Sulla pazzia a Bergamo, dopo aver perso in due mesi i genitori, la figlia, il figlio e la moglie, senti cosa scrive quest’uomo al fratello: per chi lavoro, per chi vivo adesso? Quest’uomo è Donizetti. Dopo vent’anni di lavoro frenetico, a cottimo, di trasferte, di solitudine, quest’uomo ha appena raggiunto tutta la felicità da sempre sognata, il successo, l’agiatezza, la fine dei debiti, l’affetto dei genitori, il grande amore, la gioia della paternità, e in un attimo perde tutto. Ha scritto migliaia di versi tragici, centinaia di arie strazianti, decine di opere liriche ma nel momento in cui si ritrova sul palcoscenico della vita si esprime come un qualsiasi lavoratore bergamasco, con poche semplici parole che pesano come pietre: per chi lavoro, per chi vivo adesso? Non c’è da stupirsi se dopo aver perso tutti, tutti gli affetti, perda anche la testa. Anche un genio come Donizetti può perdere la ragione una volta che gli si è spezzato il cuore. Donizetti evidentemente oltre ad essere un genio è anche un essere umano, cosa che non si può dire di tutti i geni. […] E così un pomeriggio a Parigi comincia letteralmente a “dare i numeri”, nel corso di una sessione di prove, con sbalzi di umore, momenti d’ira, di tetraggine, di aggressività, lui che è sempre stato estremamente affabile e cordiale, con momenti di confusione conditi di sproloqui, frasi insensate e parole balbettate, lui che è sempre stato così lucido e chiaro nel parlare. Lo rinchiudono in manicomio, finché il fratello riesce a riportarlo a Bergamo, a morire in pace, nella sua terra. […] E qui comincia la pazzia di Bergamo. Seguimi. […] Passano cinquant’anni. Finalmente a cinquant’anni dalla morte, e nel centesimo della nascita, il grande maestro viene riconosciuto e onorato dalla sua città, che dunque gli dedica il teatro, non il teatro “gioiello” di Bergamo alta, ma il vecchio teatro popolare di città bassa, già teatro Riccardi, già teatro Bolognesi. Immagina di essere nel 1897, è la serata d’inaugurazione del nuovo Teatro Donizetti, tutta la città è presente, una serata che si preannuncia storica. L’edificio viene impaginato a nuovo, con la facciata completamente rifatta, in modo da renderlo “importante”, come si dice oggi, e immediatamente riconoscibile, con i titoli delle opere più celebri incisi sotto i finestroni. E grandi lavori di decorazione degli interni, il foyer e i palchi arricchiti di stucchi, dorature, nastri, festoni e putti; la sala interamente affrescata e dotata di un grande orologio scenografico incastonato al centro dell’arcoscenico. Un intervento totale, che riguarda non solo l’edificio, ma anche lo spazio intorno. Lo spiazzo adiacente al teatro, da sempre adibito a mercato del bestiame, diventa un luogo romantico, un giardinetto romantico con al centro un laghetto romantico che circonda un isolotto romantico. Sull’isolotto si erge un grande basamento di marmo bianco, un palco-privée monumentale per le grandi statue della musa Melopea, ispiratrice della musica, e del nostro, il maestro Gaetano Donizetti. Ti sto parlando del monumento che io ho guardato tutti i giorni per ore intere, dalla mia panchina, un monumento che al di là di Donizetti e della sua musa rappresenta la situazione nella quale ogni creativo si è trovato e si identifica, un uomo e una donna, o comunque due persone, la cosiddetta coppia creativa. C’è sempre una coppia creativa all’origine di un progetto, di un’impresa. C’è il padre del progetto, solitamente il committente, l’imprenditore, il costruttore, e c’è la madre del progetto, l’architetto, il designer, il creativo. Il seme di uno, la pancia di un altro. C’è la musa che dà l’input, l’ispirazione, la storia, e c’è Donizetti che dà l’output, la musica, l’opera. Ogni volta che guardo questo monumento, questa scena d’intimità e di fecondità, dove lei balla per lui e lui scrive per lei, io penso alla Favorita, al quarto atto della Favorita, scritto dal nostro nel corso di una notte, di getto, per così dire. Ed ora, in questa notte del 1897 che si preannuncia storica, dopo aver ammirato il nuovo monumento e la nuova facciata, entriamo in teatro e prepariamoci a vedere la Favorita, non poteva che essere la Favorita l’opera scelta per la serata di inaugurazione del teatro. Dovrà essere il momento