Il libro è “Casino totale”, uno di quei noir che hanno come vero protagonista la città. Marsiglia significa 900mila persone, 1/3 delle quali di origine italiana, e 1/3 di origine maghrebina. Pubblicato nel 1995, fa parte di una trilogia che ha reso Jean Claude Izzo (morto 50enne nel 2000) un autore di culto.
L’incarico riguarda un convegno internazionale che ha per titolo Re-Actor, e riunisce il top management di una holding di aziende italo-franco-tedesche del settore acciaio. Nel concept-intro si legge: “Le aziende della holding sono diverse per storia, nazionalità, tecnologie, dimensioni. In comune hanno l’oggetto di produzione: i profilati d’acciaio.”Il meeting si svolge al Palais du Pharo, imponente edificio neoclassico che domina l’accesso al Fos de Marseille, cioè il porto e il cuore della città.
Fos era l’Eldorado. Di lavoro ce ne sarebbe stato per secoli. Si costruiva un porto che avrebbe accolto enormi petroliere e fabbriche dove fondere tutto l’acciaio d’Europa. Il lavoro era duro, e più arabi c’erano meglio si stava. I vecchi dei cantieri navali si erano fatti riassumere. Italiani, perlopiù sardi, greci, portoghesi, alcuni spagnoli.
Marsiglia ci credeva. Tutte le città limitrofe ci credevano e costruivano case popolari a tutto spiano, scuole, strade per accogliere tutti i lavoratori a cui era stato promesso l’Eldorado. La Francia stessa ci credeva. Al primo lingotto d’acciaio fuso, Fos era già solo un miraggio. L’ultimo grande sogno degli anni Settanta. La più crudele delle delusioni.
Izzo parla degli anni Settanta. La grande crisi petrolifera. Poi vennero i decenni della società post-industriale, dei servizi avanzati e della delocalizzazione. E oggi si parla di Industry 4.0, di reindustrializzazione e automazione. Ma il vero tema guida del convegno è la “diversità” come “reattore” per la costruzione del valore: “Questo meeting ha luogo a Marsiglia per focalizzare la diversità come risorsa e come opportunità. In un mondo che tende all’omogeneità, la diversità è una forza capace di scatenare reazioni, provocare cambiamenti, e favorire l’innovazione di pensiero, di processo e di prodotto”.
A Marsiglia esisteva uno strano francese, una mescolanza di provenzale, italiano, spagnolo e arabo, con una punta di argot e un pizzico di verlan. I ragazzi si capivano alla perfezione con questo linguaggio.
A casa mia si parla napoletano. Da te si parla spagnolo. A scuola impariamo il francese. Ma in fondo cosa siamo? Arabi, aveva riposto Manu. Eravamo scoppiati a ridere.
Ecco la diversità-reactor. Il diverso non come problema, ma come opportunità, scintilla. In realtà, molto dipende dai tempi, dai “mega-trend” socio-economici.
Già a quell’epoca gli arabi non mancavano. Né i neri. Né i vietnamiti. Né gli armeni, i greci, i portoghesi. Ma non c’era problema. Il problema era sorto con la crisi economica. La disoccupazione. Più la disoccupazione aumentava, più si notava che c’erano gli immigrati. E gli arabi sembravano aumentare insieme alla disoccupazione.
Nella sessione plenaria, numeri su numeri che parlano chiaro: gli anni duri della crisi iniziata nel 2009 sono superati. C’è cauto ottimismo, fiducia, desiderio di crescita e d’innovazione.
“Solo tornando a produrre in Europa potremo creare un modello realmente sostenibile, e solo tornando a produrre direttamente e sul nostro territorio beni materiali potremo tornare a produrre valori” (estrema sintesi, mia, della strategia RISE della UE, acronimo di Rinascita Industriale per un’Europa Sostenibile).
La sera mi ritrovo unico uomo tra un centinaio di donne (manager, commerciali e ingegnere europee, americane, asiatiche) al 95% belle o molto belle: è l’incontro sulla diversità di genere, ma anche l’atto costitutivo dell’associazione di categoria delle “donne d’acciaio” (che ha per slogan una citazione da Hemingway: “Di cosa sei fatta tu? Di quello che ami. Più l’acciaio”).
