Paura e desiderio

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La paura di accendere il telefono

e sentire una voce stanca che chiede di me

e mi comunica che le mie persone sono decedute

e i corpi sono già in viaggio per essere cremati altrove

e le urne cinerarie mi saranno recapitate a casa

e alla domanda se ho compreso rispondere si

e sapere che la conversazione è terminata.

Il desiderio di spegnere il telefono

e lanciarlo contro lo schermo del computer

e divorare le scale per saltare in sella alla moto

e partire a razzo spalancando la manopola del gas

e volare a duecento all’ora a fari spenti in autostrada

e raggiungere i camion dell’esercito carichi di bare

e sverniciarli gettando al vento le lacrime di tutti.

Tre notti a Marsiglia con un libro e un incarico

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Il libro è “Casino totale”, uno di quei noir che hanno come vero protagonista la città. Marsiglia significa 900mila persone, 1/3 delle quali di origine italiana, e 1/3 di origine maghrebina. Pubblicato nel 1995, fa parte di una trilogia che ha reso Jean Claude Izzo (morto 50enne nel 2000) un autore di culto.

L’incarico riguarda un convegno internazionale che ha per titolo Re-Actor, e riunisce il top management di una holding di aziende italo-franco-tedesche del settore acciaio. Nel concept-intro si legge: “Le aziende della holding sono diverse per storia, nazionalità, tecnologie, dimensioni. In comune hanno l’oggetto di produzione: i profilati d’acciaio.”Il meeting si svolge al Palais du Pharo, imponente edificio neoclassico che domina l’accesso al Fos de Marseille, cioè il porto e il cuore della città.

Fos era l’Eldorado. Di lavoro ce ne sarebbe stato per secoli. Si costruiva un porto che avrebbe accolto enormi petroliere e fabbriche dove fondere tutto l’acciaio d’Europa. Il lavoro era duro, e più arabi c’erano meglio si stava. I vecchi dei cantieri navali si erano fatti riassumere. Italiani, perlopiù sardi, greci, portoghesi, alcuni spagnoli.

Marsiglia ci credeva. Tutte le città limitrofe ci credevano e costruivano case popolari a tutto spiano, scuole, strade per accogliere tutti i lavoratori a cui era stato promesso l’Eldorado. La Francia stessa ci credeva. Al primo lingotto d’acciaio fuso, Fos era già solo un miraggio. L’ultimo grande sogno degli anni Settanta. La più crudele delle delusioni.

Izzo parla degli anni Settanta. La grande crisi petrolifera. Poi vennero i decenni della società post-industriale, dei servizi avanzati e della delocalizzazione. E oggi si parla di Industry 4.0, di reindustrializzazione e automazione. Ma il vero tema guida del convegno è la “diversità” come “reattore” per la costruzione del valore: “Questo meeting ha luogo a Marsiglia per focalizzare la diversità come risorsa e come opportunità. In un mondo che tende all’omogeneità, la diversità è una forza capace di scatenare reazioni, provocare cambiamenti, e favorire l’innovazione di pensiero, di processo e di prodotto”.

A Marsiglia esisteva uno strano francese, una mescolanza di provenzale, italiano, spagnolo e arabo, con una punta di argot e un pizzico di verlan. I ragazzi si capivano alla perfezione con questo linguaggio.

A casa mia si parla napoletano. Da te si parla spagnolo. A scuola impariamo il francese. Ma in fondo cosa siamo? Arabi, aveva riposto Manu. Eravamo scoppiati a ridere.

Ecco la diversità-reactor. Il diverso non come problema, ma come opportunità, scintilla. In realtà, molto dipende dai tempi, dai “mega-trend” socio-economici.

Già a quell’epoca gli arabi non mancavano. Né i neri. Né i vietnamiti. Né gli armeni, i greci, i portoghesi. Ma non c’era problema. Il problema era sorto con la crisi economica. La disoccupazione. Più la disoccupazione aumentava, più si notava che c’erano gli immigrati. E gli arabi sembravano aumentare insieme alla disoccupazione.

Nella sessione plenaria, numeri su numeri che parlano chiaro: gli anni duri della crisi iniziata nel 2009 sono superati. C’è cauto ottimismo, fiducia, desiderio di crescita e d’innovazione.

