La doppia velocità delle ultime giornate d’agosto

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DuplicdFilare

Risalendo in mountain bike il Serio da Ghisalba a Grassobbio per la sponda occidentale (molto più accidentata e adventures della ciclabile tracciata lungo l’orientale) da qualche parte nei dintorni della Basella di Urgnano infili questo duplice filare con tappeto di foglie e sei in mood rinascimentale: è un attimo convincersi di essere Bartolomeo Colleoni che rientra nei territori della Serenissima dopo aver sbaragliato gli imperiali.

Pochi chilometri prima eri in un altro mondo, guardavi il Serio ma vedevi lo Zambesi e la savana, e ti domandavi dove fossero finiti gli elefanti. Certamente più a sud.

Proseguendo ti ritrovi nella foresta pluviale, senti sparare molto forte e molto vicino. Ti hanno detto che lì c’è il tiro al piattello, ma tu hai paura di essere il soldato Ryan circondato dai vietcong, e continui a pedalare più forte che puoi.

Improvvisamente  sbuchi all’aperto, davanti a una recinzione di filo spinato. L’enorme uccello d’acciaio appare dal nulla, con un boato, e pare volerti schiacciare. Poi leggi le insegne sulla carlinga, e sorridi: è Ryanair che viene a salvarti, soldato.

Osservi l’aereo atterrare, e preghi per quei poveri turisti che per viaggiare sono costretti a fare migliaia di chilometri per mare, per aria e per terra.

In lontananza un elicottero vola basso davanti al sole al tramonto sulla pista BGY: esci da Apocalipse Now, superi il canile, rientri sull’asfalto urbano e in pochi minuti sei a casa.

Stai sveglio la notte, leggi un giallo dietro l’altro, dormi la mattina. Nel primo pomeriggio fai finta di lavorare, provi a lavorare, ma presto rinunci. Ti godi l’accidia e la noia, finché senti un richiamo indefinito ad  uscire.

Prendi la bici, vai a zonzo. Parli senza motivo con persone che non conosci, osservi cose che non avevi mai notato, cerchi un varco nelle strade a fondo chiuso, e ti capitano cose curiose.

Le stesse cose che facevi d’estate a dodici anni. Ogni giornata pare infinita, ma il mese vola via in un attimo.

cinque giorni e una chiesa

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DavantiAunaChiesa

Inavvertitamente, credo di aver sperimentato il turismo religioso di montagna, livello base. Ne faccio un semplice resoconto. Già il primo giorno in montagna, mi sono ritrovato davanti a questa chiesa e per pura voracità psico-estetica mi sono seduto sul prato a guardare questa chiesa

Il secondo giorno avevo intenzione di fare un’escursione in montagna, ma passando davanti a questa chiesa, mi sono tolto lo zaino, mi sono disteso sul prato e sono rimasto tutto il giorno a prendere il sole, in totale godimento semi-onirico.

Il terzo giorno pioveva, e ho pensato di fare due passi con l’ombrello. Arrivato davanti a questa chiesa, ha smesso di piovere. Dopo un po’ mi sono seduto sulla giacca a vento, finché è arrivato un ragazzo orientale che si è messo a fare foto, quasi chiedendomi il permesso. Io stavo pensando ai miei fallimenti, ai miei fallimenti sentimentali, e alle mie fallimentari imprese culturali.

Il quarto giorno ho voltato le spalle a questa chiesa e sono salito al Plan de Corones per vedere il museo MMM Hadid-Messner, ma inopinatamente mi sono ritrovato in mezzo al raduno spettacolare dell’Inter, ho incrociato lo sguardo caldo di Spalletti, e sono tornato giù di corsa, desiderando il prato davanti alla chiesa, perché davanti a questa chiesa, mi sono reso conto, riuscivo a riflettere professionalmente e coraggiosamente sulla mia vita,  su me stesso, i miei lavori, i miei amori, i miei umori, e sulle persone della mia vita, sulle vite vissute, il tempo perduto, le ambizioni, le occasioni.

