la gonna della nonna

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Lei non era mia nonna, era molto di più. Ma arriva un bel giorno in cui qualcuno svuotando un armadio ti dice: “forse questa la volevi tu…?”. Certo. Un pezzo di storia. Un capo d’abbigliamento speciale, una gonna in jersey degli  anni ‘40 color blu notte.

Nella mia follia di gonne così ne volevo almeno 3. Tutte uguali.  Ma non è stato possibile. Vediamo come e perché. Lei, che non era mia nonna è nata negli anni ’20, con la corporatura esile e con le ossa a punta.  Educata in Italia, vissuta in Inghilterra, cresciuta tra i bombardamenti e il thè delle cinque. Una “signorina” minuta di 80 anni, ma sempre una signorina, così la si poteva percepire. Così la percepivo io. E sentivo.

Deve esserci voluto del tempo e un gran dinamismo di storie per dare al suo sguardo quell’impronta unica di azzurro. Pensavo.  Come posso indossare una gonna forgiata su misura da un corpo che non sono io? Osservavo. Ma, cosa aveva di così speciale quella Gonna in jersey di cotone? Perché non è duplicabile? Iniziano le ricerche.

Per cominciare quel jersey di cotone è introvabile da decenni, le macchine per fabbricarlo sono state tutte svendute in Romania o chissà dove. Anche trovata la stoffa da fondi di magazzino, quello che non si trova è il colore. Un punto di blu scuro al limite del nero, davvero  introvabile. Senza quel blu niente divinità. Si, perché il blu scuro tinta unita richiama sempre qualcosa di divino, in particolare se  si esclude dal blu tutto ciò che potrebbe dar luogo a un’impressione di viola o di verde. Dicevamo, senza quel blu niente divinità.

Poi c’è il problema della linea, semi modellata ma morbida, scivolata ma anche secca, difficile da replicare anche da mani esperte.  E la struttura?  Due pieghe abbassate al punto giusto delle anche, e una cinturina a marcare la vita alta e stretta. Si potrà copiare su di me? Pensavo. Nell’insieme l’aspetto a trapezio così  vicino a certi abiti destrutturati  da stilista orientale è inarrivabile oggi.

Ci vogliono altre mani a creare un gonna così. Ma non cedo e tento la clonazione con i mezzi che ho. Un’altra sarta, un’altra stoffa e un altro monaco che tenta di farsi  l’abito.  Eh si!…non è l’abito a fare il monaco, è che ogni monaco si fa un abito diverso. Infatti: il risultato è la stessa gonna che è uguale ma diversa. Il risultato è un corpo 2.0 che tenta di muoversi in una gonna pensata per altri movimenti, altri atteggiamenti, altre storie. Questa è la storia.

(testo e photo by Alessandra Corti, a.danzarelunare@gmail.com )

 

 

dei tragici effetti dell’imitazione servile

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(in esclusiva per Calepio Press, un intervento di Pakati Tumulti) 

Ascoltavo Petrini parlare tempo fa in modo convincente del commerciante del futuro come di una figura chiave, strategica, del mondo sostenibile, autentico; un soggetto capace di garantire personalmente la bontà del prodotto, dalla terra alla tavola; e anche un comunicatore pro consapevolezza ed evoluzione dei consumatori.

Oggi faccio un giro in centro a Bergamo e vedo diverse attività commerciali che esibiscono piccole pseudo-Christate. Sul web leggo che ai commercianti sono state forniti “oltre 2 mila metri di pellicola plastica che per tonalità richiama il materiale utilizzato per rivestire le passerelle a pelo d’acqua: l’invito è quello di impacchettare le vetrine o creare piccoli allestimenti che evochino l’evento sul Sebino”.

Il problema è che non puoi evocare proprio un bel niente con “una tonalità che richiama” quella vera. Sei già destinato al disastro in partenza.  La pulizia formale è nulla senza la pulizia interiore. Senza l’onestà della sostanza, non potrai mai creare una forma attraente.

Quello che tutti pensano, vedendo queste vetrine, è: pecoroni, siamo dei pecoroni, nessuno di noi avrebbe dato credito a questo povero Christo se fosse entrato in un negozio, con quel suo aspetto da pensionato sociale. Adesso invece che sappiamo chi è siamo pronti al totale servilismo psicologico ed estetico, cioè il peggior servizio che si possa fare a un artista.