“Solo tornando a produrre in Europa potremo creare un modello realmente sostenibile, e solo tornando a produrre direttamente e sul nostro territorio beni materiali potremo tornare a produrre valori” (estrema sintesi, mia, della strategia RISE della UE, acronimo di Rinascita Industriale per un’Europa Sostenibile).

La sera mi ritrovo unico uomo tra un centinaio di donne (manager, commerciali e ingegnere europee, americane, asiatiche) al 95% belle o molto belle: è l’incontro sulla diversità di genere, ma anche l’atto costitutivo dell’associazione di categoria delle “donne d’acciaio” (che ha per slogan una citazione da Hemingway: “Di cosa sei fatta tu? Di quello che ami. Più l’acciaio”).

Confinato in un angolo, reporter senza diritto di parola, apprendo che l’industria dell’acciaio, storicamente maschile, nell’immediato futuro aprirà alle donne, a tutti i livelli, anche in fabbrica: con l’automazione all’operaio sarà richiesta meno forza fisica e più capacità gestionale e di controllo, più cervello insomma (hai capito?).

Il secondo giorno sessione motivazionale con i coach, figure che io tendenzialmente aborro, ma forse è un problema di naming, e infatti parlo di tutto con il coach italiano (che viene da Arcore!) e m’innamoro a prima vista e per sempre della coach americana (Oh, Nancy!).

Al tramonto, avendo bisogno della mia droga preferita (la solitudine) vado a fare un giro al vecchio porto. Il bacino ha la forma di una U allungatissima intorno alla quale pulsa la città. Devo camminare mezz’ora per arrivare dall’altra parte. Nel 1905, in euforia-Eiffell, fu costruito un ponte d’acciaio, poi fatto saltare in tempo di guerra.

Il porto fu il terreno di gioco della nostra infanzia. Avevamo imparato a nuotare tra i due forti. La prima volta, Manu e Ugo dovettero venire a ripescarmi. Stavo annegando, senza più fiato. Prima o poi bisognava fare l’andata e ritorno. Per essere uomini. Per far colpo sulle ragazze.

Ogni generazione ha avuto le sue iniziazioni, le prove re-actor d’incontro con l’altro, il diverso, la novità e la paura: da cui viene la  capacità di reagire positivamente e di essere attori del cambiamento, e responsabili verso il futuro. Ma oggi in Italia devi farti accompagnare a scuola dalla mamma fino ai 14 anni. E ti perdi l’unica vera scuola: che è quella che si fa nell’andare a scuola.

Marsiglia è stata contagiata dalla coglionaggine parigina. Sogna di essere capitale. Capitale del Sud. Dimenticando che quel che la rendeva una capitale

era il porto. Incrocio di tutte le mescolanze umane. Da secoli.

Oggi questo “incrocio marsigliese”, modello mediterraneo del melting-pot della grande mela, ha una nuova versione, proiettata al futuro: siamo già all’ultimo giorno di Re-Actor e ci fanno salire su dei bus speciali, ci fanno indossare caschetti e tute, e ci portano a visitare il cantiere di ITER, il mega-reattore condiviso di nuova generazione, la centrale energetica del futuro.

Un progetto gigantesco che ha per soci l’Europa, gli Usa, la Cina, la Russia, il Giappone e la Corea. Su questo set da fantascienza che domani fornirà energia all’Europa lavorano uomini e donne dalle fisionomie nordiche e nordafricane, mediterranee e mediorientali.

Questa era la storia di Marsiglia. Un luogo dove chiunque, di qualsiasi colore, poteva scendere da una barca o da un treno, con la valigia in mano, senza un soldo in tasca, e mescolarsi al flusso degli altri. Una città dove, appena posato il piede a terra, quella persona poteva dire: ci sono, è casa mia.

La guida ci spiega che l’enorme area della centrale non è territorio francese, ma zona internazionale. Tocchiamo con mano i cavi superconduttori e altre gioiellerie titaniche prodotte per questo reattore-cattedrale dalle aziende presenti a Re-Actor (e il naming fa il suo giro!).

La notte prima del rientro non dormo, mi agito, sto male, nel mio stomaco c’è una tauromachia tra il pollo al curry del pranzo e l’anatra all’arancia della cena. Prima dell’alba scendo di nuovo al vecchio porto.Un vecchio mi invita ad andare a pesca con lui. Un barbone triste col cane più triste di lui mi chiede un aiuto, e mi spara un sorriso che gli vale 2€. Mi siedo sul molo a prendere il tepore del primo raggio di sole. L’odore del mare – per reazione! – mi ha rimesso in sesto.

