In fondo al rettilineo, prima della galleria, c’era una delle mie curve preferite. Conoscevo bene quella curva, a medio raggio, stringente, cieca, a destra, con la parete rocciosa da una parte e lo strapiombo sulle acque del Brembo river dall’altra. Una maledetta curva assassina, disassata, pericolosa, spesso scivolosa, con buche ai margini e brecciolino in carreggiata. Era una curva da prendere a 90-95 km/h in condizioni ideali.
Diedi un occhio rapido al tachimetro e realizzai che ci stavo volando dentro a 140 km/h pieni. Quando sei abituato a spremere al massimo i 30 cavalli scarsi del tuo 125, e ti dimentichi di essere su una belva da 110 cavalli, succedono cose come queste: ti rendi conto troppo tardi che stai entrando in curva troppo veloce per le leggi della fisica.
Mollai di colpo il gas e mi avvinghiai ai freni scalando a martello una marcia dietro l’altra. Un attimo prima ero un genio che voleva migliorare la staccata a gas spalancato. Adesso ero un idiota nel panico disperatamente appeso ai freni.
Le forcelle cominciarono a sbacchettare come martelli pneumatici. Cercai di esercitare una forza mostruosa sul manubrio, col risultato che già ai 60 metri i due dischi anteriori – due poveri Brembo di serie da 260 mm – mandavano bagliori arroventati. Stavano collassando. Ma soprattutto i 110 cavalli che avevo tra le gambe, pazzi di dolore per le mie violente scalate, ululavano come mandrie al macello, e parevano in procinto di sbiellare i due cilindri nei quali erano imbrigliati. Già mi immaginavo il carter sinistro esplodermi sulla caviglia, tra le altre cose.
Ad ogni modo, in questa situazione, e senza mollare i freni, buttai giù la moto in piega estrema, così, di colpo, con grande sangue freddo e anche con un certo sfoggio di tecnica speedway. La ruota posteriore cominciò a slittare e a saltellare come un bob su una pista con le gobbe. Tutto il retrotreno stava partendo in sovrasterzo: avrei dovuto controsterzare di avantreno per stare in carreggiata, ma avrei così innescato il noto effetto crazy horse, quando la moto si imbizzarrisce e ti disarciona esattamente come farebbe uno stallone selvaggio.
Ero nell’istante prima della caduta, quando hai la massima tensione e la piena consapevolezza, frutto d’esperienze già avute, che una sola impercettibile pressione sbagliata sul freno o sul gas significa essere catapultati in aria come il pilota di un caccia quando preme l’eject.
Fu proprio in quell’istante, mentre stavo per cadere, che, alzando gli occhi alla strada, dall’altra parte della carreggiata mi vidi apparire frontalmente e in tutto il suo splendore non già la Madonna, e nemmeno Atalanta, bensì la nota e massiccia sagoma di un furgone combinato modello magut, alla tipica andatura allegra noter gà mia tép de pèrd, con tre hulk in canottiera piantati nella cabina e i manici dei badili sporgenti mezzo metro fuori dal cassone, dalla mia parte.
Che cosa ci faceva un furgone magut di domenica mattina all’alba, in assetto da cantiere? Evidentemente stavano costruendo 18 villette a schiera nel fine settimana, ma sarebbero arrivati in ritardo quella domenica mattina, perché un sedicenne in moto si sarebbe spatarrato sul muso del loro Transit.
Potevo provare a evitare il frontale col Transit dei magut, con probabilità quasi certa di farmi schiacciare sulla roccia dalla mia stessa moto o volare insieme a lei giù dallo strapiombo. Niente poteva salvarmi. Era del tutto impossibile stare nella curva ed evitare il furgone. Era arrivato il momento cruciale.
In un istante ultrarapido nella mia mente si affacciò l’immagine del nonno, nella sua tipica posa da contro-predicatore, con la sua tipica espressione da vecchio gaudente monarcoide. Fin da quando ero bambino, il nonno mi aveva ripetuto: «Nessuna grande impresa è impossibile quando è animata da alti ideali». Me lo diceva quando avevo cinque anni, e a cinque minuti dalla fine perdevamo in casa con la Fidelis Andria, e me l’aveva ripetuto di recente, quando gli avevo chiesto se mai l’Atalanta avrebbe vinto la Champions League. Nessuna grande impresa è impossibile: come un mantra orientale, questa frase si era instillata nel mio cervello, ed era diventata un comandamento morale, un sentimento, un istinto, uno scatto in avanti. Fu questo che mi accese il cervello mentre stavo per ammazzarmi: la grande impresa.
Non c’era tempo per ragionare, né spazio per frenare; restava solo l’incoscienza della grande impresa. Così, davanti al muso del Transit dei magut, già quasi in fase di caduta per i fatti miei, lasciai per un istante che la moto seguisse la sua deriva, il suo istinto ad allargare, e poi iniziai a riprenderla in sbandata controllata, o derapagè. Ovviamente questa non era la manovra adatta a evitare il furgone. Le nostre traiettorie si sarebbero incontrate a centro curva, da manuale del frontale mortale. E qui ringrazio il Dio dei Magut, perché il driver in canotta comprese al volo la situazione, a invece di cercare di frenare o schivarmi – cosa che non avrebbe comunque impedito l’impatto – sterzò deciso all’interno, sicché io gli sfilai all’esterno, cioè dall’altra parte della carreggiata, all’inglese: manovra da urlo e oltre ogni codice, una cosa da tunnel dell’orrore, con il muso del furgone che ti si fionda davanti agli occhi e schizza via come un fotogramma.