Così si svaluta il senso dell’intervento Floating Piers, così fai diventare questo gesto una banale confezione regalo, un pacchettino luccicante.

Bisogna capire che l’arte, specie l’arte contemporanea, non ha la funzione di dilettare con la rappresentazione del bello, ma di scandalizzare, colpire, denunciare, significare, provocare, scatenare crisi di coscienza, e anche di rigetto. Il senso di Christo sul paesaggio è una dimostrazione di impatto 100, l’opposto dell’impatto zero, lo stravolgimento totale dato da un solo grande intervento scombussolante e senza alcuna prospettiva futura. Come certe notti d’amore.

Tu questo non lo puoi capire, tu capisci solo che puoi usare questa cosa come una decorazione.  Hai una concezione decorativa dell’arte,  e forse anche della vita in generale.

Ma Christo si è vendicato, e ti ha riversato contro i suoi stessi nastrini.

La colonna dei portici, inguainata nel simil passerella, è patetica. Angoscianti sono le donne-manichino impacchettate e legate al piedistallo.

I coni di gelato. Io prendo un cono di gelato in gelateria perché mi fa schifo il gelato plastificato industriale. E tu mi metti i coni nella plastica.

Nulla sveglia un ricordo quanto un profumo, hai scritto sulla vetrina della profumeria. E davanti ci piazzi il portarifiuti impacchettato. Indimenticabile.

E cosa mi dice il micro-pacchettino nella vetrina della gioielleria? Mi dice: ma quale diamante, solo la plastica è per sempre!

Capisci adesso il tuo peccato, la tua arroganza? Tu hai pensato: cosa ci vuole, so bù a me, possiamo anche noi, impacchettare qualcosa, siamo anche noi artisti. Ecco i risultati. L’intervento non solo non è attraente, ma risulta per lo più repellente.

Ti squalifica culturalmente, perché ti presenta come uno che vuole palesemente cavalcare l’onda del momento, però senza mai aver messo piede su una tavola da surf.

Tu dovresti fare la guerra alla contraffazione, alle imitazioni servili, ma con questo gesto ti dichiari come imitatore, come impacchettatore, e non mi dice belle cose sulla tua autenticità,  sulla qualità dei tuoi prodotti: se il packaging è un’imitazione pretenziosa, come sarà il contenuto?

L’unico merito di questa vestizione, paradossalmente, è nel mettere a nudo la condizione di miseria spirituale del commerciante contemporaneo.  Dovrebbe essere il soggetto, l’esempio dell’essere attraenti. E invece indossa cose copiate, e di fatto non si sa vestire.

Per arrivare al commerciante evocato dal discorso di Petrini,  c’è davvero tanto da lavorare.

L’unico impacchettamento “artistico” capace di evocare Christo che un commerciante potrebbe fare – un gesto allo stesso tempo semplice ma sconvolgente, e non soltanto decorativo –  sarebbe quello di impacchettare il registratore di cassa, con tutto ciò che ne consegue…

(Pakati Tumulti è originario di un’antica famiglia di mercanti pakistani. Ha studiato ad Harvard ed alla Bocconi. Dopo aver lavorato per grandi società multinazionali, è oggi uno dei più autorevoli consulenti marketing del terzo settore. Lavora per enti non governativi e organizzazioni no profit tra Milano, Londra e New York)

fotografie (courtesy from CTRL) di Nicola Carrara,  http://www.nicolacarrara.photography

sullo stesso tema, vedi anche:  http://www.ctrlmagazine.it/christo-ci-ha-impacchettati-tutti-senso-di-the-floating-piers/

 

 

 

uliveto acqua della tristezza

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Segnalo Uliveto e Del Piero come pubblicità tristezza. Del Piero non gioca a calcio da diversi anni, e da parecchi non veste la maglia della nazionale (dal 2008), eppure Uliveto continua a cavalcare e a prorogare l’effetto scia, la coda della cometa,

e così Del Piero deve ancora esibirsi in stop e palleggi, in mezzo ai bambini, con l’uccellino sulla spalla, e parlargli (con battute come: “tu fai l’arbitro, devi solo fischiare!”).