Marsiglia non è una città per turisti. Non c’è niente da vedere. La sua bellezza non si fotografa. Si condivide. Qui bisogna schierarsi. Appassionarsi. Solo allora ciò che c’è da vedere si lascia vedere.

Un ubriacone molesto mi offre l’ultimo sorso di birra e un’invettiva che non afferro. Non capisco un cazzo! – gli dico in italiano, e lui mi risponde ridendo: è perché sei italiano!

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mia nonna e mia zia

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RIPchiuduno1 Mia nonna aveva più classe, mia zia più fascino.  Mia nonna molto bella, molto dolce, altruista, carismatica. Mia zia bellissima, inquieta, intrattabile, acida.

Ieri sono venuto a trovarle e ho raccontato loro le mie disavventure umane e sentimentali dell’ultimo anno.

Io da sempre cerco una come te, nonna, ma disgraziatamente, nell’ultimo anno, sono stato innamorato di una come te, zia.

Poverino, ha detto mia nonna.

No, ha detto mia zia, io compatisco lei: per voi romanticoni è facile innamorarsi di una bella donna e gettarle addosso la responsabilità della vostra felicità e infelicità. Ma nessuno pensa mai alla solitudine della donna non innamorata.

(photo by Michele Perletti, realizzate per RIP advisor, su CTRL magazine di Agosto)

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sidecar bike

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Un progetto low tech, ad alto rendimento human-social.

Con un sistema di aggancio rapido, trasformiamo una sedia a rotelle + una bicicletta nel sidecar bike, veicolo dalle prestazioni uniche:

–       permette di andare in giro con l’amico disabile fianco a fianco, potendo fare conversazione (quando spingi una carrozzella, tu gli parli da dietro/sopra mentre lui ti deve parlare senza vederti, quasi gridando ai quattro venti per farsi sentire);

–       permette ai ciclisti solitari di avere compagnia nella loro ora di pedalata salutista, con migliori prestazioni minuti/calorie, dato il peso da trainare;

–       conferisce a entrambi look e status attraente e gratificante, con senso d’identità condiviso: sul sidecar bike hai un “essere due” che supera i ruoli disabile-infermiere.

Dopo alcune prove, mi sono reso conto che le piste ciclabili sono troppo strette. Il regno di questo veicolo sono le isole pedonali, le piazze, i parchi, i centri urbani. Non si ha idea di quanti disabili stiano quasi sempre rinchiusi in casa.

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Istruzioni per capire la città di Bergamo – il sentierino

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IMG-20170531-WA0005 (nella foto: il sentierino è quello a sinistra, alberato; il Sentierone a destra, lastricato)

 Bergamo è una donna. Ti diranno che è una donna chiusa, e questa chiusura è rappresentata dalle sue Mura, che come un decolleté incorniciano il suo volto incantatore dal profilo perfetto. Ti innamori della sua bellezza a prima vista. Ma se vuoi capirla, lascia stare Bergamo alta, e comincia da Bergamo bassa: la pancia, le gambe, la pulsazione della città.

Perché in realtà Bergamo è una donna aperta, molto aperta, anche un po’ puttana, e non da oggi. E le sue valli sono ancora più aperte, e ancora più puttane. Gli storici lo sanno.

Tutti hanno costruito mura a Bergamo. I Romani nell’evo antico, i Bergamaschi nel medioevo, i Veneziani nell’evo moderno. Ma come sempre, costruite con la scusa di proteggere dall’esterno, le mura servono poi a rinchiudere chi ci è dentro. E sempre i bergamaschi hanno trovato modo di abbatterle, o uscirne.

Bergamo bassa nasce come linfa fuoriuscita dalle mura di Bergamo alta. Colate di magma urbano che dalle porte scendono al piano. Botteghe, magazzini, opifici, edifici: i borghi.

Da Porta S. Agostino discendono verso Venezia le vie Pignolo, Borgo Palazzo, Santa Caterina, piazza S. Spirito, e via Tasso.

Da Porta S. Giacomo discendono verso Milano le vie S. Alessandro, S. Orsola, Borfuro, Piazza Pontida, e via XX Settembre.