Il quinto giorno non ho nemmeno fumato, e davanti a questa chiesa ho cominciato a pensare positivamente a cosa farmene adesso della mia vita, a questo punto della mia vita nel quale non sono più così interessato alla mia vita, e dunque potrei…

Rientrando in città, bloccato in coda a Affi, mi sono ritrovato alla radio una vecchia canzonetta di Bennato, “un giorno credi”, e ho inforcato i vecchi rayban. Poi la coda si è sciolta e ho acceso il telefono. Ma sei in vacanza? Si, da anni. Sto rientrando.

 

ti rendering conto?

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Sabato scorso doppia pagina su L’Eco per “il rilancio del centro”, “la città green” “immaginiamo Bergamo senz’auto”, con una serie di rendering commoventi, che mi hanno fatto ripensare a quando all’asilo, per non sapere né leggere né scrivere, la maestra ci chiedeva di disegnare la piazza o il quartiere. Io mettevo gli indiani e i cow-boys a combattere sul ponte della Morla.

L’Eco mette una signorina in due pezzi in via Tiraboschi, e una panchina dalla prospettiva impossibile in Porta Nuova.

Se penso ai decenni di ricerche, alle decine di professionisti di ogni ambito (architetti, naturalisti, ingegneri, urbanisti…) che da anni cercano seriamente di fare la Bergamo green, e penso ad esempio al “passante pedonale verde” che dall’Accademia Carrara via Parco Suardi-Montelungo-Tasso arrivi al Sentierone”, oppure al sentiero sotto le mura, già proposto negli anni Trenta; oppure alla “riscoperta” della rete delle rogge che attraversa il centro, di cui evidentemente gli autori dei rendering non hanno la minima idea…

Se l’intento è realmente quello dichiarato (“immaginiamo Bergamo senz’auto”) certo queste immagini non rendono un buon servizio alla causa, anzi…

Se invece l’intento fosse esattamente quello opposto, e cioè screditare le visioni green e la città senz’auto, allora sono perfetti.

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cosa vuol dire banca immagine

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bancaimmagine

Passi interi pomeriggi on line sulle più grandi banche immagini, guardi migliaia di foto perfette, in alta definizione, e non ne trovi una che ti dica qualcosa. Paesaggi fantastici, uomini e donne bellissime, luci studiatissime, inquadrature intelligentissime: e non ti smuovono niente. Zero sentimento, zero suggestione.

Torni a casa, cambi epoca, ti si apre un mondo. La vera banca immagine è quella scatola di scarpe nell’armadio di tua madre, con dentro le vecchie foto di famiglia. Un patrimonio che andremo a perdere. Mi viene da ridere quando le anime belle digitali pensano di salvare questo patrimonio a colpi di scanner.

In realtà tutte le nostre schede di memoria, i giga, il cloud, i server sono tecnologie di perdizione. I miei romanzi degli anni Ottanta su floppy disk sono irrecuperabili. Il diario di mio bisnonno del 1880 è perfettamente leggibile. Credo che molto difficilmente potremo mostrare ai pronipoti le nostre bacheche facebook. A meno di stamparle, e metterle in banca, cioè in una scatola di scarpe, e in un armadio.

 

 

quello che un uomo cerca in una donna

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automat

Ma la vera violenza del desiderio, il vero fuoco di una passione che dura e che distrugge l’anima di un uomo, è la smania di identificarsi con la donna che ama. L’uomo vuole vedere con i suoi stessi occhi, toccare con lo stesso suo tatto, udire con le stesse orecchie, perdere la propria individualità, venire assorbito, venire sostenuto.

Perché, qualunque cosa si possa dire della relazione tra i sessi, non c’è uomo innamorato di una donna che non desideri ricorrere a lei per rinnovare il proprio coraggio, per vincere le proprie difficoltà. E sarà quella la molla prima del suo desiderio di lei.

Siamo tutti così impauriti, siamo tutti così soli – tutti abbiamo tanto bisogno di qualcosa che dall’esterno ci rassicuri sul valore della nostra esistenza.

Così, per una volta, se una tale passione arriva al godimento del suo bene, l’uomo otterrà ciò che vuole. Otterrà il sostegno morale, l’incoraggiamento, il sollievo di quel senso di solitudine, otterrà la certezza del proprio valore.

