aldilà dell’amicizia

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S.giulia

Ti è simpatico a pelle. Quando lo incontri gli escono e ti escono cazzate a raffica su donne, soldi, sesso. Le cose importanti della vita.

Ci sono amici di amici che non sono propriamente tuoi amici, li vedi casualmente, sporadicamente, ma con i quali sei subito in libera sintonia, con quella complicità e leggerezza che con i tuoi amici-amici non hai più, per troppi vincoli.

Parliamo di questo giovane uomo molto sportivo e molto giramondo – tutto il contrario di te – faccia e voce da attore, molto comunicativo, probabilmente uno che piace molto alle donne, un privilegiato.

Da ragazzino l’avresti detestato e invidiato, da adulto ti è piaciuto a prima vista. Libertario, ipersensibile, acuto e ingenuo. Punte di snobismo, di iper-consapevolezza e autodenigrazione. Senso del grottesco, autoironia, momenti di grande affabulazione.  Impressioni riduttive, del tutto superficiali, o personali.

La notizia arriva sporca, incomprensibile, come una bomba che esplode in frammenti di verità parziali, da interpretare. L’hanno trovato morto nel suo letto. Stava facendo una cura.

Cerchi on line, vai su facebook, nei social: c’è tutto sulla sua vita, ma niente sulla sua morte. Ti tocca comprare il bugiardino. Sul giornale si invita a non mandare fiori, ma donazioni all’oncologia. Dunque, era malato?

No, l’oncologia non c’entra niente. Non l’hanno trovato morto nel suo letto. Si era chiuso in garage. Niente autopsia.

Raramente si ha il coraggio di dichiarare apertamente la tragedia delle tragedie.

Così ti ritrovi sul sagrato di una chiesa della città, dove magari eri stato una volta, a un matrimonio. Una giornata bellissima, luminosa, un cielo nitido. Cinquecento persone.

Ti stupisci che oltre agli amici del tuo giro avesse molti altri amici di altri giri, che bene o male a ben vedere conosci tutti, come  è normale quando hai una certa età, in una piccola città. Vedi gente che non vedevi da anni, scambi un muto cenno di saluto.

Arriva il carro funebre, si entra in chiesa. Il prete comincia parlando di libertà, poi parla di perdono, e allora ognuno trae le sue conclusioni.

Alla fine sono state le parole del prete a darti la notizia. Altre volte in chiesa hai provato forte disagio per l’esibita ipocrisia cattolica. Ti togli la vita perché non reggi più l’ipocrisia che hai intorno, o dentro. Ma nemmeno il tuo ultimo gesto sfugge al dominio dell’ipocrisia, la tua scelta è taciuta, negata, rimossa.

Invece, stavolta, sentire il prete parlare di libertà è stato quasi confortante.

E su questa parola venuta dal pulpito, tutti hanno cominciato a viaggiare in flash back. Quella volta che. Vengono in mente scene, ricordi, nottate, risate, sbronze, traslochi, pomeriggi di cazzeggio.

Finita la messa, lo portano fuori, vedi passare la bara.

Esci dalla chiesa, devi tornare al lavoro. La giornata è davvero bellissima. Pensi anche gli altri amici che hai perso in questi anni. Ti accorgi che la lista comincia ad essere lunga.

Prima di tornare in ufficio, entri in una bar a bere un caffè. E di nuovo ti capita sottomano il giornale. Eccolo lì, con gli occhiali da sole e i capelli arruffati, 40 anni, e nient’altro. Quello spazio bianco, senza parole, è una condanna. Accanto a lui è c’è chi “si è spento” o “ha raggiunto la casa del signore”.

Ripensi alle parole del prete. Forse la chiesa sta cambiando più rapidamente dei suoi mezzi d’informazione. Dovremmo poter leggere “si è tolto la vita”, con tutto il peso che comporta. Parliamo di rispettare le ultime volontà di chi muore, ma non rispettiamo mai chi ha come ultima volontà quella di morire.

Rivedi la foto del suo profilo facebook, lui che surfa splendido sull’onda perfetta, e come in una visione, vedi arrivare l’onda buona, rivoluzionaria, francescana, è un’onda che solleva tutti, anche i suicidi, anche il nostro amico, è nostra sorella acqua.

I morti non muoiono quando discendono nella terra, ma quando vengono dimenticati.

Mentire, non dire, è più facile, ma è già dimenticare. Si può ricordare solo se si ha il coraggio della verità. Ci sono verità che fanno molto male, che non si possono capire né accettare, ma soltanto affrontare e combattere ogni giorno.

Esci dal bar. Stai per entrare in ufficio, e lo senti che ti cammina a fianco. Gli dici subito che sei incazzato nero, di umore nero, hai buttato via due ore per andare al suo funerale e adesso hai 19 rotture di coglioni da risolvere.