Uno spettacolo penoso, non sapresti dire chi recita peggio tra Del Piero e i bambini. Sforzato, innaturale, noioso, ti lascia addosso una specie di tristezza, ti comunica falsità, vecchiaia, e a un certo punto anche in mezzo ai bambini ti sembra di essere in una casa di riposo. Sarà anche “l’acqua della salute”, ma ti rovina la salute mentale, l’umore.

La cosa strana è che stiamo parlando di un giovane uomo non stupido, non brutto, non ignorante, non arrogante, già grande campione di calcio, fisicamente in forma e molto ricco: eppure riesce a farti pena, e sei sinceramente dispiaciuto per lui.

In mezzo a questi bambini che evidentemente non sanno chi sia – essendo nati quando era già sul viale del tramonto – è proprio un pesce fuor d’acqua;

Come se i creativi, il brand, il marketing più che promuovere il marchio fossero interessati a svalutare il testimonial.

Il matrimonio Uliveto-Del Piero risale ai tempi che furono (dal 1998!) e forse durerà per sempre. Nonostante la condanna del Giurì come pubblicità ingannevole (nel 2004 e nel 2013) continua a definirsi come acqua della salute. Nella famiglia Uliveto-Del Piero sono comparse nel tempo figure come: una specie di amica o fidanzata, decisamente antipatica, poi una suora, una vicina sexy, quindi un figlio o nipote col quale Del Piero ha complicità anti-donne; e svariati amici-animali come l’uccellino con cui parla, e il cane che lo segue fedele.

In tutti questi contesti, da anni, Del Piero è fuori ruolo, e molto poco credibile.

Vogliono usare Del Piero come figura rassicurante, ma il fatto è che Del Piero non può giocare in difesa; Del Piero è un fantasista, uno che crea, inventa, scatta, non puoi fargli fare quello che sta dietro, rassicurante, non ha nemmeno il fisico;

Del Piero era uno che ti fregava con le finte, la finzione è una dinamica che fa parte del calcio, l’avversario lo superi di forza o d’abilità, cioè d’astuzia, ingannandolo.

Del Piero è questo, è l’amico rapido di mente e di parola, imprevedibile, intelligente, che ti fa fare quello che vuole.

Con Uliveto invece finge di essere quello che non è mai stato, affidabile, sicuro, lento.

Probabilmente Del Piero farà il testimonial per tutta la vita, farà le assicurazioni, le crociere e finirà con amplifon e polident. Però sarebbe meglio che interpretasse sé stesso, il tipo di giocatore che è stato, un attaccante, un fantasista. Con Uliveto ormai è letale, è “out live”, lo dice la parola (uliveto, in anagramma).

Questi ex calciatori sono di fatto, nella realtà, uomini che non sanno cosa fare da grandi, e se interpretassero sé stessi con sincerità e ironia, invece di recitare da bravi ragazzi mortalmente falsi e noiosi a beneficio di mamme e suocere, potrebbero essere molto più persuasivi, e impattare con forza il target del maschio “peter pan”, che ha lo stesso problema di Del Piero.

(imago: Del Piero ragazzino, con la grinta che manca totalmente ai ragazzini dello spot)

Sul logo del delitto (in luogo di diletto)

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Un racconto di love marketing (storie d’amore di marca, di seduzione, fedeltà di marca, tradimento d’immagine…) con sfumature giallo marketing (indagini di mercato) e finale fanta marketing (scenario futuro).

Ci sono prodotti, marchi, aziende che riconosci, e ami, come fossero cosa tua. Toccano i tuoi gusti, i consumi, le preferenze, le tue serate, la socialità, lo stile di vita.

Sono andato alla cascina Elav con lo stato d’animo dell’amante tradito, deluso, con la paura di trovare conferma negativa a una serie di dubbi e perplessità.

Ho amato birra Elav fin dalla prima volta, dal primo sorso, e ogni volta quando bevo una delle “mie Elav” (Punk, Indie, Grunge e Techno) le riconosco, e ritrovo quel qualcosa che mi aspettavo.