Ero miracolosamente riuscito a infilarmi tra il furgone e il gard rail, sul lato strapiombo. Ora mi restava il secondo problema, cioè stare nella curva e non volare fuori per la tangente e giù dal dirupo roccioso verso le pozze verdi di acqua gelida ottanta metri più in basso. E qui ringrazio il Dio della Playstation che mi ha insegnato la guida di sponda, usando il gard rail come fosse il muretto-guida di una pista da micromachines. Dunque con la tranquillità dell’adolescente alla consolle presi a saggiare e strisciare il gard rail facendo skating col ginocchio sinistro – protetto dalle saponette para-rotul rinforzate con inserti di borchie metalliche – mentre la Yama riprendeva quel minimo di aderenza che mi diede la possibilità, subito sfruttata, di controsterzare, dare gas, e uscire a cannone dalla maledetta curva giusto mezzo metro prima del diabolico muretto, perché anche quando non ci sono più altri pericoli, anche quando hai evitato il frontale e lo strapiombo, c’è sempre un diabolico muretto killer ai lati della strada.
Nel breve rettilineo dopo la curva, a sessanta all’ora, le gambe mi tremavano come lenzuola stese al vento. La strada era sgombra e la moto aveva ripreso il suo assetto normale. Mi fermai sul ciglio della strada. Avevo distrutto la parte sinistra della tuta-salopette in pelle vintage, la saponetta era completamente abrasa, lo scarico ammaccato e il convogliatore d’aria in carbonio sfasciato.
Niente di grave sul lato danni fisici e materiali, ma uno sfacelo sul versante danni psichici. La mia carriera di centauro era ad un bivio. Avevo compiuto la grande impresa numero uno. Avevo portato in salvo i ciàp. Ero stato grande, e il nonno mi aveva come sempre ispirato, ma la mia manovra da urlo non sarebbe servita a niente se non fossi stato aiutato dall’alto. La Dea mi aveva salvato, era chiaro, proprio come nell’Iliade e nell’Odissea, quando le Dee si innamoravano di un guerriero mortale, e deviavano le frecce avverse.
Capivo che potevo essere morto, o restare traumatizzato a vita. Potevo non salir mai più su una moto o risalirci subito. Pensai di nuovo alla Dea, alla mia Dea personale che stavo per rivedere.
L’ultima volta che ci eravamo visti, quasi tre mesi prima, era salita dietro di me sul Caballero Competizione. Sull’onda di questo flashback la mia naturale idiozia di sedicenne ebbe il sopravvento: infilai la testa nel casco, balzai in sella come Zorro e con gesto sincronizzato avviai il motore, spalancai il gas e mollai la frizione.
La ruota posteriore, dopo aver frullato a vuoto come un frullatore senza frutta, fece presa e sparò in avanti me e la Yama come un’unica bestia che ruggisce e balza in avanti protesa e affamata. Divorai quel che restava del rettilineo in accelerazione rabbiosa con impennata continua e innesti al volo di prima, seconda e terza marcia. In fin di rettilineo planai dolcemente in carreggiata e lo stomaco, che era giunto in gola, ritornò al suo posto. Quindi mi alzai in piedi sulle pedane con l’idea di sgranchirmi, ruttare e scoreggiare. Ma sul bordo della strada vidi due ragazzini che mi osservavano a bocca aperta. Cosa ci facevano due ragazzini, uno bianco e uno nero, all’alba sui bordi della strada? Allora feci loro un cenno di saluto papale, con pollice, indice e medio in outsourcing, poi diedi gas stando in piedi sulle pedane per un’ultima penna trionfale prima di uscire dalla loro visuale.
(tratto da “Rapina al casinò”, by Leone Belotti 1993, classificatosi secondo al Premio Tedeschi Mondadori per il miglior giallo dell’anno. Vincitore quell’anno risultò Carlo Lucarelli. L’anno successivo, di nuovo arrivai secondo. Non contento, partecipai una terza volta. Arrivai secondo, e smisi di scrivere gialli d’azione.
Domenica scorsa, dopo aver perorato su questo blog l’idea di chiudere ai motori le Mura di Bergamo, con perfetta coerenza italiana, sono andato a farmi il mio giretto in moto sulle Mura, con la mia vecchia Yamati, ibrido telaio tipo Ducati e motore Yamaha TDM, quasi 20 anni su strada e 100.000 chilometri senza un problema.
Vedo questo fotografo con grande zoom che dal bordo strada mentre passo mi fotografa a ripetizione. Quando torno indietro lo rivedo, mi fermo, è giovane, mi dice di essere russo, si chiama Dimitri, indossa una maglietta Ducati, sta girando il mondo in compagnia di una bellissima ragazza, seguendo un progetto preciso, fotografare motociclisti di ogni paese.
Per questa sua capacità e voglia di mettere insieme le sue passioni, la fotografia e la moto (e la ragazza…) mi ricorda me alla sua età, quando scrivevo romanzi molto veloci, in venti giorni, con protagoniste le motociclette.
Ci scambiamo la mail, gli chiedo di mandarmi qualche scatto. Spesso queste promesse restano tali. Invece stamattina trovo le foto che mi ha fatto. Grazie Dimitri, se nel tuo giro del mondo ripassi da Bergamo, casa mia è casa tua!)
Photo by Dimitri Moseychuk; Instagram: @seitengewehr_98k – Facebook: https://www.facebook.com/dmitry.moseychuk.9