Tranquillo, ti dice, non ti incazzare, ti dò io una mano. Entra con te in ufficio, dice la cazzata, e poi si mette a lavorare.  Due ore dopo uscite insieme dall’ufficio.

Era lunedì sera. Quella è stata l’ultima volta che l’hai visto. Era appena morto, ma stava bene.

 

sold & sold out

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Gori-Pesenti

Siamo la città dei muratori, e abbiamo dismesso la materia prima, il cemento.  E questo mentre l’Europa lancia una strategia neo-industriale.

E non abbiamo capito niente di quello che sarebbe successo alla prima azienda bergamasca (ex).

Abbiamo ascoltato e creduto quello che ci hanno detto, le scene che hanno fatto.

Nei mesi precedenti la vendita c’è stato tutto un fiorire di iniziative virtuose e bei discorsi, all’I.lab, al km rosso, incontri con grandi architetti (Renzo Piano), con studenti, con università prestigiose, si parla di città sostenibile, di Bg 2035, di orti urbani, di progetto Rifo per riqualificare le aree dismesse;

e sempre in queste occasioni vedevi insieme questi due superfighi della città, Giorgio e Carlo, d’amore e d’accordo,

Carlo: «Le nostre città e il nostro territorio hanno bisogno di grandi interventi di riqualificazione. Una rinascita che cambi in meglio le realtà urbane, le periferie in particolare, e la vita stessa delle persone che le vivono. È un tema profondamente innervato nel sociale Quartieri più sostenibili, più belli, più vivibili, contribuendo alla rinascita. Economica e sociale di intere città. Noi ci sentiamo in prima linea su questo fronte, insieme a molte altre imprese italiane».

Giorgio: «Il recupero e la restituzione di aree dismesse e periferiche sono elementi centrali anche nell’azione amministrativa di una media città storica italiana come Bergamo, scelta anche come «caso studio» del progetto di ricerca Bergamo 2.035 condotto da Università di Bergamo e Harvard University con il supporto della Fondazione italcementi».

A partire da luglio, con la notizia della vendita, è ancora un fiorire di “come siamo bravi”, “come siamo coraggiosi”:

Carlo: «L’accordo raggiunto oggi, rappresenta sia per Italcementi che per HeidelbergCement la soluzione ottimale in termini di sviluppi futuri e creazione di valore, ben superiori a quelli che avrebbero potuto raggiungere le due società singolarmente».

Alla domanda sul futuro dei lavoratori, risponde di aver avuto tutte le rassicurazioni del caso dalla nuova proprietà: Italcementi ha già un grado di efficientamento superiore, per cui non sarà necessario tagliare il personale.

A quell’epoca mentre tutti i media osannavano Calepio Press pubblicava un post dal titolo “Italcementi sapendo di mentire”.

Giorgio, 5 ottobre: «Ho ragionato sulla vicenda Italcementi con ammirazione per la capacità lucida di cogliere l’opportunità di uscire da un settore maturo per portare nuove risorse in settori più promettenti»

12 ottobre, arriva “come uno schiaffo alla città” (L’Eco di Bergamo) la notizia che i nuovi padroni tedeschi lasceranno a casa 1080 persone, più di 400 nella sede storica di Bergamo.

Adesso i sindacati strillano (ma a luglio dov’erano? In ferie?) e Giorgio promette che si darà da fare per trattare a nome delle città, in qualità di sindaco, mentre Carlo understatement (!) non ha niente da dire.

La voce della verità, questo giro, è nelle parole dell’ex sindacoTentorio: «Ottenere a posteriori ciò che non era stato stabilito nel contratto originario non sarà facile. Se la politica, la tanto odiata politica, e i sindacati fossero stati maggiormente coinvolti queste clausole potevano essere inserite. Non è stato informato nessuno e ora la posizione della realtà bergamasca è molto debole, in una condizione di sudditanza, con il rimpianto che una grande realtà bergamasca non sia più tale».

Alla fine la vicenda Italcementi ci lascia con un’unica sensazione certa: quella di essere stati presi in giro da leader non all’altezza delle questioni reali, e paurosamente non aggiornati sulle reali dinamiche economiche del prossimo futuro.

Il fatto è che le favole sulla rivoluzione digitale sono già vecchie.

Di soli servizi e tecnologia non si vive, è questa la lezione: bisogna tornare a produrre in Europa se vogliamo realmente creare un modello sostenibile,

piaccia o no, il progetto/strategia futura dell’UE si chiama RISE, che sta per Renaissance of Industry for a Sustineable Europe,

e in quest’ottica ci sono settori che non si possono mollare a nessun costo: energia, alimentare, edilizia!  Cose che i nostri veci pre-digitale sapevano già.

 

non è un gioco

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una storia con due possibilità

storia vera, di un amico che non vedevo da 20 anni.

