che non gli va giù, un problema, un’ansia, un handicap di cui lui è consapevole, e per il quale ti chiede con forza d’intervenire. In questo domandare Baleri rivela la sua umanità. Baleri chiede idee, chiede il nuovo e chiede l’eterno.  Con la forza, la caratura di queste richieste, gli è un poi gioco chiedere soldi per realizzarle.

Baleri è un uomo capace di infiammare insieme chi progetta e chi produce, soggetti che solitamente non comunicano, e riesce a fare questo perché ha una visione integrata delle due fasi, e questa visione gli viene dall’aver vissuto in ogni modo la terza fase, quella di chi vende. E dopo che il Baleri bianco ti ha fecondato, arriva il Baleri nero, quello che sa trovare i difetti, e ti costringe a rimediare, a ricreare, per passare dal progetto perfetto sulla carta al prodotto perfetto nei negozi.

Collaborazioni, incontri e scontri con Baleri a proposito di idee, progetti, diritti o soldi, sono sempre e comunque inquadrati dalla legge unica Baleri, e la legge Baleri è questa: nessuno ha rapporti sereni e continuativi con Baleri, ma tutti con Baleri hanno prima o poi innamoramenti intensi. Non si escludono separazioni brusche, né innamoramenti successivi, questo anche ripetutamente, nel tempo, come certi amori, certe attrazioni/repulsioni tecnicamente sporadiche, in realtà eterne.

(photo, al centro, Enrico Baleri) 

requiem per il design

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furnituredesign

incontro Enrico Baleri per caso davanti bar Duse, io sono sono con Matteo e Nicola di CTRL magazine, lui è appena stato al salone del mobile ed è un fiume in piena: questo testo è la trascrizione più o meno fedele delle sue parole:

come sempre vado al salone del mobile con lo spirito di uno studente, con le migliori aspettative, in cerca di segni, emozioni, immagini,

ma alla mia età, con i miei trascorsi, sono vaccinato, non cerco le facili illusioni, le scenografie spettacolari,  ma guardo in profondità, con attenzione,

sono poche le aziende che hanno qualcosa da dire, in grado di indirizzare il mercato e il gusto con prodotti veri, autentici.

La prima tendenza si rivela subito, e parlo delle aziende che possono vantare una grande storia, come Knoll International, che mettono in mostra il passato, i grandi must, i prodotti evergreen, la grande qualità, la grande correttezza e pulizia formale – e funzionale – di architetti/designer come Eames, Van de Rohe, Saarinen;

quasi un passo indietro, un conservatorismo a ritroso, come a dire che il grande design, che ha ancora un futuro, non è il made in Italy nato negli anni Sessanta, ma ciò che è venuto prima, e l’ha reso possibile, e ciè il furniture design americano anni Quaranta e Cinquanta.

Dietro a questi giganti, o sulle loro spalle, ecco la pletora, la massa di marchi e prodotti ripetitivi, banali, che replicano stilemi abusati, senza più significato, oggetti commerciali, vuoti, senz’anima nè valore, e nemmeno brutti, ma tristemente banali.

Infine, la grandeur per conto terzi di quei marchi, come Kartell, che si sono messi a fare mobili per i nuovi ricchi, arabi, russi o asiatici, e di fatto sono caduti nel trabocchetto storico,

e assecondano pedissequamente il cattivo gusto di questo nuovo pubblico internazionale, lusso, lusso, e ancora lusso, esibito, esibito, e ancora più esibito, di fatto svalutando quei valori che hanno reso desiderabile il  made in Italy: autenticità, semplicità, eleganza, poesia.

Scelte dettate da facili appetiti finanziari, con esiti forse positivi sui bilanci di fine anno, ma certamente nefasti sul lungo periodo.

Peggio dei prodotti, la cornice, gli spazi, gli allestimenti: pesanti, arroganti, volgari, psicologicamente deprimenti, segni di un ambiente bulimico, sovraccarico, dove i prodotti annegano nelle scenografie, e le forme, i colori, i materiali fanno rumore.

