Spalma il vecchio

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palma 3 sorelle

Bergamo città vecchia, grassa, bigotta, e vanitosa: è questo il segno che lascerà, l’effetto che farà sulla percezione della città la mostra su Palma il Vecchio.

Un pittore di regime, ritrattista di vescovi e grasse matrone, in veste patinata, in sacre conversazioni su fondali mitologici.

Cultura? Turismo? Business? Un indotto da 30 milioni di euro? Ci credete?

Se Bergamo vuol fare la capitale della vecchiaia, allora il Palma è il testimonial perfetto.  Volti pasciuti, sguardi spenti, immagine piatta, pomposa. Arte di regime, arte morta, arte già morta allora, e oggi mortalmente morta.

Palma il Vecchio non è un grande maestro. Non è un Bellini, o un Moroni. Non è un genio incompreso, non è un Lotto.  E non è nemmeno un originale, un eclettico. Soprattutto, non è moderno. Non c’è erotismo, non c’è passione, non c’è mistero, non c’è forza, non c’è niente.

Il Palma era già vecchio ai suoi tempi, quando ritraeva con ossequio la classe dirigente, e faceva quello che ancora oggi fanno i fotografi e i figli dei fotografi con gli imprenditori e i figli degli imprenditori sulle copertine di QuoBg o Bg7Up. Ma senza quel briciolo di follia, o quella maestria del colore, che ebbe ad esempio un Fra Galgario.

Per alcuni è un maestro del colore, forse un maestrino, che si è limitato ad applicare, cioè a vendere a committenti laici ed ecclesiastici, la lezione del Bellini (per gli sfondi) e del Lotto (per la composizione). Più un bravo artigiano, un buon imprenditore di se stesso, ligio al potere, che un artista. Uno storico dell’arte lo liquida come “ritrattista esperto in balene morte”.  La “floridezza” spocchiosa delle sue modelle-committenti è effettivamente deprimente, non fanno che dire: guarda quanta ciccia, guarda quanti soldi. Effettivamente le balene del Palma somigliano a diverse tipe odiosamente richhe e grasse che sono in giro ancora oggi, identiche.

Quando ho cominciato a sentir parlare di una mostra su Palma il Vecchio, ho pensato: speriamo una piccola mostra pretesca, per specialisti, fanatici di arte sacra, come quella sul Ceresa. Poi  sentendo parlare di una grande mostra “cultura-turismo” ho cominciato a preoccuparmi. E adesso che vedo il lancio, il sito, l’operazione marketing sono profondamente depresso.

Che senso ha oggi questa sceneggiata, questa imposizione, questa equazione (sbagliata) pittura sacra = alta cultura? Un insulto all’ignoranza dei bergamaschi, del popolo in generale? Come se “il popolo” non sapesse distinguere a prima vista, a istinto la grande arte, che sa parlare a tutti in ogni epoca, dall’arte di facciata, che parla solo ai regnanti, sacra o profana che sia.

Nell’insieme l’operazione, ad onta della quantità di sponsor istituzionali, tecnici, fondazioni, grandi aziende, ha un impatto tra il dilettantesco, il patetico e il ridicolo.

L’immagine guida, il lay out con la griffe anticata “Palma il Vecchio”, è una soluzione grafica trita e ritrita, ormai la trovi anche sui vini di poco prezzo.

I testi del sito istituzionale sono fumosi, allungati, e con qualche scorrettezza grammaticale inaccettabile.  Patetico, commovente lo sforzo di commercianti, artigiani, pasticceri etc di creare dei prodotti, ricette, accessori taggati Palma il Vecchio.

Ammirevole chi si è impegnato e ha fatto ricerche, ma questo sforzo di abbinare “cultura” alla propria attività più o meno commerciale dovrebbe essere permanente, sincero, spontaneo. Credo che nessuno sano di mente  si sarebbe mai sognato di ispirarsi a Palma il Vecchio per alcun motivo. Ma una volta piovuta dall’alto la scelta di puntare sul Palma, ecco che tutti in coro si riempiono la bocca: ah, il Palma, oh, che gran pittore il Palma!