La storia con due possibilità è un vecchio metodo da vecchia scuola di scrittura: scrivi una storia vera, la storia di una persona, meglio se in prima persona, immedesimandoti, e focalizza un momento decisivo, il momento sliding doors, quello che a ogni persona capita più volte nella vita (se avessi scelto l’altra porta, come sarebbe andata la mia vita?) e da quel momento in poi scrivi in parallelo lo sviluppo/finale reale della storia e lo sviluppo/finale ipotetico, possibile.

Poi fai leggere a tot persone le due versioni – avvertendo il lettore che una delle delle, senza dire quale, è la storia effettiva e l’altra è la versione ipotetica, possibile, potenziale, e verifica quale risulta più credibile.

Questo “esercizio di fantasia” in realtà riguarda chiunque, quando ci si chiede “chissà che fine ha fatto” a proposito di qualcuno che non si vede da anni e che in passato si è frequentato e conosciuto bene.

Il protagonista di questa storia è Hebert, che ho incontrato di recente dopo 20 anni. Facevo il barista notturno nel locale di cui lui era socio-proprietario. Dopo la chiusura del locale, ci siamo persi di vista. Quando l’ho rivisto per caso, per strada, ero appena uscito dalla redazione di CTRL, dove si era deciso di dedicare la cover story al tema del gioco d’azzardo. Ce l’ho io una storia da raccontarti, mi dice amareggiato. In quattro birre a tema, una più amara dell’altra, mi ha così raccontato la parte recente della sua vita, e mentre me la raccontava, una voce interiore mi suggeriva, mi faceva vedere la storia parallela, l’altra possibilità.

Dopo la bevuta, ho buttato giù tre cartelle, nella prima (“una storia”) Hebert si racconta fino al momento sliding doors, seguono le due versioni (“due possibilità”) montate in parallelo.

Nella versione pubblicata su CTRL  magazine n61 completano la cover story le sezioni “tre carte” e “quattro soldi”, approfondimento giornalistico zoom-focus sulla ludopatia/ludocrazia italiana, curate da Nicola Feninno, con fotografie di Linda Alborghetti e Marco Bellini e grafica editoriale dello Studio Temp.

L’idea è quella di proporre agli aspiranti writer un metodo di lavoro story telling – pub writing con diversi temi/livelli di scrittura/lettura del testo: tema narrativo (storia di una persona in modalità mimesis/ghostwriting) + tema giornalistico (il gioco d’azzardo, testimonianza diretta).

1 > una storia

Scommetto che non fai in tempo, gli dice il collega che ha preso la telefonata. Ma l’uomo salta al volante della sua enorme Ford bicolor, gialla e nera, un taxi, e non c’è nemmeno bisogno di esporre la targhetta “fuori servizio”, talmente corre veloce attraverso la città.

Quando arriva è già tutto finito. Entra nella stanza e vede sua moglie con qualcosa abbarbicato al seno, è un’enorme sanguisuga antropomorfa rosa e pelosa. Lei guarda suo marito negli occhi e gli dice: è un maschio. E lui col suo vocione, mi chiama: Hebert!

Era il 2 agosto 1965, in una stanza d’ospedale a Temuco, in Cile, città sull’Oceano Pacifico, capoluogo della Raucania, grande il doppio di Bergamo. Il mio primo gioco: nascere.

Da bambino giocavo per strada, si cominciava tornando da scuola, ricordo la mia infanzia come il periodo forse più bello della mia vita,  le mie due sorelle, una di due anni maggiore, l’altra di due anni minore, mia madre, che era infermiera, e mio padre, uomo pieno di vita, e  di idee, e iniziative, allora tassista e medico laureando, poi specializzato in fisioterapia. Si viveva bene, mi sembrava un mondo felice.

L’epoca dei giochi finisce per sempre un giorno d’estate del 1973, avevo 8 anni, tornavo da scuola con le mie sorelle, a un lampione vediamo un uomo morto, appeso; poi un altro, poi gente che corre in mezzo alla strada, poi lacrimogeni, e sirene, e spari, e in piazza i carri armati. I militari, il golpe, Pinochet, il nostro presidente Salvator Allende ucciso, repressione, coprifuoco, arresti, torture, caos. Soldati che entrano in casa di notte, cercano mio padre, attivista socialista, sulla lista delle persone “sgradite” al regime militare.

