47 tentativi fallimentari d’impresa culturale – 10

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10 brand writing

lo scrittore da immagine coordinata

Oggi Boggi è un marchio moda molto conosciuto, una catena con negozi in tutta Italia. Quando ho cominciato a lavorare per Boggi l’unica cosa che esisteva era il signor Boggi con i suoi 7-8 negozi a Milano, tutti diversi, con nomi diversi, niente marchio, niente immagine coordinata.

La creazione del brand, di fatto, è stata opera dell’arch. Baroli, che ha creato il logo, i colori, il lay out vetrine, le etichette e la comunicazione. Io scrivevo tutto il necessario, dagli head line (Boggi/tempi di contenuti e Boggi ha solo clienti fedeli a sé stessi) a tutto il corollario di etichette, inviti, cartelle stampa, brevi storie del cachemire, della camicia, del taglio sartoriale, piccoli librini dati in omaggio nei negozi. Un lavoro di anni, la costruzione di un’identità di marca.

Poi un bel giorno Boggi ha venduto il giocattolo a una finanziaria, si è preso i suoi milioni di euro, e la nuova proprietà ha affidato la comunicazione alla grande agenzia.

Crisi.

L’esperienza a fianco di Luigi Baroli in realtà è stata preziosissima. Tutta quell’attenzione maniacale (che io allora non capivo) all’integrazione prodotto/vetrina/comunicazione in quegli anni Novanta era l’arma totale per dare visibilità e valore al marchio, erano gli anni della fidelizzazione, della fedeltà di marca, tutte cose che derivano dal saper proporre e rinnovare un universo coerente, un linguaggio riconoscibile, una storia credibile.

Si tratta di imparare a calibrare un certo tono, uno stile di comunicazione, come se l’azienda fosse una persona, con un suo lessico, una sua mentalità.

Lo scrittore da immagine coordinata, mi diceva un vecchio art, non deve essere un dio, ma bensì il suo assistente, cioè quello che, dopo che dio ha mosso l’indice e promanato il verbo, lavora duro tutta la settimana per completare la creazione di ogni ordine e specie vivente.

In un certo senso occorre saper fare il contrario del gesto creativo istintivo, che vuole inventare, colpire, stupire, no, qui bisogna dare continuità e coerenza e sicurezze e conferme al messaggio originario, il verbo aziendale, fisso come il sole, e solitamente banale.

Un lavoro da svolgere in simbiosi con l’art o l’arch che crea l’immagine di marca, e tutto il corredo infinito che va dal biglietto da visita al lay-out dei negozi passando per le insegne, le etichette, il packaging, le campagne pubblicitarie, le brochure, i cataloghi, tutta roba che oggi viene fatta per il sito web, a volte dimenticandosi una delle regole basi (il mezzo è il messaggio).

Di fatto poi nelle richieste quotidiane ti ritrovi a misurarti con crisi di rigetto, impieghi mezza giornata a scrivere quelle maledette dodici righe dove ancora una volta devi saper dire tutto sull’azienda e sulla qualità del prodotto specifico.

Crisi.

Ad ogni modo, se entri nel tunnel dell’immagine coordinata  e dell’identità di marca, ci puoi portare dentro chi vuoi, è un discorso che dà sicurezza, è come spiegare a Hitler che per invadere la Polonia occorrono divisioni corazzate, copertura aerea, e fanteria d’assalto, nell’ordine. Ti seguono subito.

In realtà, la vera missione del creativo, dopo aver convinto il cliente a dotarsi di un’immagine positiva, è quella di convincerlo ad avere non solo un’immagine, ma una sostanza, un’identità positiva, e dunque a migliorare realmente il prodotto, il servizio, indirizzare la filosofia aziendale nell’ottica della sostenibilità sociale/ambientale e della consapevolezza del consumatore.

Cominci a entrare nella psiche di un’azienda scrivendo le istruzioni tecniche o le didascalie del catalogo, ma devi avere già in mente la visione strategica complessiva.

Con la rete web e le opportunità dell’e.commerce, figura ruolo e prospettive del brand writer entrano in una nuova direzione.

La tendenza è in certo modo sovversiva, il creativo diventa egli stesso negozio, può scegliere i prodotti da comunicare e vendere, gestire in proprio tutto il web-marketing, accorciare e riunire la filiera della costruzione del valore culturale aggiunto e della distribuzione commerciale.

I brand writer di domani saranno dei blogger dotati di capacità di persuasione che si muoveranno su diverse piattaforme di e.commerce come ambulanti nei mercatini, ripristinando in modalità web la figura del commerciante-persuasore capace di raccontare il prodotto, un prodotto che sperimenta egli stesso, figura ormai scomparsa nella grande distribuzione dove tutto è affidato all’immagine coordinata e il commesso-venditore ha solo una funzione di servizio.

Il brand writer del web e dell’e.commerce, più che scimmiottare i format dell’epoca cartacea, dovrà agire nella costruzione della community-clienti, stimolando risposte e partecipazione così da rendere partecipe il target stesso alla costruzione della mitologia di marca.

Dunque dovrà creare delle occasioni di comunicazione, offrire occasioni di visibilità, gallery fotografiche, video, profili facebook e/o twitter o altro a seconda del target e del prodotto, e invece di imporre e inviare messaggi a senso unico, dovrà inventarsi dei giochini, degli scherzetti, con meccanismi virali, per solleticare risposte e contributi.

Alla fine fai sempre una forma di letteratura, e ancora una volta dimostri il teorema per cui con la letteratura giusta si può vendere facilmente di tutto.

Eccetto la letteratura, chiaramente.

Crisi.