Confinato in un angolo, reporter senza diritto di parola, apprendo che l’industria dell’acciaio, storicamente maschile, nell’immediato futuro aprirà alle donne, a tutti i livelli, anche in fabbrica: con l’automazione all’operaio sarà richiesta meno forza fisica e più capacità gestionale e di controllo, più cervello insomma (hai capito?).
Il secondo giorno sessione motivazionale con i coach, figure che io tendenzialmente aborro, ma forse è un problema di naming, e infatti parlo di tutto con il coach italiano (che viene da Arcore!) e m’innamoro a prima vista e per sempre della coach americana (Oh, Nancy!).
Al tramonto, avendo bisogno della mia droga preferita (la solitudine) vado a fare un giro al vecchio porto. Il bacino ha la forma di una U allungatissima intorno alla quale pulsa la città. Devo camminare mezz’ora per arrivare dall’altra parte. Nel 1905, in euforia-Eiffell, fu costruito un ponte d’acciaio, poi fatto saltare in tempo di guerra.
Il porto fu il terreno di gioco della nostra infanzia. Avevamo imparato a nuotare tra i due forti. La prima volta, Manu e Ugo dovettero venire a ripescarmi. Stavo annegando, senza più fiato. Prima o poi bisognava fare l’andata e ritorno. Per essere uomini. Per far colpo sulle ragazze.
Ogni generazione ha avuto le sue iniziazioni, le prove re-actor d’incontro con l’altro, il diverso, la novità e la paura: da cui viene la capacità di reagire positivamente e di essere attori del cambiamento, e responsabili verso il futuro. Ma oggi in Italia devi farti accompagnare a scuola dalla mamma fino ai 14 anni. E ti perdi l’unica vera scuola: che è quella che si fa nell’andare a scuola.
Marsiglia è stata contagiata dalla coglionaggine parigina. Sogna di essere capitale. Capitale del Sud. Dimenticando che quel che la rendeva una capitale
era il porto. Incrocio di tutte le mescolanze umane. Da secoli.
Oggi questo “incrocio marsigliese”, modello mediterraneo del melting-pot della grande mela, ha una nuova versione, proiettata al futuro: siamo già all’ultimo giorno di Re-Actor e ci fanno salire su dei bus speciali, ci fanno indossare caschetti e tute, e ci portano a visitare il cantiere di ITER, il mega-reattore condiviso di nuova generazione, la centrale energetica del futuro.
Un progetto gigantesco che ha per soci l’Europa, gli Usa, la Cina, la Russia, il Giappone e la Corea. Su questo set da fantascienza che domani fornirà energia all’Europa lavorano uomini e donne dalle fisionomie nordiche e nordafricane, mediterranee e mediorientali.
Questa era la storia di Marsiglia. Un luogo dove chiunque, di qualsiasi colore, poteva scendere da una barca o da un treno, con la valigia in mano, senza un soldo in tasca, e mescolarsi al flusso degli altri. Una città dove, appena posato il piede a terra, quella persona poteva dire: ci sono, è casa mia.
La guida ci spiega che l’enorme area della centrale non è territorio francese, ma zona internazionale. Tocchiamo con mano i cavi superconduttori e altre gioiellerie titaniche prodotte per questo reattore-cattedrale dalle aziende presenti a Re-Actor (e il naming fa il suo giro!).
La notte prima del rientro non dormo, mi agito, sto male, nel mio stomaco c’è una tauromachia tra il pollo al curry del pranzo e l’anatra all’arancia della cena. Prima dell’alba scendo di nuovo al vecchio porto.Un vecchio mi invita ad andare a pesca con lui. Un barbone triste col cane più triste di lui mi chiede un aiuto, e mi spara un sorriso che gli vale 2€. Mi siedo sul molo a prendere il tepore del primo raggio di sole. L’odore del mare – per reazione! – mi ha rimesso in sesto.
Marsiglia non è una città per turisti. Non c’è niente da vedere. La sua bellezza non si fotografa. Si condivide. Qui bisogna schierarsi. Appassionarsi. Solo allora ciò che c’è da vedere si lascia vedere.
Un ubriacone molesto mi offre l’ultimo sorso di birra e un’invettiva che non afferro. Non capisco un cazzo! – gli dico in italiano, e lui mi risponde ridendo: è perché sei italiano!