Giochiamo a nascondino per giorni e notti intere, mio padre nascosto a Santiago, clandestino nel suo paese, noi bambini affidati ad amici che ci fanno giocare a un nuovo gioco: bisogna entrare nell’ambasciata italiana, una grande villa con il parco circondato da un muro di tre metri, e i militari di ronda che lo pattugliano senza sosta. Io entro col giardiniere, come suo nipotino. Le mie sorelle vengono issate sul muro e prese al volo da quelli già dentro. Del papà e della mamma non sapevamo niente. Siamo stati sei mesi accampati nell’ambasciata italiana, centinaia di persone, tutti con la richiesta di asilo politico, e i loro familiari. Finalmente, scortati dai carabinieri italiani fino sull’aereo dell’Alitalia, lasciamo il nostro Paese. Sull’aereo ritroviamo i nostri genitori.

ll primo gioco in Italia una specie di estorsione minorile: ci avevano sistemati in un grande hotel a Grottaferrata, vicino Roma, noi bambini profughi insieme ai monelli romani ci sdraiavamo sul viale d’ingresso dell’hotel, i turisti per passare dovevano darci il 100 lire. Avevamo un cartello con scritto “siamo pronti a morire per 100 lire”. Siamo rimasti un anno in quel mega hotel, e dopo un po’ i miei hanno suggerito al gestore di fare un menu sudamericano, fagioli, mais, visto che eravamo centinaia di profughi.  Mia madre si è messa ai fornelli, e alla fine i nostri piatti erano richiesti anche dai turisti. Forse è arrivata anche così la cucina tex-mex in Italia. Ma noi bambini col 100 lire andavamo in paese a prenderci il trancio di pizza.

Un anno a rimpiattino su e giù per l’Italia, alcuni mesi a Ventimiglia, poi a Milano, e poi a Gorle, dove staremo stabilmente per 17 anni, mio padre prima facendo qualsiasi lavoro, e poi riuscendo a diventare un professionista della fisioterapia, e dell’agopuntura, anche molto noto. Non lo vedevamo più, era sempre via, prima con la squadra di enduro, poi con la nazionale di sci, la famosa valanga azzurra, poi anche le ragazze, la valanga rosa, e poi l’Atalanta, e tanti calciatori di altre squadre che venivano nel suo ambulatorio.

I grandi campioni sono grandi giocherelloni, io bambino ricordo una foto dove Thoeni e Gros fanno sciare mio padre, che non sapeva sciare, tenendolo tra di loro; oppure il calciatore Mastropasqua che mentre aspettava vinceva con noi ragazzini la scommessa di fare 100 palleggi di testa, lì in sala d’attesa. Poi un campione del mondo di enduro mi regalò un bellissimo Fantic Caballero. Avevo 15 anni, sul mio Caballero partivo alle 6 di mattina, facevo 40 km e poi il bocia in cantiere fino alle 5 di sera, e ritorno. Poi parto militare (e oggi dopo 40 anni che sono in Italia mi hanno tolto la cittadinanza…) e passo un anno a fare ponti radio in alta montagna: la mia mansione è cuoco del distaccamento, imparo a cucinare con quel che c’è, isolati dal resto del mondo.

L’idea nasce per gioco, parlando una sera a tavola, con mia madre, e le mie sorelle. Sono passati dieci anni, ognuno ha il suo lavoro, la sua vita, ma ci manca qualcosa, forse la nostra patria, la nostra infanzia. Io ho quasi trent’anni, uno dei nostri ricordi più belli erano le domeniche a mangiare in un ristorante sulla vetta della montagna sopra Temuco, si chiamava La Cumbre. Apriamo un ristorante sudamericano. Lo chiameremo La Cumbre. Io ai fornelli, aiutato da mia madre, mia sorella in sala, il suo ragazzo dietro il banco del bar. Troviamo un posto a Seriate, sulla strada per Albano. In pochissimo tempo diventa un locale dove si mangia, si balla, si beve. La cucina tex mex, i cocktail pestati, l’esplosione dei balli latini, salsa, merengue, tango, ogni sera una bolgia, gente che veniva da altre città, e alle 5 di mattina, dopo 12 ore di finimondo, a porte chiuse, una grande tavolata con lo staff, baristi, buttafuori, dj, lavapiatti, ballerini…

Il gioco dura poco, un paio d’anni di successo, e un paio d’anni vivacchiando, snaturato dai divieti, le multe, le multe alle auto dei clienti, la siae, gli orari da “coprifuoco” imposti dal comune a causa delle denunce dei residenti per disturbo della quiete…  ma è stata una bella esplosione di vita, non solo per me, per noi, ma per tutti quelli che frequentavano il locale… abbiamo venduto il locale, oggi c’è un ristorante cinese-italiano… come investimento immobiliare, mi sono comprato una casa per sempre, pensando al ritorno, una tomba nel cimitero di Temuco… poi ho dovuto reinventarmi la vita in Italia.

2 >  due possibilità

Le prime slot: prendo in gestione un piccolo bar, ma non funziona, non mi piace, non c’è gioia, solo routine di persone sole che se ne stanno appollaiate al banco a bere, o a giocare alle prime slot machine, senza proferire verbo per interi pomeriggi… dopo un anno lascio il bar, e devo ricominciare da zero. Trovo lavoro nell’edilizia, pavimenti industriali, i primi tempi apprendista, poi tagliatore e caposquadra, anni duri, lavoro pesante. Sposato la mia compagna, diventato padre per la seconda volta.