culminante di una serie di celebrazioni di tributo. Prima la traslazione delle spoglie mortali dall’anonima tomba del piccolo cimitero di Valtesse al cenotafio monumentale nella Basilica di Santa Maria Maggiore, nel cuore di Bergamo alta. Poi la festa d’inaugurazione della piazza/giardino con il grande monumento. Ed ora la messa in scena della Favorita. Ci siamo. Il grande Toscanini è stato chiamato a dirigere. Il pubblico è in fremente attesa. Il momento del ritorno, della rivincita. Lo spirito inquieto di Donizetti aleggia in sala. L’ora è giunta. Ma il sipario resta chiuso. Il pubblico inizia a rumoreggiare. Si presenta il direttore del teatro annunciando nervosamente che a causa di un’improvvisa indisposizione del maestro Toscanini l’opera sarà diretta dal maestro Pinco Pallino. La platea, i palchi, i loggioni, tutto il teatro ammutolisce. Sconcerto assoluto. Poi un brusìo crescente. In pochi istanti, come un incendio, la verità corre di bocca in bocca. Toscanini si è rifiutato di dirigere. Per rispetto a Donizetti, che pure non ha mai amato. Per rispetto della musica. Nel corso delle prove Toscanini si è irritato sempre più. Alla fine è esploso e ha dato forfait rigettando il suo appannaggio in faccia agli organizzatori per la “inconcepibile mediocrità” dei cantanti e degli orchestrali ingaggiati nell’occasione. La sala esplode. Subissato di fischi, il direttore si ritira. Dai loggioni volano insulti e oggetti di ogni tipo. Le persone in platea abbandonano i loro posti. La rappresentazione è annullata. Un fallimento imperdonabile. Donizetti si sveglia nella tomba, il suo fantasma si aggira sconsolato, senza pace. Doveva essere una serata di festa, di gioia, ma così non è stato. Un destino beffardo, una maledizione crudele sembra perseguitare Donizetti in questo teatro, in questa sala dove Donizetti da vivo è stato invitato una sola volta, per la messa in scena de “L’esule”. Ti sembra un caso? Questa è la sala e il pubblico che hanno acclamato il suo grande predecessore e denigratore, Vincenzo Bellini, che non perdeva occasione per manifestare il suo disprezzo per Donizetti, invidiandogli il successo internazionale. Questa sala e questo pubblico hanno decretato il trionfo della Norma, che alla Scala era stato un fiasco, e riservato a Bellini, presente in sala, un’ovazione inaudita. Allo stesso modo questa sala e questo pubblico hanno osannato Verdi, l’emergente Verdi, e sancito l’affermazione di Verdi come successore di Donizetti, capace di un più alto livello non solo musicale, ma anche etico-morale, in contrapposizione a Donizetti. Capisci? Questa sala e questo pubblico hanno sempre avuto grande rilevanza nella storia dell’opera lirica, questo è uno dei primi grandi teatri all’italiana, qui hanno allestito le loro prime tutti i grandi maestri, ma non Donizetti, che ha dovuto andare a Napoli, a Parigi per essere acclamato, e alla fine, dei quattro grandi, è stato quello che ha avuto più successo in vita, ma non nella sua città. Donizetti non ha mai avuto il piacere di lanciare una prima di successo nel teatro della sua città, come ad esempio è capitato a Rossini nella sua Pesaro. E quando finalmente hanno deciso di dargli questo tributo, cinquant’anni dopo la morte, hanno chiamato cantanti indegni per la sua Favorita. Non hanno badato a spese nei lavori di facciata, di decorazione, non hanno lesinato in dorature e passamanerie, ma hanno imperdonabilmente trascurato l’aspetto artistico, musicale, la qualità esecutiva della messa in scena. Come trovare pace? E non ti ho detto tutto. Dopo aver perso la testa in vita, Donizetti, in quel terribile 1897, la perde anche da morto. Le sue spoglie mortali sono state traslate in Santa Maria Maggiore, è vero: ma la sua testa, il cranio, è sparito. Qualcuno l’ha rubato, forse pensando di ricavarne il genio, come già successo al divino Mozart. E non è finita. Apri gli occhi, osserva con me, dalla mia panchina, il monumento che immortala Donizetti ispirato dalla musa nell’atto creativo. C’è qualcosa che devi sapere. Lo scultore che l’ha realizzato si chiama Francesco Jerace. Jerace in realtà aveva concepito e realizzato l’opera per la città di Catania, come monumento al catanese Vincenzo Bellini, il grande invidioso, il grande denigratore di Donizetti, ma