(da “Il buon soldato”, by Ford Madox Ford, 1915. Imago: Automat, by E. Hopper, 1927)

sei quello che mangi

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Volendo prendermi cura di me stesso, invece di mangiare in piedi davanti al frigorifero, ho fatto bollire un povero pezzo di lista con due umili patate, e a latere ho disposto quel che avevo in fatto di salse.

E improvvisamente, guardando compiaciuto la mia pietanza, sono stato trafitto da un fendente di auto-consapevolezza assassina:  sei quello che mangi, un single bollito.

 

la porta stretta

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«Ma io so cosa significa!», avevo protestato. Tra le mani brandivo il romanzo di Gide.

«Davvero? E cosa sai?», aveva ribattuto Monsignor P, la voce velata d’ironia.

Con un lieve tocco mi aveva guidato in uno di quegli stretti vicoli che tagliano e cuciono il tessuto urbano della Roma barocca. Pareva divertito dalla mia ingenuità. Anche nel modo di sorridere, come in ogni suo gesto o parola, esprimeva una specie di eleganza virile, un’aggressività controllata, da gentiluomo che tiene al guinzaglio un animale feroce. Sorrideva, ma i suoi occhi grigi ti fissavano con la potenza nuda di chi ti entra nella psiche col piglio del dominatore. Appena girato l’angolo, ci eravamo fermati davanti a una piccola e polverosa libreria apostolica.

«Mio giovane amico, se tu conoscessi davvero l’origine, e il senso occulto di quel versetto… potresti ben perdere la retta via!», disse. Mi ero sentito avvampare la faccia.

«La porta stretta “è” la retta la via!», avevo quasi declamato, calcando la “è” come un filosofo esistenzialista. Dovevo essere piuttosto comico, nel tentativo di dare una zavorra intellettuale ai miei diciott’anni. E lui, condiscendente, mentre si stringeva per farmi entrare nella piccola libreria, a bassa voce, quasi salmodiando: «Facilior est dromadi fibulam accedere, quam diviti intrare in regnum caeli.»

Sapevo che la “vexata quaestio” del cammello nella cruna dell’ago (paradosso? metafora? errore di trascrizione? di traduzione?) era una delle “Controversie” che l’avevano reso celebre. Il seme dell’indagine filologica era stato lanciato.

* * *

Io ero allora un ragazzino diversamente abile (crescendo mi sarei normalizzato). Al Liceo la mia intelligenza era motivo d’imbarazzo sia per i compagni che per i professori. Avevo conosciuto Monsignor P vincendo in primavera i campionati studenteschi di latino della comunità europea, a Magonza. Poi ero stato selezionato per i test d’ingresso alla Normale di Pisa, e li avevo superati. Ma non avevo ancor deciso il mio futuro. Ero attirato sia dalle facoltà umanistiche che dalla ricerca scientifica. Così avevo accettato l’invito e l’ospitalità di Monsignor P, che dichiaratamente intendeva “traviarmi” verso una carriera di super-topo da Biblioteca Vaticana.

Sono passati più di trent’anni, ma ricordo ogni cosa di quelle giornate romane.  Ero spaventato dal potere della sua mente, attirato dal suo sguardo, dalla voce, dalle mani. Doveva avere più di cinquant’anni, nonostante l’aspetto da quarantenne.

«Ti condurrò alla porta stretta», mi disse nel retro di quella libreria da preti. Scelse per me una decina di volumi e alcuni opuscoli, e nel consegnarmeli mi congedò così: «Hodie demotica, cras ieratica». L’indomani, pensai, mi avrebbe portato nella Biblioteca Vaticana.

Invece mi portò fuori Roma, alle Catacombe. Era il tramonto, gli ultimi turisti stavano uscendo. Il custode gli consegnò le chiavi e se ne andò.  «Seguimi», disse, e ci inoltrammo nei cunicoli. Non ero molto lucido. Avevo dormito pochissimo, avendo letto tutta la selezione “demotica”, con “la verità sui più noti segreti della Chiesa”:  vangeli apocrifi, rotoli del Mar Morto, donazione di Costantino e riunioni mistico-orgiastiche dei primi cristiani. Ero pronto a tenere una dissertazione sulla capacità della Chiesa di falsificare fatti, parole, testi, documenti relativi alla sua stessa storia.