In mezzo: il nulla. Un’area vuota che separa e unisce i due borghi, un prato, un’area periferica, adibita a pascolo, ma utilizzata un mese l’anno (fine Agosto e inizio Settembre) per dare vita a una delle più grandi –  e antiche –  fiere d’Italia e d’Europa (da cui: la città puttana commerciale): la Fiera di Sant’Alessandro.

E così, nel corso del tempo, il sentierino che attraversava questo prato è diventato il Sentierone, i borghi si sono saldati, e quella che era un’area periferica è diventata il nuovo centro della città: un centro commerciale. Non è per caso che oggi abbiamo l’Oriocenter. Ce l’abbiamo sempre avuto.

Poi, nel Novecento, negli stessi anni, mentre il nuovo centro di Bergamo Bassa veniva costruito ex novo come centro finanziario e dei servizi (da cui: la città puttana moderna)  la vecchia città alta, che era rimasta tagliata fuori, diventando a sua volta una zona degradata,  è stata “reimpaginata” come città d’arte (da cui: la città puttana turistica).

Piaccia o no, il caso Bergamo è stato il modello urbanistico di molte altre città “modernizzate” nel  ventennio, con soluzioni divenute poi di norma: e citiamo il rispetto del panorama urbano considerato come bene paesaggistico (il famoso cono ottico su città alta, da via Autostrada – sic! – a Porta Nuova).

Oggi, dal momento che la funzione di città puttana commerciale è ulteriormente migrata a sud (il nuovo Sentierone è l’aeroporto, e l’Oriocenter è il nuovo super-market) il centro piacentiniano è in fase di cambio d’identità e nuova consapevolezza da puttanella turistica, non in concorrenza, ma in sinergia con la puttana madre, Bergamo alta.

In questa dinamica psico-erotica, trova le sue motivazioni il progetto “sentierino”. Il sentierino è la traccia generativa della Bergamo Moderna oggi allestito come “percorso narrativo”, come viaggio nel passato della Bergamo Moderna, con 26 personaggi di diverse epoche che raccontano episodi, frammenti, scene dall’anno mille al duemila.

Rintracciare il sentierino nel Sentierone per riscoprire spirito, carattere, tempra dei nostri avi. Personaggi ostici, inclassificabili, spesso impresentabili, ma stranamente attraenti. Ne ho esaminati e proposti un centinaio prima di arrivare alla selezione finale.

Si, questa città è una puttana. Ma noi umani possiamo amare anche una puttana, insieme a tutti quelli che l’hanno amata prima di noi.

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Info su www.ilsentierino.it

 

 

 

quando ascoltavamo making movies

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avevamo 16 anni, i capelli lunghi e l’aria sempre inkaz,

ascoltavamo i dire straits, si andava in moto senza casco

e l’unica malattia incurabile a trasmissione sessuale era la vita

 

110&Lodi

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Settimana scorsa, mentre ero a bere in un fetido ritrovo di vecchi creativi, mi chiama al telefono Stefano Caserini, ingegnere del Politecnico, esperto in cambiamenti climatici.

A Mantova, quasi 30 anni fa, abbiamo vissuto un anno insieme, facendo il servizio civile nell’Azienda di Promozione Turistica. Eravamo due giovani scrittori, e abbiamo passato l’anno a lavorare utilmente a un libro, il Mantoverde, guida al turismo verde nel mantovano. Potremmo anche vantarci di aver avuto l’idea del festival letteratura, ma quello è un progetto di cui poi se ne sono occupati i grandi, e con un certo successo.

Tornando al presente, mi dice che si candida sindaco nella sua città, Lodi, con una lista civica espressione della sinistra ecologista. Mi chiede di trovargli un’idea per il nome della lista, o lo slogan.

I suoi compagni di lista, da quel che mi dice, sono tutti dei cervelloni: ricercatori, medici, architetti, bibliofili, pedagogisti. La loro ambizione è rendere Lodi una città modello di sostenibilità. Va bene.

Ordino un’altra birra, e per caso vedo un amico, grandissimo creativo, specialmente fuori ufficio. Gli chiedo: come si chiama una lista di cervelloni per le elezioni di Lodi? Al volo mi risponde: 110 e Lodi.

Prendo su, vado a trovare l’ingegnere e gliela spiego: il vostro punto di forza sono le competenze, vi unisce la cultura della sostenibilità applicata al vostro territorio. Presenterete un programma con 110 punti, da impaginare come un vecchio giornale in 11 pagine, più una copertina con la testata: 110 e Lodi, che è anche il nome della lista.

