play this post
circa 30 anni fa, università statale di Milano, esame di filosofia teoretica, il professor Carlo Sini, dopo un’ora serrata su Heidegger, prende il libretto, e vedo che inizia a scrivere 30/trenta, poi si ferma, mi guarda pensieroso e mi chiede: ma infine di che cosa è privata, la vita privata?
Silenzio, suspense, eccitazione di studentesse accaldate e accalcate nell’angusta stanzetta. Di che cosa è privato, il privato?
Della pubblicità, rispondo. Il prof sorride, e aggiunge: cum laude. Momenti di gloria.
Oggi, con i social network, con facebook, quella risposta andrebbe rivista. La vita privata sta diventando sempre più oggetto di pubblicità.
Per esibire autenticità, si finisce fatalmente nell’ipocrisia: ipocrita significa attore, colui che recita una parte, e chi recita pubblicamente sé stesso è a tutti gli effetti un “autentico ipocrita”, che insegue la “pubblicità” come luogo privilegiato di verità.
Viceversa, quando l’ipocrisia era pubblica, dichiarata, riconoscibile, come nel caso dei vecchi regimi mass-mediatici palesemente ipocriti (catto-fascismo, catto-comunismo e catto-capitalismo pre società dello spettacolo) la verità viveva nel privato.
Si osservi oggi questa “pubblicità” totalmente ipocrita dove tutti i plus del prodotto sono perfettamente comunicati pur facendo finta che il prodotto non sia quello che è.
Oggi ci si sforza di esibire ciò che si vorrebbe essere, ieri si nascondeva ciò che si era davvero: e quel tipo di ipocrisia era forse meno impegnativa (in pubblico) e più appagante (in privato).
Ammetterlo non è semplice, perché l’ipocrisia di regime era il nostro nemico pubblico numero uno. Ma il prezzo da pagare per ridurre l’ipocrisia pubblica si è rivelato altissimo: rinunciare all’autenticità del privato.
Oggi probabilmente il prof. Sini chiede agli esaminandi: che cosa viene realmente pubblicato, nella pubblicità?
Facile: la vita privata.