ecco una tipica pubblicità apparentemente innocua, che certo non pone alcun problema al garante che vigila sulle pubblicità ingannevoli:
è ritenuta ingannevole una pancera dimagrante che promette di togliere 5 centimetri alla mia pancia, qualora si possa dimostrare che me ne toglie solo 3 o 4,
non è ingannevole un aeroporto che con disinvoltura promette “la libertà” al popolo, nella certezza, tipica di tutti i regimi, che “la libertà” sia un bene astratto, e dunque non misurabile,
in realtà, lo slogan aeroporto-libertà, è cento volte più ingannevole delle pancere dimagranti, perché dice il falso su qualcosa che è cento, mille volte più importante della mia pancia,
che l’aeroporto-libertà sia una falsa promessa lo capiscono tutti, ma non importa a nessuno, tranne agli uomini liberi, che si rivoltano nella tomba,
e sono una folla pronta a testimoniare: la libertà non è un volo a basso costo, dicono, la libertà è un’altra cosa, la libertà è volare alto, e a carissimo prezzo,
mi limito a citarne due indiscutibilmente autorevoli:
la libertà non è il volo di un moscone, libertà è partecipazione (Gaber)
libertà va cercando, ch’è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta (Dante)
a questo punto il garante, e il lettore, sorriderà: è vero, la libertà è qualcosa di più di un aeroporto, ma non per questo possiamo vietare all’aeroporto di vantare la propria libertà, dal momento che c’è… la libertà d’espressione!
e qui casca l’asino, e anche il jumbo, perchè la libertà d’espressione oggi è questo:
se un’azienda, come ad esempio la Sacbo-aeroporto, pagando sia chi scrive che chi pubblica, utilizza in maniera “falsa e ingannevole” per motivi volgarmente commerciali parole sacre, di proprietà pubblica, come “libertà”, non compie alcun tipo di reato, non danneggia nessuno, non deve risarcire nessuno;
invece io, che a titolo gratuito e personale, senza altra finalità che quella di esprimere liberamente un’opinione su una questione d’interesse pubblico, scrivo che “Sacbo dice il falso, e fa pubblicità ingannevole”
vengo facilmente denunciato per diffamazione (specie se sono un giornalista!) e facilmente condannato a risarcire il “danno d’immagine” (specie se il loro avvocato vale – e costa! – 100 volte il mio);
è così che funziona, e intanto il vero danno d’immagine, il buco nero prodotto nell’immaginario, nella coscienza collettiva da queste “pubblicità facili”, non viene mai riconosciuto, né risarcito.