ma quale expo

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A pagina 1 del faldone-masterplan presentato 3 anni fa dall’Italia al BIE (Bureau International d’Exposition) per candidarsi a ospitare Expo 2015 è scritto:

L’obiettivo principale di Expo Milano 2015 è dimostrare che è possibile – oggi, in questo mondo – garantire la sicurezza e la qualità alimentare e lo sviluppo sostenibile per l’intera umanità.

Ma se oggi vai sul sito di Expo quello che trovi in home page è:

Un’occasione unica per il tuo business! Partecipa alle gare, diventa Partner, Sponsor…

Le news sono: l’Indonesia ha firmato il contratto! Il sultanato di Brunei ha firmato il contratto per avere un padiglione in esclusiva!

Nessuna traccia dell’obiettivo principale, nutrire il pianeta, e nessuna traccia della guerra culturale e quindi economica che quell’obiettivo, se preso sul serio, dovrebbe scatenare, e cioè lo scontro tra culture, tra tecnologie: da una parte la transgenetica e le multinazionali, che promettono polpette facili, dall’altra gli eco-equo, che promettono un mondo sostenibile, naturale, solidale.

Sembra quasi che il “big problem” sia stato superato dalla “big solution”: il made in Italy!

La soluzione italiana come sempre è geniale, e trasforma il peggio del peggio nel meglio del meglio: con un tocco di magia, il food industriale sarà spacciato per naturale, buono, divino grazie alla firma “made in Italy”.

Nei fatti: i falchi della gdo, il falchi della grande industria, il falchi del sistema media/pubblicità, i falchi-burocrati di stato e di categoria, tutti questi falchi si sono fatti un sol boccone delle colombe del bio, del sostenibile, del km0, della democrazia alimentare,

e a questo punto cercano di mettere in scena un sistema omogeneo e virtuoso, come un super spot, come una riproposizione sistemica della mitologia barilla del mulino bianco,

che è la tipica operazione made in italy di valore aggiunto,

e di fatto una mistificazione integrale, per cui il biscotto ti viene proposto come fosse quello della nonna, cotto nel camino, con farina del proprio sacco, del proprio campo, mentre sappiamo benissimo che è prodotto in fabbriche dislocate ovunque da macchinari infernali manovrati da computer e alimentati automaticamente con ingredienti provenienti da tutto il mondo in container caricati su navi diesel e poi caricati su tir diesel e quindi scaricati in silos di plastica e poi di nuovo su tir diesel e infine, dopo essere stati confezionati sottovuoto, di nuovo su tir diesel fino al supermercato dove tu li compri, perchè ti ricordano tua nonna.

Questo è giocare sporco.

Mi viene da ridere quando qualcuno strilla alla pubblicità ingannevole. La pubblicità è ingannevole per definizione. Più è corretta, più è ingannevole.

Expo oggi svela palesemente le reali intenzioni e aspettative: rilancio del made in italy, puntando sul food. Una cosa che deve fare paura.

Nel settore moda, il made in Italy in 30 anni ha perfezionato la morte del settore tessile, della produzione artigiana, delle capacità sartoriali. Prima del made in italy, avevamo un esercito di sartine. Dopo il made in Italy, ci ritroviamo con un esercito di pr (un esercito sconfitto, tra l’altro).

Lo stesso sta per avvenire nel food. Prima dei dop, prima della gdo, prima del packaging, quando tutto era sfuso e non esistevano né marchi né marche, avevamo un esercito di panettieri, pasticceri, eccetera eccetera: oggi abbiamo solo un esercito di aspiranti master chef. Le zone coltivate si sono ridotte, non siamo nemmeno autosufficienti: e annunciamo di voler nutrire il pianeta!

In realtà, non ci ha mai creduto nessuno, a quella dichiarazione d’intenti.

Questo abbassamento dell’afflato, della mission, dal poetico “nutrire il mondo” al più prosaico “conquistare il mercato”, lo vedi soprattutto nella vicenda expo-bergamo,

la pre-annunciata expo-tech da tenersi al KmRosso, iniziativa in questi giorni messa in forse dalla mancanza di fondi, e con ogni probabilità destinata a non svolgersi.

L’expo-Bg al KmRosso avrebbe come tema le tecnologie industriali, macchine per la conservazione, il congelamento, la pressurizzazione dei prodotti alimentari, e il loro confezionamento in polistirolo, cellophane, plastica.

Tutte queste tecnologie sono pensate esclusivamente in una logica di profitto da grande distribuzione: proporle in un ambito “expo-nutrire il pianeta” significherebbe svelare la mistificazione in corso,

difficile improvvisare questa favola per cui la tecnologia dell’industria alimentare dei paesi sviluppati potrebbe risolvere il problema della fame dei paesi poveri, molto più facilmente potrebbe invece diffondersi la verità, e cioè che l’industria alimentare di fatto affama i paesi poveri a partire dalla base di ogni tecnologia, le sementi, la terra e l’acqua.

Questo è il messaggio, il dibattito che le colombe dovrebbero diffondere all’expo, ma il problema delle colombe, tragicamente, è nel loro essere colombe (vuoi fare la guerra alle multinazionali, e sei pacifista?!)

Mentre noi non abbiamo il coraggio di combattere questa guerra di idee, nel sud del mondo scoppiano guerre di ogni tipo.

Insieme al dossier-masterplan Expo2015, 3 anni fa, ti presentavano il dossier sulla fame nel mondo, con la lista dei 100 paesi in guerra con il problema della fame (che sono tutti paesi dell’africa, dell’asia o del sud america):

al n.100 il paese che se la passa peggio, il Congo,

ma la cosa inquietante è leggere oggi il nome del paese al n.1 del ranking, l’unico ad aver risolto il problema della fame: la Siria.