Sempre sul “sito ufficiale”, è specialmente ridicola la sezione “shopping del Palma” (c’è anche la personal shopper dedicata, cioè una guida che ti accompagna a fare lo shopping del Palma con la tua card del Palma il vecchio, compatibile con il palmare nuovo, osiamo sperare) e poi c’è  “il Palma al maglificio Santini” (pretesto/legame col Palma: “magliette coloratissime!”).

E poi c’è, immagino agghiacciante, il cortometraggio d’arte “Alessio Boni e il Palma”  (si intuiscono sgommate con la Ferrari + fighetta nei vicoli di città alta by night… genere horror, porno-horror?).

Infine, o per cominciare, la campagna-locandina di lancio della mostra, un buco della serratura, che ricorda un film di Tinto Brass, genere porno soft, e promette “bellezza da scoprire”! Il fatto è che le “balene” del Palma sono già abbastanza terrificanti così, senza bisogno di scoprirle ulteriormente. I nudi del Palma fanno ribrezzo. Questa è la tragedia.

In realtà, qualsiasi bergamasco con un minimo di buon gusto si vergogna di questa mostra, di come è proposta, del sito che la promuove e delle iniziative di contorno e dessert.

Rifiuto l’immagine di Bergamo città vecchia, grassa e bigotta che sarà il risultato logico di iniziative-autogol come questa mostra.

Negli sterminati magazzini della Carrara si potevano trovare decinaia di artisti più interessanti da ogni punto di vista, più attraenti, stimolanti, anche per i poveri commercianti e gli artigiani costretti a ispirarsi, a eccitarsi creativamente  con Palma il Vecchio, cosa difficilissima in assoluto.

E se proprio si vuole rispolverare il Palma, dare vita a un cadavere, va bene, si può fare, ma occorre più coraggio, più fantasia, anche più ignoranza, se proprio vuoi fare l’evento commerciale,

non so, magari un confronto tra due epoche, una provocazione, una mostra doppia Palma/Botero, Fat food woman in Art Expo, con il Palma in Carrara e Botero in Gamec, due gallerie, due epoche una di fronte all’altra.

Nel comunicato stampa ufficiale si parla di un’iniziativa pensata per i giovani, avvicinarli all’arte: ma dimmi cosa ha da dire ai giovani Palma il Vecchio? State buoni e ingrassate bene. E state lontani dall’arte.

Se guardi bene i ciccioni e le ciccione di Botero ti accorgi che sta prendendo per il culo proprio le madonne e i vescovi di Palma il Vecchio. Vai su google immagini, cerca Botero, cerca Palma. Scopri la bellezza!

Eppure Bergamo come ogni grassa matrona bigotta è in grado nel suo ventre mefitico di coltivare per reazione sacche, acidi, fermenti di autentica produzione culturale, artistica, con dei fuori di testa autoctoni capaci in ogni epoca – anche quella presente! –   di produzioni di livello internazionale, ma chiaramente disprezzati, o ignorati in patria.

Un’altra città, un’altra elite, una vera città d’arte, volendo rilanciarsi a livello d’immagine culturale in occasione expo, invece di tirar fuori (e valorizzare…) i soliti pittori di madonne dalle sagrestie di paese in ossequio alla curia, si impegnerebbe a valorizzare la generazione dei moderni, o addirittura dei contemporanei.

Capaci tutti di fare l’ennesima mostra categoria pittori bergamaschi del Cinquecento. Ma se vuoi fare qualcosa di nuovo, qualcosa di Expo, organizzami una grande mostra dei pittori bergamaschi del secondo Novecento. Esatto, ci vogliono le palle!

Non troppi mesi fa all’inaugurazione della mostra postuma sul Prometti mi è capitato di sentire una signora bg-bene dire: “Che bella mostra, quanta gente, che bel catalogo, come sarebbe stato contento, lui!”

Alludeva all’artista, scomparso da poco, suicida, quasi rinfacciandogli l’atroce scelta.