Ho amato allo stesso modo, incondizionatamente e fin da subito, anche la tribù elaviana, indistintamente, il capoclan, i guerrieri, le squaw, tutti indiani suburbani della bassa bergamasca, seguaci delle Dea Madre, che è Gea, la Terra-Madre simbolizzata dal marchio Elav, che come tutti sanno è un’incisione rupestre anatolica protostorica, d’epoca mitica-matriarcale, che rappresenta una grande vulva circo-solare con otto ovuli intorno (vedi il Bachofen, “La ginecocrazia nel mondo antico”) il che è decisamente di più e meglio della banca disegnata intorno a te (che ti mette al centro, è vero: e così ti ritrovi accerchiato).

Fino a poco tempo fa, andavi in giro a cercare i posti dove bere Elav. Adesso è difficile scovare un posto dove non la trovi. Il fatto è che le giovani aziende, come le giovani ragazze, a un certo punto si sviluppano, e passano dalla pubertà virginale alla configurazione puttanelle allegre.

Nel volgere di una stagione, Elav è passata dalle Indie e Yule Fest nel capannone della bassa a situazioni come l’estivo clerico-fighetto ad Astino, il notturno dj-set fighetto alla Gamec, i compleanni Trussardi…

alle partnership “alternative” con la piccola pasticceria di qualità, con le band metal, con il cinema d’autore, con il mondo vegano e con media antagonisti come Radio Popolare e CTRL, si sono sovrapposte le partnership con il business main stream, con i brand dei grandi gruppi tessili di Pitti Uomo, con l’avanguardia della GDO global all’Orioporto, e in cascina ecco l’avanguardia dell’industria tecno-cooking della cottura sottovuoto, per i nuovi carnivori…

Per capire cosa vuol dire questo percorso, e cosa rappresenti la cascina nell’universo elaviano in espansione, occorre fare uno approfondimento sull’evoluzione recente dello scenario birraio in Italia.

Quando non molte lune fa è iniziata la guerra d’indipendenza birraia (in sintesi: il consumo totale di birra in Italia è in calo, ma dentro a questo calo, o dietro, c’è il boom – o la bolla – delle birre artigianali) abbiamo visto gli addetti marketing dei grandi marchi mass market andare in esaurimento nervoso, e cominciare a scimmiottare, imitare il mood e lo spirito artigianale, in modo palesemente mistificante, a suon di spot, con lo zio Moretti in bicicletta nel luppoleto o nonno Poretti che getta i nove luppoli nel pentolone come uno home-brewer…

L’Expo è stata l’apoteosi di questa falsificazione, con la birra ufficiale che si dichiarava come birra a km0 in quanto prodotta a meno di 70 km da Milano!

Nel mentre, gli indiani delle tribù elaviane, svuotavano il calumet della pace e dissotterravano le asce di guerra.

E mentre già si verificavano i primi casi di acquisizione di birrifici artigianali da parte delle multinazionali (Birrificio del Borgo), le tribù elaviane, proprio come fecero i guerrieri sioux, apache, cheyenne e comanches delle grandi pianure ai tempi delle guerre indiane, invece di difendere la riserva, decidevano di scatenare una grande offensiva di conquista,

“se loro si appropriano del nostro linguaggio, dei nostri valori di indipendenza e artigianato, allora noi faremo nostri i linguaggi commerciali e industriali”,

questa, che mi era sembrata una provocazione intellettuale, incredibilmente, è diventata una strategia commerciale,

e dunque assistiamo a un singolare spettacolo di rovesciamento dei mondi,  per cui i grandi marchi si mettono a fare le ipa e a comunicare la poesia del mondo agro-sostenibile, mentre i temibili elaviani si mettono a conquistare il mercato di massa, il territorio, casa dopo casa, locale dopo locale, evento dopo evento, fortino su fortino, e con linguaggio “industriale”, martellante e continuo, ed evidentemente lavorando come pazzi, per essere ovunque e fare tutto quello che annunciano di fare.

Così si spiega la strategia super-commerciale elaviana, per cui vengono messe in campo sinergie non solo con i fratelli indie, ma anche con il sistema, e con chiunque, a scopo di espansione, occupazione, conquista territoriale. Una mission militare, diventare la birra di Bergamo, e cioè: non accontentarsi della nicchia internazionale di qualità, ma mettere radici forti, di dominio, nel proprio territorio, secondo la dinamica classica dell’uomo bianco.