Dopo profonda riflessione della base politica, mi chiama, e dice: va bene, però sabato prossimo tu vieni alla conferenza stampa.  (così vediamo se ucciderti subito o tra due mesi).

(Ecco in che guai puoi finire rispondendo al telefono mentre bevi la tua birretta della sera).

Comunque, stamattina sono andato alla conferenza stampa. La presentazione è andata bene, e io sono ancora vivo.

Qui sotto, “La bella di Lodi”, con la giovane Stefania Sandrelli.

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Long Island a Bergamo

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Vodka, gin, tequila, triple sec, rhum e coca cola. Secondo la leggenda metropolitana è stato inventato da un barista italiano di Long Island ai tempi del proibizionismo. L’idea è che all’aspetto sembri tè freddo. Il colore è quello.

Quindici anni fa andavo all’Hemingway, e bevevo Long Island, a volte anche due o tre in una sera. Da allora non l’ho mai più bevuto. Ne parlo con il giovane M, che sta raccogliendo testimonianze per la sua tesi (per una storia dei bar di Bergamo 1990-2015).

Il giovane M. mi dice che oggi il Long Island a Bergamo si beve dall’Adri, in Broseta. Adri? E mi viene in mente uno dei due baristi dell’Hemingway che mi preparavano il Long Island.

Così mi lascio trascinare in questo bar in Broseta, ed effettivamente l’Adri è proprio l’Adri dell’Hemingway, con 15 anni e qualche chilo in più. Appena mi riconosce scoppia a ridere. Poi ci dice: ecco due bei tè freddi! Ha già la caraffa pronta.

Usciamo da Broseta, e in due semafori siamo a Longuelo. Prendiamo la salita della Pigrizia. C’è un piccolo bar. Dietro il banco, il testone del Beppe, che era l’altro barista dell’Hemingway. “Ciao Beppe, siamo appena stati dall’Adri a bere un Long Island, perché Leone qui è in serata amarcord. Sorride. Ve lo faccio io il Long Island, dice.

Anche con lui parliamo dei vecchi tempi. Poi col giovane M. risaliamo Borgo Canale, ci fermiamo dai giovani G., A. e J., che fanno i musicisti e i foto/video maker, o ci provano, e vivono tutti insieme nei pressi di Santa Grata Inter Vites, quella chiesina sotto la strada, con le pitture macabre del Bonomini. Qui c’era un ristorante di lusso, gli racconto, la Pergola, c’è ancora l’insegna. Ma parliamo degli anni Settanta, siamo fuori dall’ambito della ricerca.

Poi chiaramente finiamo al Druso. Ciao Mari, come stai? La Mari era la proprietaria dell’Hemingway. Ma sei il Leone? Si, sono venuto a bere il mio terzo Long Island.  Parlare al Druso è già più difficile. C’è un Dj scatenato, mi pare un baccano indistinto da demolizioni ferrose: ma l’impianto audio è rotto, chiedo, no, mi dicono, è la musica che è così.

Uscendo dal Druso dalla parte sbagliata mi ritrovo in una sala di registrazione. Il giovane M. mi presenta altri musicisti. Usciamo.

E così, 15 anni dopo, ho bevuto di nuovo i miei 3 Long Island all’Hemingway. Mi restano impressi due versi della Merini riportati su un muro nel back stage del Druso: il corpo parla ma non chiarisce proprio niente – l’amore è un mistero che davvero non so risolvere.

Il giorno dopo sono rimasto a letto tutto il giorno. Bere fa male. Spesso si beve per dimenticare. A volte invece si beve per ricordare. E fa ancora peggio.

cosa vuol dire Saint Laurent

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Da Vogue, campagna Saint Lauren. L’immagine è verticale ma impaginata in orizzontale (lifestyle ruota immagine 90°) con un piccolo riquadro “diverso”, forse a significare l’emersione del proprio lato andro-lesbo.

Come pubblicitario, non la capisco. La donna Saint Laurent non ha mai avuto bisogno di spalancare le gambe per essere seduttiva (e penso alle “donne YSL”, da Catherine Deneuve a Julianne Moore).