(prendo in gestione un piccolo bar, già dopo pochi mesi capisco che il guadagno è tutto in quelle due macchinette mangiasoldi, le prime slot machines. Come una droga, se cominci non puoi più smettere, e lo stesso vale per il bar, una volta che le installi, non potrai più toglierle. Quando prendi atto che è quella l’attività redditizia, capisci che tanto vale lasciar perdere il bar, e aprire una sala giochi. In pochi anni è un settore in pieno boom, insieme ai vendioro, e le due attività sono sinergiche, tanti vendono i gioielli di famiglia per mangiare, ma tanti per giocare. Una volta le persone andavano al casinò un paio di volte l’anno. Adesso il casinò è sotto casa, ogni giorno. In pochi anni guadagno tantissimo, tutto regolare, un solo segreto, non giocare mai. Sposato la mia compagna, diventato padre per la seconda volta).

Giocare con i fornelli è la mia vocazione, decido di tornare a lavorare in cucina, mi propongo come aiuto cuoco, trovo subito lavoro, un grande ristorante, 150 coperti, mezzogiorno e sera, cucina bergamasca, imparo i piatti, le procedure, i ritmi, i trucchi, polenta e coniglio, brasato, casoncelli, tagliatelle, risotti, facevo tutto, preparavo tutto, anche i dolci, le torte, un lavoro senza sosta. All’inizio erano 4 soci, dopo un anno restano in 2, poi è rimasta una sola persona. A un certo punto mi chiede: te la senti di prenderti tu la responsabilità della cucina, essere tu il capo cuoco? Si. Nasce un rapporto di fiducia. Mi occupavo dei rifornimenti, pagavo i fornitori, anticipavo io.

(I fornelli la mia passione, la mia vita privata: nel mio loft spendo cifre da capogiro in cibi prelibati, vini da collezione, 10, 20 mila euro in design e tecnologia, e cucino solo per me, o per la gentaglia che ho intorno, ragazze di bella vita, strozzini in abito Gucci, ex calciatori… durante queste serate la noia mi travolge, penso alle serate di un tempo, al locale, gente sana spinta dalla voglia di ballare, incontrare persone e vivere storie d’amore…)

Giocare con le persone. La cosa è cominciata in modo strisciante, qualche giorno di ritardo nell’accredito dello stipendio, e nel rimborso delle spese, poi i giorni diventano settimane, ma non preoccuparti, il lavoro c’è, ma sai com’è, tutto quello che c’è da pagare, e la banca che non dà credito, questione di giorni… intanto anche la mia finanza familiare, basata sul mio stipendio, cominciava a risentirne… ma quello che più mi preoccupava era il comportamento di questa persona, diventata sfuggente, sempre meno presente, mi diceva “torno subito” e stava via tre, quattro ore, tutta la serata di lavoro… oppure rientrava di soppiatto, prendeva l’incasso della serata dalla cassa, e spariva di nuovo, come un ladro…

Con pazienza, aspetti. Sui giornali leggi che c’è la crisi, che ci sono lavoratori di aziende in crisi che non prendono lo stipendio, e intorno a te tutti gli artigiani, i padroncini e i muratori si lamentano che vengono pagati dopo 3 o 6 o anche 12 mesi…

Ma settimana dopo settimana, mese dopo mese, diventava chiaro che non stava più pagando non solo me, ma anche i fornitori. Dove sparivano i soldi?

(Giocare con le persone è questo che fanno i ludopati, prendono in giro tutti, a cominciare da sé stessi, mentono, inventano, si ingegnano solo per avere soldi per giocare, ma non è un gioco, non sono loro a giocare, sono le macchinette a giocare con le persone, come il gatto col topo, le prendono tra le fauci, le scuotono, le rivoltano per bene, poi le abbandonano come stracci. I giocatori sono diversissimi, ci sono i lavoratori, i disoccupati, i pensionati che bruciano soldi guadagnati duramente, onestamente, in un mese di lavoro, in una vita di risparmi, e ci sono quelli che bruciano soldi facili, strozzini, spacciatori, prostitute, figli di papà, e donne sole, soprattutto donne. Quelli che frequentano le mie sale giochi, li disprezzo tutti, li insulto, gli dico di andare a casa, ma più li tratto male, più mi si affezionano… mi vogliono bene perchè gli faccio credito, e appena riescono a mettere le mani su due soldi me li portano per avere la mia riconoscenza, l’unico sentimento umano di cui sono capaci, l’amore che il drogato nutre per lo spacciatore che gli fa credito… gente completamente rovinata, umanamente prima che finanziariamente, vanno alle terapie di gruppo per smettere di giocare, fanno tate belle promesse alla psicologa della mutua, e dopo l’incontro si ritrovano in sala giochi…)

Non è un gioco. Alla fine la verità era a poche centinaia di metri, uno di quei bar con annessa sala slot, era lì che si rintanava per ore, giorni, mesi, era lì che bruciava centinaia, migliaia, decine di migliaia di euro, e mandava in rovina non solo la sua attività, ma il mio lavoro, la mia famiglia… alla fine il ristorante ha chiuso, è stato venduto, io sono rimasto a casa, e non ho ancora visto i miei stipendi… alla fine questa persona è nullatenente…

Ora sto facendo lavori per delle cooperative, lavori sporchi, pulire gli altoforni, pericolosi, precari, lavori due settimane, poi stai a casa, e i soldi sono davvero pochi, non bastano.