Queste grandi scenografie, vuote e pompose, mi danno da pensare, mi fanno pensare al vizio di fondo del made in Italy, originario, coevo al furniture design americano degli anni quaranta: e dico le scenografie di cartone dell’italia mussoliniana, i grandi eventi montati da grandi architetture effimere, fatti per stupire, colpire, secondo logiche teatrali.

La verità è che in tutte queste realtà mancano le figure chiave, gli imprenditori, soggetti capaci di assumersi responsabilità, rischi, mossi da ambizioni, convinzioni.

Al loro posto ecco i top manager, gli uomini del break even, da sempre vanamente in cerca di un metodo per calcolare la redditività della creatività…

Torno a casa spossato, piuttosto nauseato, inquinato da impressioni negative.

L’indicazione dei master brand, presentare il passato, non è altro che un ripiego intelletuale.

La tendenza main, la copia servile, è un refrain commerciale già visto.

La voga ultra kitch, condita da sarcasmo servile, è il vero requiem del design.

Photo: il team dei designer Knoll anni 40-50

Bergamo project by Le Corbusier

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BgAltaLeCorbusier

un caso di serendipity classic  (trovi quello che cerchi solo quando cerchi qualcos’altro)

nel caso specifico cercavo info e progetti per la città di questo arch. zenoni (marcello)  candidato sindaco di Bergamo 5 stelle,

e invece, sfogliando schermate google prima di marcello zenoni trovo il blog di stefano zenoni con il progetto per bergamo fatto da Le Corbusier su un tovagliolo di carta,

un disegno di cui avevo sentito parlare, ma che non avevo mai visto, una storia che mi aveva raccontato suo tempo Enrico Baleri, e avevo dimenticato,

siamo nel 1949, a Bergamo si svolge un congresso internazionale di architettura, e il grande Le Corbusier prende un tovagliolo e disegna in massima semplicità e assoluta certezza la storia e il futuro di Bergamo Alta: senza auto!

In alto scrive: “Qui niente macchine. Qui la splendida città senza ruote.”

E sotto: “Quando entro da un amico lascio il mio ombrello alla porta; I visitatori della vecchia Bergamo possono benissimo lasciare le loro ruote alla porta. (Rettifica: non ho più un ombrello da più di quarant’anni)”

Inoltre (Baleri version) dopo aver fatto il giro di Città Alta, a chi lo accompagnava (forse Pino Pizzigoni?) Le Corbusier chiese: e le puttane dove sono? il bordello dov’è?

Immaginiamoci pure le possibili risposte.

Qualcuno è in grado di sviluppare questo concept di Le Cobusier per Bergamo, un’idea in attesa dal 1949?

Questo disegno di le Corbusier io glielo appiccicherei in fronte a Bruni, a Tentorio, alla Sartivares, al vescovo, all’ascom, a l’eco, all’università e al prossimo sindaco.

Da almeno dieci anni rompo le scatole a tutti gli architetti che conosco ( a Bergamo sono centinaia, forse migliaia!) ma non ho ancora trovato uno che abbia soddisfatto la mia semplice richiesta:

fammi vedere un disegno, uno schizzo, un rendering, un’immagine di Bergamo Alta senza asfalto! Viale delle Mura senza asfalto, me lo fai vedere come sarebbe?

Sono bravissimi a fare box interrati, aerei, sottomarini; e non si rendono conto che è finita l’epoca dei posti auto, è tempo di progettare posti-uomo!

Niente, se non c’è il cliente, non muovono un dito! E dovrebbero progettare il futuro! Ma il cliente sono io! Il cliente uomo! Il cittadino!

Hai capito adesso dove sono le puttane a Bergamo?

E hai capito dove è finita la tua visione, il tuo concept, il consiglio del più grande architetto del mondo alla nostra piccola città?

Nascosto in un blog clandestino, che trovi per caso.

(l’immagine del progetto “Le Corbusier per Bergamo” 1949 è tratta da http://stefanozenoni.altervista.org/)