Come uomo, è un’immagine che mi intristisce. Mi dice che le donne di questa generazione, arrivate ad una certa fase della loro vita, sono irritabili, erotomani, ambigue. Magre, toniche, nevrotiche, aggressive, gelide, anaffettive. Effettivamente…

Noi uomini (quei pochi sopravissuti) non siamo attratti da queste donne. Al più, ne siamo vittime: sia come mariti, che come amanti.

Pare comunque che questa nuova art direction “post Yves”, stia dando risultati commerciali positivi.

Sotto sotto, la funzione Saint Lauren non cambia: aiuta le donne ad affrontare le paure legate all’avvicinamento della menopausa. Ma una volta le aiutava vestendole.

A Natale certe cose non ditele

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In risposta all’invito di Leone XIV (A Natale, ditele le cose!) una mia gentile amica d’oltremanica, Mrs. Drinkwater, mi ha fatto recapitare un librino dal titolo “Segreti e no”, a firma Claudio Magris, il grande critico letterario, custode della tradizione mitteleuropea.

In poche pagine Magris fa luce sulla doppia natura del segreto, pubblica e privata, e sulla doppia pulsione che scatena: a mantenerlo, e a rivelarlo. Sul versante pubblico due dinamiche: nella custodia del segreto c’è la struttura del potere, nella sua rivelazione la base della narrativa. Ma è sul lato privato che troviamo le motivazioni al “riserbo”, anche Natalizio.

In quest’epoca “di nudismo psicologico”, riscopriamo il diritto all’opacità, a una verità interiore, privata, non condivisa. Argomentazioni a favore del segreto personale, e dunque del non dire certe cose, tantomeno a Natal):

–       perché proprio in questi spazi di libertà da tutti, anche dall’amato, anche da sé stessi, vive una parte importante di noi, una capacità di custodire, e di essere autoconsapevoli;

–       perché ci sono segreti destinati all’oblio, specie per fatti che si vorrebbe non fossero successi, che portati alla luce farebbero danni irreversibili, e senza  alcuna utilità;

–       perché custodire un segreto è anche un altruismo, si mente o dissimula per proteggere altri, che da questa rivelazione sarebbero annichiliti;

–       perché rivelare un segreto è già deformarlo, similmente a quanto dimostrato dal principio di Heinsenberg (osservare un fenomeno è già modificarlo);

–       perché non si apre un cassetto che potrebbe esplodere, quando si può lasciare che il suo potenziale distruttivo  si disinneschi poco a poco (questa sarebbe la “La dissimulazione onesta”, il trattato seicentesco di Torquato Accetto).

Mia cara Mrs. Drinkwater, La ringrazio cordialmente di questa lettura, e della Sua nota sul significato letterale della parola “ri-velare”.

Mi si conceda dunque di aggiungere una postilla al mio messaggio in preparazione al Natale: in questi giorni, amici, viaggiate senza paura nelle vostre stanze segrete, e scegliete con cura e amore, per le persone a voi care, quali cose dire a Natale, e quali invece non dire.

E riflettendo sul diritto all’opacità, “in quest’epoca di nudismo psicologico”, penso a quella forma comoda e geniale di protezione del segreto che è il sacramento della confessione.

E penso alla figura e alla storia di S. Giovanni Nepomuceno il “confessore”, il protettore dei ponti, quella specie di vescovo grigio che vedi sul ponte della Morla, di Gorle, di Nembro e in milioni di altri ponti nella vecchia Europa.

S. Giovanni Nepomuceno era vescovo di Praga, e confessore dell’imperatrice. L’imperatore lo trascina sul ponte Carlo, vuole sapere se la consorte ha un amante. Lo minaccia di morte. Ma il Nepomuceno non cede. E allora viene gettato giù dal ponte, ad annegare nella Moldava.

Rappresenta il martirio di chi custodisce un segreto, e in questo c’è la sacralità della confessione, e la forza, la sicurezza che ti offre nei momenti di passaggio, quando devi attraversare un ponte, affidare i tuoi segreti al Signore (o alla tua coscienza) e andare avanti, passare oltre.

Spesso mi sono chiesto: e se l’amante dell’imperatrice fosse stato proprio lui, il santo confessore? A quel punto, morire per morire, gli è convenuto morire da eroe…

Non è raro ritrovarsi santi per sbaglio, o eroi per caso, per ironia della storia. A volte questo genere di santi risulta anche più amabile. Facciamo tesoro di quello che il Nepomuceno, o qualsiasi altro nostro parente, rappresenta di buono, senza bisogno di sapere e chiedergli se…