E dunque: l’uomo bianco pensava di fottere i pellerossa usando arco e frecce, ma l’uomo rosso raccoglie i fucili winchester dell’uomo bianco e glieli rivolge contro. Il vero pericolo, naturalmente, è diventare come l’uomo bianco, ovvero produrre industrialmente una birra che fa schifo, con intorno una comunicazione farfallona, trionfalistica, e scientificamente ingannevole.

Precisamente a questo punto, sono entrato nel sito web di cascina Elav, e i miei dubbi hanno preso corpo.

Il logo di Cascina Elav è accattivante, industrial, ma concettualmente insensato: un corpo di fabbrica industriale, color maron, con una ciminiera che sputa una lampadina gialla. Una fabbrica per accendere una lampadina? L’effetto che fa è quello di un topolino partorito da una montagna.

Soprattutto, è fuorviante: ti immagini un’area ex industriale, tipo spazio Fase di Alzano, e invece il luogo reale è un’autentica, bellissima cascina medievale, pietra su pietra, con tanto di aia, muri di cinta, fienile, stalle, porticato e piccionaia!

Poi leggi il titolo-claim-concept: “un luogo dove il corpo si nutre di cibo, cultura e birra”, e hai quasi un accenno di nausea.

Apri la pagina “Il progetto” dove si spiega l’iniziativa virtuosa, la cascina “risalente al 1200” (c’è scritto proprio “risalente”) con i prodotti della terra km0 sostenuti da una dichiarazione di modestia stile bollicine: “prende i frutti della terra e li trasforma in arte”; ma nella pagina successiva, “beer&food”, ecco una micidiale mitragliata di still life zoom di costine – pollo – salmone –  trippa – hot dog, con effetto di menu plastificato di piatti pronti da fast food. E di birre non c’è traccia. Ti resta la prossimità nel menu di queste parole, il progetto/food&beer: sai che progetto!

Un birrificio apre una cascina-madre, mi sbatte in faccia di decine di piatti, di spettacoli, di film, e non una parola, non un’immagine riguardo le birre. Perché questa dimenticanza? Cosa significa?

Le birre Elav hanno sempre avuto problemi d’identità, d’immagine e identità per la precisione, a cominciare dalla Punk, quella con la bandiera inglese, che ha lo stesso nome della Punk di Brewdog, che è veramente inglese.

Le etichette sono tutte diverse, il dogma dell’immagine coordinata totalmente trasgredito, troppi colori, troppi segni, troppi stili: nemmeno il lettering del logo è sempre lo stesso, e l’emittente non è facilmente identificabile.

L’immagine è confusa, dispersiva, ma la sostanza è certa, forte: non le riconosci dall’etichetta, le riconosci dal sapore.

La prima paura del bevitore elaviano è che la birra non sia più lei. Il rischio è quello.  Il birrificio artigianale per sua natura è esposto a una serie di pericoli relativi alla qualità delle produzione, soprattutto nello sforzo di assecondare le quantità richieste. Già per sua natura la produzione artigianale non è mai identica a sé stessa, e forse dovrebbe essere segnalata la cotta, così come nel vino si indica l’annata. E poi esistono uomini bianchi “amici degli indiani” che si offrono di fare loro la produzione, altrove, in grandi numeri, a costi più bassi.

Così, se adesso vedo questo logo industriale, con ciminiera, e silenzio sulle birre, io mi pongo delle domande: che l’industrializzazione grafica della cascina nasconda, e riveli, l’industrializzazione produttiva della birra Elav?

I segni parlano, indicano, suggeriscono. Il logo cascina Elav è industrial. Il sito è commerciale. I contenuti paiono piovuti da fuori, da altrove. La mancanza delle birre è sintomatica.

E così entro in cascina. Tanto il logo è finto e industrial, tanto il luogo è autentico e contadino, bello, ti colpisce, ti fa respirare.