Mia cara signora xxx, le ho detto, se fosse ancora vivo, stia pur certa che i grandi sponsor non gli avrebbero organizzato questa grande mostra.

A Bergamo non sono mai mancati artisti veri, cultura vera. Ma se non è morta da cinque secoli, e se non è di chiesa, non diventerà mai cultura ufficiale.

Questo accade ancora oggi esattamente come ai tempi della controriforma.  Ah, Il valore delle tradizioni! Non si improvvisano da un giorno all’altro!

 

lux in fabula

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sissi

C’era Enel una Miss Sissy tutta Gewiss

tanto che un Tizio di nome Tolomeo,

(d’indole solitamente Luceplan, tra Parentesi)

improvvisamente Duracell, le disse:

Luxottica, sarò l’Arco della tua Artemide!

Che Superpila vuoi per il tuo lato B.Ticino?

Come Osram? Taccia!  Mi carico a luce solare,

nessuno mi può infilare la spina. Watt via!

E il Turciù fu subito Flos.

(fabula Lux per edit di CTRL magazine n55 dedicato alla luce, in distribuzione in questi giorni; un vecchio metodo di esercitazione per copywriter: scrivere un testo usando solo nomi di prodotti o marche, cioè parole in copyright, qui sotto la lista-vocabolario: 

Enel, ente nazionale energia elettrica; Watt, scienziato, unità di misura elettrica; Gewiss e B.Ticino, marchi interruttori elettrici; Duracell e Superpila, marchi pile elettriche;  Luxottica, marchio ottica; Osram, marchio lampadine; Luceplan, Artemide e Flos: marchi luci; Arco, lampada, design Castiglioni bros 1962, produz, Flos; Parentesi, lampada, design Manzù/Castiglioni 1970, produz. Flos;  Miss Sissy, lampada, design P. Starck 1991, produz. Flos;  Taccia, design Castiglioni bros 1962, produz. Flos; Tizo, lampada, design R.Sapper 1972, produz. Artemide;  Tolomeo, lampada, design Fassina/De Lucchi 1987, produz. Artemide;  Turciù, faro/lampada, design e produz Catellani&Smith

 

non parlatemi di giornalismo

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NNparlatemiGiorn

L’ordine dei giornalisti mi scrive per comunicarmi che dopo aver “effettuato un controllo” si trova “obbligato” a cancellarmi dall’albo professionale, e con la più disonorevole delle motivazioni: “il mancato pagamento” della quota associativa, 100 euro, che “deve essere interpretato come un’evidente manifestazione di cessazione della professione giornalistica e quindi di inattività professionale”.

La verità è che oggi moltissimi giornalisti lavorano con compensi da fame, non arrivano a fine mese, e a fine anno non hanno nemmeno i soldi per pagare la quota. In realtà è l’ordine dei giornalisti quello che ha cessato di svolgere la sua funzione di tutela della professione e dell’etica del giornalismo, e dunque è l’ordine dei giornalisti, e chi lo dirige,  che deve darsi una regolata, o essere cancellato, e non i suoi associati, i giornalisti che continuano a lavorare anche sotto le bombe dell’inps e di equitalia.

Oggi abbiamo una minoranza, una casta di giornalisti con stipendi, contratti e garanzie da top manager, e che per lo più non scrivono niente, ma dirigono,

e una massa di free-lance che “fanno tutto il lavoro”, senza alcuna garanzia, che spesso  lavorano a proprie spese, con la propria macchina, il proprio computer, il proprio telefono, e sono pagati 30€ ad articolo, quando sono pagati.

Bene, se vuoi sapere perchè non ho pagato la quota, guarda il mio reddito, e capirai.

Se invece vuoi controllare davvero la mia attività professionale, ti basta digitare il mio nome in rete per trovare centinaia di miei lavori giornalistici,

controlla bene il mio lavoro, la quantità, qualità e l’efficacia del mio lavoro e poi fatti delle domande.

La credibilità di un giornalista non è nel suo conto corrente, ma nel suo lavoro, nei suoi articoli, reportage, inchieste, denunce.

