A cosa serve oggi un giocoliere, a cosa serviva negli anni Trenta, agli albori della società dello spettacolo?
Esattamente 85 anni fa, Orio Vergani scriveva sul Corriere della Sera: in nessun mestiere la scala dei valori è così chiara e nettamente suddivisa come nel mestiere del jongleur. Tenendo due oggetti in aria siete un bambino; tenendone tre siete il papà di quel bambino; a quattro siete già un buon dilettante; a cinque siete bravissimi; a sei siete maestri; a sette siete il grande Kara, il più famoso giocoliere dell’Ottocento. In quanto a tenere in aria otto oggetti contemporaneamente, nessuno ci era mai riuscito.
Nell’inverno del 1928, il grande Enrico Rastelli da Bergamo si presentò al pubblico del Teatro Duse con tre piatti nella mano destra, due nella sinistra, uno in bocca, e due appoggiati alla cintura. Poi, in un attimo, gli otto piatti si staccarono dal suo corpo, salirono, rotearono in aria, composero tra la sua mano e il cielo del palcoscenico un cerchio magico. Per giungere a questo egli si era allenato sei anni, quattromila ore.
Rastelli aveva raggiunto l’irraggiungibile, acclamato, celebrato in tutti i continenti (per vederlo a Berlino, i posti si prenotavano un mese prima), ormai ricco a milioni…
Volendo essere crudeli col mitico Rastelli, oggi possiamo dire che rappresentava la versione da propaganda del lavoro ripetitivo in fabbrica, che poi Charlie Chaplin avrebbe reso in parodia in “tempi moderni”. Il padronato godeva nel vedere l’abilità, la velocità di gesto del Rastelli, figurandosi l’operaio in catena di montaggio.
Oggi, esaurita la mitologia fordista, Rastelli, il grande giocoliere, è un’icona migrante tra opposti estremismi:
da un lato è il brooker finanziario anni ottanta e novanta, l’agente di borsa, che fa miracoli di equilibrismo e scaltrezza nel prendere e mollare i titoli;
dall’altro, più attuale, è il precario stressatissimo tra bollette, partita iva, ritenuta d’acconto, collaborazioni saltuarie, trimestrali, lavori in nero, in grigio… e la speranza di risolvere tutto giocando gli ultimi euro al superenalotto.
Fuor di metafora, oggi un bravo giocoliere può fare teatro di strada e spettacoli per bambini. Eppure quella del giocoliere non è più considerata una professione:
quando il mio amico A., allo sportello dell’anagrafe per rinnovare la carta d’identità, alla domanda “professione?” ha risposto “giocoliere” l’impiegata, dopo aver consultato un elenco dattiloscritto, ha risposto: giocoliere, no. Definizione non ammessa come “professione”.
La ragione? Mistero. Forse una ragione grammaticale, professione giocoliere puzza di ossimoro, se è una professione non è un gioco, e viceversa.
Il mio amico ha protestato citando Rastelli, che come “giocoliere” ai suoi tempi è stato uno dei contribuenti più ricchi di tutta la provincia. Ma l’impiegata è stata inflessibile, gli ha mostrato l’elenco e alla fine il mio amico ha scelto acrobata.
Chi si trovasse nella stessa situazione, non sapendo più che professione indicare (precario? esodato? cassintegrato? disoccupato? artigiano in nero? partita iva morta e sepolta?) e volendo comunque avvicinarsi alla realtà del proprio sbattersi, può dunque far scrivere sul documento d’identità: acrobata.
Probabilmente una delle professioni oggi più diffuse. Chi l’avrebbe detto, vent’anni fa, quando si parlava di nuove professioni, di società dello spettacolo, e tutti si iscrivevano al DAMS?