Camminammo alcuni minuti, facendo diverse svolte, chiudendoci alle spalle diversi cancelli. Infine ci ritrovammo in una camera cubica, scavata nel tufo, simile a una tomba etrusca, con giacigli di pietra, sui quali erano posati eleganti cuscini damascati.

«Guarda» disse, accendendo un faretto, e dirigendolo sulle pareti.

* * *

Sette porte strette erano incise nella roccia, istoriate da figurine scurrili in stile pompeiano e da iscrizioni in gran parte abrase. Facilmente decifrabili, i nomi delle sette “porte strette”: partum, basium, fellatio, cunnilingus, penetratio, inculatio, dissolutio. Ripetuta in ogni porta: effundete per strictam ianuam intrare. Ricordo dei frammenti: cum tumida labia tibi adferentes in spatio alitus (il bacio);  verga virescit liquente vagina (la penetrazione) deinde infimo ano anelans contra naturam pulseris usque conculcata membra per idem motum spasimantes (si capisce).

«Avanti, mio giovane amico, aspetto un’ipotesi!»

Il mio cervello girava a mille. Di getto, dissi: «Sappiamo che tra i primi cristiani c’erano patrizi viziati, in cerca di svaghi erotico-religiosi… questo aspetto orgiastico, scompare in seguito alle persecuzioni: l’eros è bandito, e quando poi i padri della chiesa “creano” i vangeli, ogni riferimento sessuale viene bollato come apocrifo, oppure purificato: è il caso della porta stretta, in origine orifizio corporale, in seguito astratta porta della virtù.»

«Ottima sintesi! Ma la porta stretta è più di un orifizio: è l’orgasmo. Tutte le sette porte, compresa la nascita e la morte, sono esperienze d’orgasmo.»

Monsignor P continuò così: « Avevo la tua età, mio giovane amico, quando conobbi Andrè Gide. Prima de “La porta stretta” aveva scritto “L’immoralista”. Poi avrebbe scritto “I sotterranei del Vaticano”. E infine “I falsari”. Fu Monsignor T a condurlo qui, dove ora siamo noi. Era il 1947. L’anno in cui ebbe il premio Nobel. »

Spiegò che Monsignor T e Gide decenni prima lo avevano abbracciato e baciato al modo dei Templari, a suggellare l’affidamento del segreto della porta stretta.

«E adesso anche tu sai», concluse, e aprì le braccia verso di me. Mi cinse delicatamente le spalle, mi sfiorò con le labbra il volto, quindi mi strinse a sé…

La cosa più spaventosa, nel rendermi conto dell’approccio sessuale, fu la delusione spirituale. Ricordo anche un istante di paura, animalesca, nel chiedermi se la mia forza fisica potesse reggere la sua. Ma non ci fu alcuna violenza.

«Un segreto tra me e te. Pensi di poterlo tenere?», disse.

«Si», risposi. Quella sera stessa raccolsi le mie cose, andai alla Stazione Termini, tornai in Lombardia e  diventai architetto. Non vidi mai più Monsignor P.

* * *

Nella primavera dello scorso anno, leggo la notizia della sua morte. D’impulso decido, parto, vado al funerale. In treno inizio a mettere su carta appunti, ricordi. Nel corso della cerimonia funebre, un volto che conosco, ma non riconosco, mi colpisce, due file avanti, di lato. Comincio a osservarlo. Anziano, il volto un intrico di rughe, il corpo massiccio, un vero etrusco. E capisco, ricordo. Molti anni prima avevo diretto i lavori di restauro di una pieve in Toscana, lui era uno degli artigiani. Grande scalpellino, bottega da generazioni, i nonni famosi tombaroli. Lo stavo guardando quando l’officiante recitò “la porta stretta della virtù, del coraggio, della verità, anche a costo dello scandalo, del sacrificio e del martirio”: e vidi la sua smorfia sardonica. Dopo la funzione lo avvicinai.