Io su questo sfido l’ordine a dichiararmi indegno della qualifica di giornalista.

Immagino che una similettera con similfirma “cordiali saluti” (avrei preferito “distinti”) sia arrivata a migliaia di colleghi, con la nota finale “per qualsiasi chiarimento inviare una mail a: informatica@odg.mi.it

Invito tutti i colleghi che si riconoscono nella mia situazione a rispondere a questo indirizzo kafkiano, già per sé rivelatore, copiando questo mio appello,

nel quale chiedo all’ordine di togliere la tessera di giornalista non già a chi non ha i soldi per pagare la quota, ma a tutti quei giornalisti leccapiedi servi del potere che tradiscono l’etica professionale scrivendo scientemente falsità o non scrivendo verità: sono ovunque,  e anche un bambino è in grado di smascherarli.

E contestualmente suggerisco all’ordine di tornare alla realtà, scrivendo lettere d’altro tipo, magari offrendo l’opportunità al “caro collega in difficoltà” di pagare 10€ al mese, on line

(e non pretendendo l’intero importo più mora entro 15 gg da pagarsi su C/C postale)

o meglio ancora istituendo uno speciale albo dei “giornalisti meritevoli e privi di mezzi”, che siano esentati dal pagamento della quota, dimostrando  la qualità e la quantità del lavoro giornalistico svolto, con redditi sotto i 10.000 o 15.000 euro,

e queste quote siano invece versate dai più fortunati con redditi sopra i 100.000 euro, i quali potrebbero senza sforzo e anzi con piacere pagare una quota di 1000 euro l’anno, anziché 100, e così provvedere a 10 “meritevoli”.

A questo dovrebbe servire un vero organismo di categoria, a tutelare la professione, con i più elementari meccanismi di mutuo soccorso.

E poi, invece di scrivere a me, a noi giornalisti, una lettera chiusa, da recupero crediti, scrivere una vera lettera aperta a tutti i giornali: “il fatto che in questo paese i veri giornalisti nonostante lavorino giorno e notte  abbiano redditi  da fame, che non gli permettono di arrivare a fine mese,  è un’evidente manifestazione della crisi della professione giornalistica…”

E a quel punto l’ordine dovrebbe porsi anche delle domande sul proprio senso.

Sappiamo tutti cosa è successo in Italia negli ultimi 30 anni, e quale sia la causa madre dell’asservimento mediatico.

Il punto chiave è il rapporto tra pubblicità e lettori. Una testata che sta in piedi grazie ai lettori (copie vendute, abbonamenti) risponde ai lettori. Una testata  che sta in piedi (4/5 degli introiti, o anche più) grazie agli inserzionisti, risponde agli inserzionisti. Molto semplicemente, se tu vivi con la pubblicità di Armani, della Fiat e del Comune, difficilmente potrai denunciare le malefatte di Armani, della Fiat e del Comune, o anche solo informare in modo imparziale.

La deriva, la sclerosi verso l’irregimentazione viene da qui, e parte dall’alto.

I grandi sponsor non sostengono le testate più vivaci, indipendenti e capaci, ma le più affidabili e istituzionali, cioè le grandi testate. Allo stesso modo le grandi testate non chiamano i writer più acuti, ma i più malleabili. E possibilmente parenti di qualcuno, unico vero requisito di carriera in questo come in ogni settore chiave.

Una casta di pasciuti yesmen normalizzati, contornati da figli di papà e signorine di buona famiglia che fanno i giornalisti per motivi di status, con verve e intelligenza statuaria.

In questo contesto di asservimento, se c’è un soggetto collettivo che può contribuire al risveglio dell’informazione, non è certo l’elite dei grandi media, ma il popolo degli indipendenti, dei blogger, delle migliaia di professionisti che ogni giorno sputano lacrime e sangue per riuscire a far passare barlumi di verità nella marmellata di regime.

Togliere il tesserino di giornalista a chi è in trincea, significa togliergli la baionetta, e perdere la guerra.

(imago: redazione Calepio Press)