Muretti a secco, storti, fatti con sassi di fiume, beole, mattoni rossi, vecchie travi, sotto gli intonaci sgretolati si esibiscono nude superfetazioni che raccontano la storia minima della grande moralità contadina;

l’esperto riconosce e legge le epoche, il medioevo, il lunghissimo medioevo, nessuna traccia di rinascimento e barocco, fenomeni per classi agiate, qui si passa direttamente dal nome della rosa all’albero degli zoccoli, qui senti il tempo lungo del contado rurale, e negli interni vissuti fino a pochi anni fa, con le piastrelle brutte, senti la continuità esistenziale del vivere in cascina, una lotta continua contro la miseria,

mia nonna diceva “le travi a vista, i pavimenti in cotto” per indicare una casa di poveri contadini…

questo spirito autentico è il dato potente di cascina Elav, che trova armonia con le birre, che riconosci, e con l’idea di fare cinema e teatro nel fienile, uno spazio non grande, non progettato, ma perfetto,

(immagino di vedere qui – è in programma – quello che reputo il più grande film da multiorgasmo psico-ottico, creatore del linguaggio spot-adv contemporaneo, un film con un titolo indicibile, che è un’espressione pellerossa che vuol dire e suona esattamente così: “coioni scazzi”, e già godo)

poi provo l’hamburger, parlo con lo chef, un grande sforzo per offrire a costi “umani” una qualità culinaria (e alimentare) superiore, la cucina del futuro, la cottura lenta, sottovuoto, una grande attenzione alle proprietà organolettiche degli alimenti, va bene, mi hai convinto, ma perché tutta quella roba, e proposta in quel modo: se devi farmi la cosa vera, la cosa speciale, fammi tre cose, quattro, e dagli altri nomi, e mostramele in altro modo…

Dunque la cascina, a dispetto del sito e del logo, non è una fabbrica per l’ingrasso dei clienti e del fatturato, ma piuttosto un presidio, un avamposto che appaga bisogni interiori, profondi, difficilmente esplicabili dai linguaggi correnti del social networking e dello story telling. Qui emergono parole radicali, coraggio, semplicità, verità; parliamo di una cascina fatiscente come tante, con un destino già scritto, abbandono, degrado, o peggio ancora recupero e rilancio con qualche iniziativa turbo-capitalista d’eccellenza, luxury resort per nuovi ricchi o residenze pseudo nobiliari invendibili.

Situazioni cioè dove le finiture di pregio rappresentano il vero degrado, la vera causa di morte del genius loci. Si crede di recuperare un edificio storico, e invece lo si annichilisce per sempre. Riportato “a nuova vita”, tirato a lucido, solitamente  lo spazio risulta definitivamente morto.

Cascina Elav invece esibisce nuda e cruda la sua semplicità, l’autenticità, l’aia erbosa, il fico, la stalla, il fienile. Così bisogna fare. Prendere le vecchie cascine, e rimetterle in funzione, preservandole il più possibile così come sono.

Una visita che mi ha molto rassicurato. Resta l’assurdità di una immagine e comunicazione fuorviante e incoerente. Logo del delitto in luogo di diletto.

Qui veramente sei nel Mulino Bianco dove Banderas fa i biscotti: perché truccarsi da fabbrica del vapore?

Senza paura, la cascina Elav è il vero Mulino Bianco, la cascina dei nonni, e dunque, se proprio,  invece della ciminiera, se hai il coraggio, bisogna stilizzare la piccionaia; e al posto della lampadina, mettere una colomba della pace, o anche un piccione viaggiatore.

E servirebbe titoli più adeguati allo spirito della cascina: “il progetto beer&food” e “un luogo dove nutrire il corpo di cibo, cultura e birra” vanno bene per i locali regimental, qui vogliamo lo spirito indie, le radici della tribù.

Da qualche parte, non molto tempo fa, ho visto un manifesto del “codice elavetico”, che iniziava così:

siamo tutti figli del nostro tempo, e della madre terra,

abbiamo fame di verità e sete di libertà…

e finiva così:

la vera ricchezza, è condivisibile.

E a questo proposito, la vera riflessione, la scommessa, la grande sfida con i marchi industriali per diventare un marchio territorialmente radicato sarebbe una sola: la politica di prezzo.

Le tribù elaviane stanno dimostrando di essere capaci di fare i miracoli. Sarebbe bello che la birra madre, nella cascina madre, fosse proposta a un prezzo popolare.

 

molti spot poco messaggio

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Ieri sera, come faccio almeno una volta al mese per non perdere il contatto con la mentalità main stream, ho guardato mezz’ora di tv generalista,

in particolare ho assorbito la carrellata di spot a contorno della partita della Nazionale di calcio, la trasmissione col più alto indice di ascolto,

le partite dell’Italia rappresentano una sorta di forma di vita religiosa nazionale, è il momento dell’identità collettiva italica e del rispecchiamento massivo di aspirazioni, speranze, eccetera.