«Abbiamo fatto diversi lavori per Monsignore. I lavori di “riproduzione” li faceva mio padre, lasciandomi i trattamenti di rifinitura per invecchiare il risultato»

«Iscrizioni di carattere erotico, in stile pompeiano?»

Qualcosa balenò nel suo sguardò impassibile, da etrusco.

Disse: «In certi casi ci pagava molto bene, ma con l’impegno alla riservatezza.»

Seguii il corteo al camposanto. Fu sepolto nelle nuda terra. E mentre ritiravano le funi, un flashback, James Joyce, l’Ulisse: le corde dei becchini come il cordone ombelicale, ecco la porta stretta, il mistero da cui proveniamo, e a cui torneremo. E come un sms, mi arrivano nella memoria frammenti dell’ultima porta (dissolutio – regressio ad terrae matris uterum) e della prima: partum –  quasi ex utero eiectum in vitam penetris per abruptam vocem.

Ecco la “morale stretta” di questa storia: anche in un falso, scritto da un uomo falso, con cuore falso, in una lingua morta, puoi trovare autentica poesia.

(Leone Belotti, La porta stretta, ArtApp n.17 , rivista di “arte, cultura, nuovi appetiti”,  http://www.artapp.it   https://www.facebook.com/artapp/ )

A Natale, ditele le cose!

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Ditele le cose, a Natale, le cose che avete in pancia, in gola, ditele, tiratele fuori, aprite i pacchi, questi sarebbero i veri regali da aprire, i nostri cuori: c’è regalo più prezioso?

Dimmela nel modo giusto, quella cosa tra noi, con garbo, umiltà, quella ferita, quell’incomprensione, quella richiesta inascoltata, quella delusione, dimmela, dammi la possibilità di chiederti scusa, perdono, di abbracciarti, di ricominciare, di risanarci insieme.

Natale è per tutti, è la festa della rinascita, finisce un ciclo lunare, ne inizia un altro, è questo l’origine del Natale, precristiana, pagana, è lo Yule nordico, e il significato è un vero e proprio bilancio di fine anno, un fare i conti con le cose importanti, le cose della tua vita, le scelte, i traguardi, i fallimenti, le persone, gli affetti, i comportamenti che hai tenuto: l’anno è finito, riconosci gli errori, paga i tuoi debiti, i debiti dell’anima, chiedi scusa e perdono, ammetti, e festeggiamo insieme, e da domani comincia un nuovo anno, e per cominciare bene questa notte di baldoria è fondamentale, è fondamentale la “pulizia” che si fa tra di noi, è per questo che facciamo baldoria, è dai regali del cuore che viene la gioia, e così il Natale è per tutti, è la festa della rinascita di noi, dei nostri affetti…

Invece, quello che succede, è una tragica caricatura, tutti cercano di interpretare la famiglia felice, e mettere in scena un giornata esemplare, di facciata, dove tutti sono felici, pasciuti, mielosi e capaci di menù, regali e presepi da copertina.

Poi c’è sempre qualcuno, la pecora nera, il cognato disoccupato, la nuora altezzosa o il nipote stronzo che a un certo punto non ce la fa più, e scoppia, e ubriaco dice la cosa sbagliata, nel modo sbagliato, e scatena il finimondo, la scenata,  il contrario esatto della rinascita.

Bisogna dire le cose nel modo giusto, nel momento giusto, bisogna avvisare prima, e quando vi chiedono “vieni a Natale?” bisogna dire “si, ma solo se festeggiamo davvero il Natale”, e gli spieghi questa cosa di aprire il cuore, e regalare il cuore.

In realtà, bisogna essere tutti più cattivi, a Natale, sia con sé stessi che con i propri cari, bisogna avere coraggio a Natale, il coraggio di riconoscere i propri torti, e anche il coraggio di chiedere all’altro ragione dei torti subiti, il coraggio e il bisogno di perdonare ed essere perdonati: allora questo è il Natale per tutti, anche per noi cani sciolti che non abbiamo la famiglia felice, e ci sentiamo male a vedere le luminarie, e il traffico da shopping.