Sulle scale mi vergogno a incontrare il padrone di casa, essendo in arretrato con l’affitto. Quando non hai i soldi per pagare quello che devi pagare, è allora che ti senti impotente. Adesso mi è arrivato lo sfratto. L’unica certezza che mi è rimasta sono quei due metri cubi di mia proprietà eterna al cimitero di Temuco.

(Vorrei che le mie attività fossero ostacolate, combattute, debellate dallo stato, così come è stato col ristorante-dance, ma invece non accade, il governo è mio socio, il governo è dalla mia parte, questo, dice mia madre, dovrebbe farmi riflettere: siamo fuggiti da una dittatore, da un sistema che schiaccia le persone e la vita, e 40 anni dopo mi ritrovo dall’altra parte del mondo a far parte di un regime che arricchisce gli “operatori del male”, e manda al macello la povera gente, e non intendo i giocatori, ma i loro familiari, che ne escono distrutti. Però anche io sono riuscito a distruggere la mia famiglia. Mia moglie non mi parla più da anni. I miei figli vanno nelle migliori scuole, ma si vergognano di me. Ho comprato auto, mobili, case, ma l’unico posto, l’unico bene cui penso con desiderio sono quei due metri cubi di terra a mio nome nel cimitero di Temuco.)


c’era una volta l’extracomunitario perfetto

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ForestWhite

c’era una volta l’extracomunitario perfetto, onesto, lavoratore, umile, silenzioso, integerrimo, casa e lavoro, mai una parola di troppo, mai un giorno di malattia, mai un lamento, e con gli occhi dolci, e quel sorriso tipico delle persone buone, pacifiche, quasi evangelico, nonostante la differenza di credo religioso,

questo tipo d’uomo benvoluto da tutti in realtà c’è ancora, e numericamente rappresenta la maggior parte degli extracomunitari: semplicemente non se ne parla, si parla solo di extracomunitari che scavalcano, traversano e crepano affogati o delinquono, spacciano e rubano;

non delle masse di extracomunitari “buoni” che vengono quotidianamente sfruttati, spennati, truffati, presi in giro dalle aziende e dalle istituzioni,

questa gran massa silenziosa di buoni e onesti – proprio come le famose masse contadine di una volta – ha una gran capacità di sopportazione, ma tuttavia non infinita, ciò che tendiamo a dimenticare,

ti riporto frammenti di una storia vera, non unica, ma esemplare di questo lato della situazione extracomunitari di cui non si parla mai, il lato buono.

Frammento 1, il lavoro:

prima al mio paese facevo il muratore, cominciato a fare questo lavoro da quando sono in Italia, dieci anni fa

lavoro nei supermercati, scarico i camion e carico gli scaffali, avanti e indietro dal magazzino, metto i prezzi,  controllo le scadenze, tengo tutto ordinato e sempre assortito,

e cerco di essere invisibile ai clienti, noi dobbiamo essere invisibili,

i primi anni avevo un direttore bergamasco, arrivava alla mattina alle sei insieme a noi, salutava tutti, si toglieva la giacca, diceva cominciamo, era come una gara a chi lavorava di più,

alla sera ero morto, cascavo nel letto direttamente, ma ero contento, anche se a me facevano fare i lavori più pesanti – gli altri movimentavano i bancali col muletto, io col carrello tirato a mano – va bene, ero l’ultimo arrivato, ma ero contento,

dopo qualche anno, ero sempre l’ultimo arrivato, cioè il primo ad arrivare al lavoro e l’ultimo ad andare a casa, ma ancora ero contento, portavo a casa lo stipendio, mi sono sposato, ho avuto tre figli,

poi quattro anni fa c’è stato il passaggio, i nostri supermercati sono stati comprati da una catena più grande, una delle più grandi,

ci hanno promesso che tutti i posti di lavoro sarebbero rimasti, ma dovevamo dimostrare di meritarli, così per alcuni mesi abbiamo lavorato come pazzi, giorno e notte, 10 anche 12 ore al giorno, tutti straordinari non pagati,

a un certo punto ci avevano promesso un premio, quando alla fine abbiamo chiesto quanto fosse il premio, ci hanno detto 150 euro (facendo i conti, veniva 2-3 euro all’ora), va bene, sono passati tre anni, non tre mesi, e il premio non si è ancora visto, anche se ogni fine anno in bacheca scrivono che il prossimo anno verrà distribuito il premio,