ad opera finita erano sorti problemi, a Catania non intendevano pagare la cifra richiesta e così Jerace, avendo saputo che a Bergamo si era deciso di celebrare Donizetti, pensò bene di proporlo a Bergamo così com’era, limitandosi a sostituire la testa di Bellini con quella di Donizetti. Povero Gaetano. Sepolto senza la testa, immortalato nel corpo di un altro, e il suo teatro inaugurato tra i fischi e gli insulti. Capisci? Donizetti è partito povero, ed è tornato pazzo. Bergamo è rimasta meschina. Donizetti ha vissuto d’amore, è diventato pazzo per il dolore, è morto per il dolore, questa è la grande verità che la sua città avrebbe dovuto gridare al mondo, e invece Bergamo sottovoce come una serva, come una beghina ripete dicendo e non dicendo, sempre e soltanto alludendo a quella cosa lì: ma quella cosa lì è l’origine del mondo, è la vita! […] Sei mai stato al Donizetti, o in un teatro all’italiana? Hai mai assistito a un’opera lirica? La verità è che a teatro sei scomodo, non si vede molto bene e ti annoi. Non capisci i dialoghi, non riesci a seguire lo sviluppo della vicenda. Troppe voci, troppi gesti, troppi colori, troppa musica, troppo di tutto. Poi l’azione si spegne, l’orchestra tace, le luci si abbassano e sul palco resta una sola figura, immobile, raccolta. La protagonista, la primadonna. Ora canterà un’aria, la vicenda si ferma, è il momento dell’azione interiore, del sentimento. Come da lontano, percepisci una vibrazione. Una nota, un sospiro, un sussurro che diventa una melodia, un canto. Ti entra nella pelle, ti accende, ti scuote. Improvvisamente capisci tutto, senti tutto, tremi, hai le lacrime agli occhi. Sai che è finzione, sono attori, scene, costumi e vicende inverosimili. Ma i sentimenti e le passioni sono veri, ti toccano, è la tua vita che risuona in questo spazio. Ecco la magia dell’opera. […] Uscendo dal teatro Donizetti, ti ritrovi in un grande spazio scenico, il Sentierone, un palcoscenico che in una cornice di portici racchiude la Bergamo Moderna, la city, le banche, il tribunale, i tavolini dei caffè, le vetrine dei negozi. Se alzi gli occhi oltre la scena, vedrai un fondale fantastico, il profilo di Città Alta, con i palazzi, i campanili, le torri che svettano sulle mura venete. Tra i portici-scenografia del Sentierone e le quinte-fondale delle Mura Venete va in scena un altro genere di spettacolo, il reality della vita moderna, il via-vai Bergamo Alta-Bergamo Bassa. Capisci? Quando esci dall’edificio-teatro ti ritrovi nella città-teatro. E rileggi l’identità e la fisionomia urbana: la città stessa è un super-teatro fuori scala, in dimensione urbanistica. Sono passati più di cent’anni, la città alta ha cambiato carattere, la città bassa ha cambiato immagine, l’opera lirica ha cambiato funzione. Potrei raccontarti molte altre storie traumatiche, a proposito di questo teatro e di questo spazio. Non c’è solo lo spirito di Donizetti da placare, sul Sentierone. E penso alla follia di Santa Grata che si aggira con in grembo la testa di Sant’Alessandro grondante sangue, perché è così che nasce il Sentierone. E sento le grida che arrivano da via Torquato Tasso, col furioso che da secoli chiede: perché avete voluto infilare la mia statua sotto il Palazzo delle Ragione, vi sembra spiritoso? E sento la voce del Colleoni, dalla roggia che passa qui sotto, da lui realizzata: io volevo farlo abbattere, ma non ho fatto in tempo. Si, il vecchio Bart voleva far abbattere il Palazzo della Ragione per offrire più visibilità ai suoi Collioni, alla sua cappella e sfondare, dare prospettiva nuova alla piazza, profondità, un’unica piazza dalla Mai alla Mia, dalla biblioteca alla basilica, e invece la piazza è rimasta com’era, asfittica, con la Ragione in mezzo ai Collioni, però è stata ribattezzata, e astutamente, prima si chiamava piazza nuova, dopo è diventata piazza vecchia. Capisci? […] Per chi lavoro, per chi vivo adesso? Da vent’anni passo le notti con gli antichi maestri, palpeggiando vecchi tomi che vanno a pezzi, in polvere. Sulla pazzia a Bergamo sono al settimo volume. Per l’ottava volta nel corso della sua storia il Donizetti sarà rifatto e inaugurato a nuovo. Il genius-loci ha i nervi a fior di pelle.
Sulla pazzia a Bergamo
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