Riprendiamoci il Natale, prepariamoci al Natale, abbiamo un anno per elaborare le nostre ulcere, curarle, leccarci le ferite, e poi far vedere ai nostri cari le nostre cicatrici – non i tatuaggi! – e raccontarle, e chiedere un bacio che benedica queste cicatrici.

Lascia perdere lo stress della corsa al regalo, non è nei centri commerciali che troverai la cosa giusta per me, ma dentro di te, nei giorni passati dentro di te, nelle cose sbagliate successe tra noi, nelle cose non dette.

Fammi un bel regalo a Natale, dimmi le cose che non mi hai detto, e lascia che io ti possa dire le cose che mi sono rimaste lì. Lo so, non è facile, non è detto che la riconciliazione sia automatica: ma mille volte meglio un autentico Natale difficile, di un buon Natale ipocrita. Non cureremo un’ipocrisia decennale in una sera, ma dobbiamo pure cominciare.

Capisci cosa ti sto dicendo, sorella, fratello, amico mio? Questi sono i miei auguri di Natale per te.

 

cosa vuol dire immacolata concezione

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LOTTO-Annunciazione-11 In realtà, si parla di diritto d’autore. Immacolata concezione significa che il codice sorgente è libero, e la creatura, che sia un software, un manufatto o un essere umano, non è di proprietà dei genitori naturali, ma è un dono del “padre nostro” all’umanità.

Questo è il ruolo dell’apparizione dell’arcangelo Gabriele, che l’ateo ignorante legge come un qualsiasi caso di gravidanza extramatrimoniale: il seme, la grazia creativa proviene dal padre di tutti, chiamalo Dio, Spirito del Pianeta, Padre che stai nei cieli o Madre Terra.

L’immacolata concezione è il momento nel quale accogli l’illuminazione creativa nel tuo ventre: ti viene affidato un dono, e il tuo unico compito è svezzarlo, e donarlo all’umanità.

L’unico copyright, l’unico prezzo da pagare all’Autore collettivo, in cambio di una vita libera, breve e autentica, è la morte corporale.

Da quando nasce a quando muore, il Bambino non è tuo, è figlio di Dio, di un free software, è frutto di un seme non in vendita, non di proprietà, e come tale è libero da ogni tag terrena e sciolto da qualsiasi obbligo di famiglia.

Questo vuol dire immacolata concezione. Nascere liberi.

(imago: annunciazione by Lorenzo Lotto)

 

il testamento del padre libertino

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RIP brescia 290916 9710 JMR  Nulla è più tragico per me che saperti tormentata da desideri che sei indotta a vincere, secondando la folle idea di sacrificarti, dopo aver perduto gli anni più belli della giovinezza, sposando un uomo che non muoverà un dito per farsi amare e che devi accettare comunque!

No, no, Eugenia, tali doveri non hanno senso: una fanciulla raggiunta l’età della ragione e avuta un’educazione  ella casa paterna, deve essere lasciata libera verso i quindici o i sedici anni di comportarsi come meglio crede e di diventare ciò che vuole.

Cadrai preda del vizio? E che importa! La funzione sociale di una donna che rende felici tutti coloro che la desiderano non è forse più importante di quella di colei che, isolandosi, si concede soltanto al suo sposo?

Il destino della giovane donna è simile a quello della femmina dei lupi: ella deve essere di tutti quelli che la desiderano. Seguiamo l’esempio della natura e delle leggi che regolano la vita degli animali e prendiamo esempio da questi, per una volta!

Eugenia, il tuo corpo appartiene a te e a nessun altro, solo tu potrai giudicare se hai diritto a goderne e a farne godere. Non perdere il tempo più felice della tua vita: sono corti e pochi gli anni felici del piacere!  L’intensità del piacere è tale che ti donerà dolcissime memorie nella vecchiaia.

(da “La filosofia nel boudoir”, Alphonse Francois de Sade, 1795; immagine: cimitero Vantiniano di Brescia, photo by Michele Perletti, http://portraitreportage.weebly.com)