mi hanno fatto un discorso, mi hanno detto che io ero uno di quelli che rendeva di più, e così mi tenevano, però a mezza giornata, e con un contratto a tempo, per cominciare,

per tenere il lavoro, ho dovuto dimostrare di rendere il doppio, alla fine mi hanno rinnovato il contratto, ma sempre temporaneo, e poi mi hanno fatto un altro discorso, che per una serie di motivi che convenivano a tutti, dovevano lasciarmi a casa un mese ogni tre, o due ogni sei, mi chiedevano di avere pazienza, questione di un anno al massimo, poi mi avrebbero fatto il contratto fisso, a tempo pieno,

nel frattempo ero diventato in pratica anche il responsabile, ero quello che sapeva tutto di come far funzionare un supermercato, perchè c’era sempre gente nuova, per tre mesi, che non aveva idea  di cosa fare, e io gli facevo da istruttore, e in pratica facevo doppio lavoro, dovevo sistemare anche le corsie dei nuovi, ragazzi spesso italiani, che dopo tre mesi venivano assunti fissi,

il direttore che abbiamo adesso arriva alle nove o alle dieci di mattina, passa in corsia camminando come un manager della pubblicità, parlando al telefono, non saluta nessuno, ogni tanto si ferma a guardare qualcosa, poi riparte, e sparisce fino alla sera, quando fa un altro giro da pubblicità;

ho chiesto come mai assumessero gente senza esperienza mentre io da anni aspetto di essere assunto e mi hanno detto che questi nuovi assunti hanno più titoli di me: sono laureati,

ma la laurea non gli serve proprio a niente nel lavoro, anzi, li fa essere distratti, pigri, la verità è che sono italiani, e non trovano altri lavori,

la realtà è che io per tenermi il lavoro devo fare il doppio del lavoro di un italiano in metà tempo, guadagnando la metà,

alla fine porto a casa 800 euro al mese, 350 l’affitto della casa, restano 450 per le spese, le bollette, le medicine, la scuola per tre bambini, e la moglie che non lavora,

Frammento 2, la casa

41 metri quadrati, il piccolo in camera con noi, le bambine in cucina, e pago 350 euro al mese, e siamo in un comune molto ricco, con grandi aziende multinazionali, e grandi entrate,

ci sono molte case popolari, ma la maggior parte è data a persone che non ne avrebbero il diritto, ho passato i sabati sera a studiare le leggi, a informarmi,

trovato il coraggio sono andato in comune, mi hanno detto che ne avevo diritto, dovevo mettermi in graduatoria, e poi aspettare che aggiornassero la graduatoria, ho chiesto quando, mi hanno detto che la graduatoria era ferma al 2003, ma presto l’avrebbero aggiornata,

intanto andavo a vedere chi viveva in queste case popolari, parlavo con loro, c’era uno che aveva la Porsche, un altro che guadagnava 2000 euro al mese, e la maggior parte non pagava nemmeno l’affitto popolare,

però ecco un miracolo, aggiornano la graduatoria, vado in comune tutto contento, tre figli, la moglie, e solo io che lavoro part time e non sempre,

non ci credo, sono ultimo nella graduatoria, non mi daranno la casa popolare, ma come è possibile chiedo, e mi dicono:

tu non avevi lo sfratto!

certo che no, ho fatto i salti mortali, non ho mangiato per pagare sempre l’affitto, la prima cosa che tolgo dallo stipendio,

tutti gli altri hanno lo sfratto esecutivo, hanno più diritto di te,

allora potevo non pagare l’affitto per due anni, vivere meglio, e adesso avrei la casa popolare,

questo mi ha ucciso, questo mi ha fatto decidere che dobbiamo andare via, io adesso voglio andare via,  pensavo all’Italia come la patria dei miei figli, invece devo cercarne un’altra, emigrare ancora, perchè non posso accettare di vivere in un posto dove ti fanno fare dieci anni di sacrifici per dirti alla fine che sei uno stupido.

Frammento 3, la caritas

mia moglie al quinto mese, e due bambine piccole, alla caritas, dove danno i vestiti usati, le dicono voi aspettate qui, in piedi, non le offrono una sedia, la fanno aspettare fuori in piedi,

di là c’è uno stanzone pieno di vestiti, le portano un sacchetto con dentro tre cose, da prendere senza discutere, cose che non vanno bene, non sono quello di cui c’era bisogno,

tu vai alla caritas perchè hai bisogno di vestiti, non hai bisogno di essere umiliato, ti trattato come uno che è in carcere e gli distribuiscono la razione, perchè non ti lasciano entrare nello stanzone a vedere le cose, scegliere quello che vorresti, e col loro permesso prenderlo?

Invece, vogliono decidere loro che vestiti usati devi mettere,

Parliamo del mangiare, allora, è peggio,

Io tutti i giorni al supermercato devo buttare via quintali di cibo, non c’è niente da fare, e se ti dovessero beccare a portare a casa una scatola di tonno da buttare via, ti lasciano a casa, davvero, è per una questione di principio, dicono,

come dipendenti della grande catena abbiamo altre facilitazioni: uno sconto del 15% sui prodotti non scontati della nostra catena che però non devono essere più del 50% di una spesa che deve essere superiore ai 35€ e solo se facciamo una tessera che costa 30€, giuro,

probabilmente l’ha pensata uno dei laureati, e il direttore l’ha ascoltato,

poi una volta al mese mia moglie, sempre alla caritas, riceve un sacchetto di aiuti alimentari, una spesa del valore di 5€, qualche pacco di pasta, e qualche scatola di fagioli, una volta al mese, io le ho detto di non andarci più, mi resta sullo stomaco, e non c’entra se è scaduta.

Frammento 4, questa storia

beh, scusa se ti ho fatto perdere tempo non so se la mia storia ti può servire per scrivere un articolo, non c’è niente di eccezionale, ma ogni giorno, in ogni cosa, una fatica di vivere…

hai ragione, gli dico, la tua storia non interessa ai mass media, bisognerebbe fare un romanzo, questo sì, un film,

(e penso con dispiacere che in Italia si scrivono e si filmano e si finanziano solo storie auto referenziali, psicologiche, di problemi col padre, o la madre, o storie di genere, ma accademiche, tarantiniane, senz’anima, e ci vorrebbe invece una botta di neo-neorealismo, tornare sulla strada, via dalle scuole di scrittura creativa)

nello specifico, gli dico, penso sia ora di parlare di quello che noi “cittadini italiani” rubiamo ogni giorno da anni all’extracomunitario perfetto, che lavora per tre, ed è pagato la metà,

perchè il vero asino da soma sul quale abbiamo caricato la crisi economica sei tu, l’extracomunitario onesto,

dieci anni fa riuscivi con sacrifici a dare da mangiare ai tuoi bambini, oggi non più: pur lavorando più di allora, guadagni meno, e le spese sono raddoppiate, ma è soprattutto la ruota della burocrazia pubblica ad essere diventata per te uno strumento di tortura, dimmi se sbaglio,

per anni hai dato tutto nel lavoro e speso soldi, sacrifici e tempo per vedere riconosciuto il tuo diritto al lavoro e alla casa, e  ora ti rendi conto di non avere ottenuto niente, e di essere diventato, così facendo, l’asino sulla cui groppa montano tutti, sia sul lavoro che nei rapporti con l’amministrazione pubblica;

se siamo intellettualmente onesti, dobbiamo ammettere che il vero problema d’integrazione in Italia è recepire la mentalità italiana, la furberia italiana, basata sull’ipocrisia cattolica,

per cui ognuno di noi nato in Italia sa benissimo che l’onestà non paga e le regole sono fatte per essere aggirate,

per cui è matematico che l’extracomunitario che vuole integrarsi onestamente e seguendo le regole, cercando di farsi strada con merito, finirà malissimo; mentre l’extracomunitario che vuole integrarsi disonestamente, illegalmente, lavorando nel cosiddetto crimine, e sfruttando la vita privata per farsi strada in società, ha ottime possibilità di riuscirci,

e di poter un giorno mantenere una famiglia e far studiare i figli, o pagarsi il dentista, ed essere rispettato dagli indigeni,

mentre il suo connazionale lavoratore onesto, quello come te, con grande vergogna, chiede aiuto ai parenti in patria, agli anziani genitori, ai fratelli più giovani, prima era lui a mandare le rimesse, e così facendo perde il rispetto di sé, e il suo sentimento è quello di un amante deluso, perchè lui amava l’Italia, voleva diventasse la patria dei suoi figli, e il suo pensiero è quello di emigrare nuovamente, andare in uno di quei paesi civili e freddi, senza sole, né allegria, nel nord europa, dove però i diritti sono reali, e si può vivere di lavoro onesto,

e allora la povera patria in realtà è questa, e lo diceva già Battiato.

Quindi non preoccuparti, gli dico, non mi hai fatto perdere tempo, perchè scriverò questa storia, o ci proverò.

Grazie, mi dice serio, hai capito, è proprio questa la storia da raccontare. Poi ride: così perderai il doppio del tempo!

Sì, ribatto, e in più faremo perdere un po’ di tempo anche a chi la leggerà. E intanto penso: adesso scrivo la sua storia, e la prossima volta che lo vedo gli farò vedere questo post, gli dirò: vedi questi likes, sono persone che hanno letto la tua storia, e sono con te, ti ringraziano per aver raccontato la tua storia. Non perdere il rispetto di te stesso.