In rapida sequenza, dopo il finale di partita, sono stati trasmessi 8 spot commerciali,

quello che sperimento e mi colpisce sempre è l’effetto complessivo della carrellata sulla mia psiche, e la questione che voglio evidenziare è questa: chi produce spot e compra spazi ragiona sul proprio spot come fosse un messaggio unico, con un inizio e una fine e un obiettivo di comunicazione, ma nella realtà lo spettatore “assume” gli spot in serie, uno via l’altro, e l’effetto vero è determinato dalla fusione, dalla marmellata/carrellata del blocco di spot in sequenza.

Poiché i messaggi di ogni singolo spot sono sempre più blandi e scontati, quello che emerge sono le stonature, le associazioni mentali che nascono per contrasto o assimilazione tra ogni spot e lo spot che lo precede e lo segue.

Il treno di 8 spot sorbito ieri sera è esemplare, e la domanda finale è sempre la stessa: le correlazioni che ne escono sono volute, o casuali?

Dopo la cornice dei cartelli “top sponsor” della Nazionale (Tim, Fiat, Eni) ecco in successione:

1)    la carne in scatola Montana (“se cerchi carne italiana la migliore è Montana”);

2)    l’integratore alimentare Meritene;

3)    UBI banca (con immagini cartoon di contadino che coltiva i frutti della terra mentre si parla di risparmi)

4)    Fiat Tipo (offerta a un “prezzo stratosferico” visivamente ben evidenziato di €12.500)

5)    la carne in scatola Simmenthal (“De Sica? No, Simmenthal!” con la scritta “sapori italiani” in evidenza);

6)    l’integratore alimentare Multicentrum (“Tutti vogliono una vita a colori”)

7)    FINECO banca (con un bambino che dorme)

8)    Skoda Fabia (a un prezzo visivamente ben evidenziato di €10.500)

Come si vede si tratta di 4 coppie di prodotti/servizi concorrenti, e l’effetto evidente è che i primi 4 servano a lanciare/spingere i successivi: Montana mi parla di carne italiana, e poi arriva De Sica con i sapori italiani; Ubi promette relax e poi arriva Fineco con i sogni d’ori; Fiat grida un prezzo basso e subito dopo Skoda rilancia al ribasso.

Spengo la Tv e penso: bah! Ti fanno una testa così sulla pubblicità come strumento scientifico, quando progetti una comunicazione ti senti investito di una grande responsabilità, ma di fatto poi tutto dipende da chi costruisce la scaletta, dal contesto più o meno congruo a un certo messaggio.

Prima di andare a dormire, vedo un altro treno: Banca Intesa finisce con lo slogan “sharing ideas” e subito dopo Coppa del Nonno inizia con: “ti ricordi quando per condividere bisognava essere insieme?”

Paradossalmente, se io fossi un inserzionista, mi limiterei a piazzare un cartello col nome del mio prodotto nell’interstizio giusto tra un spot che mi faccia da introitus ideale e uno che mi faccia da exitus ideale.

Qual è l’effetto di uno spot fantastico sulla crema alla nocciola, se è preceduto da un prodotto anti dissenteria e seguito da cinque piani di carta igienica?

(photo: Biennale di Architettura, padiglione Montenegro)

Consiglio di classe

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“Nelle scuole, e soprattutto nelle scuole superiori ossia secondarie, l’indole naturale dell’allievo si snatura a causa delle inutili e marce nozioni con cui questi allievi vengono continuamente ingozzati,

e quando abbiamo a che fare con allievi di cosiddette scuole superiori, e cioè di scuole secondarie, abbiamo a che fare soltanto con individui snaturati, la cui indole naturale è stata annientata in queste cosiddette scuole superiori ossia secondarie;

le cosiddette scuole secondarie e soprattutto i cosiddetti licei-ginnasi servono in sostanza unicamente alla corruzione dell’indole umana,

ed è ora di riflettere su come possano essere soppressi questi centri di corruzione, dal momento che senz’altro dovrebbero essere soppressi, perché da tempo sono ormai riconosciuti come centri di corruzione dell’indole umana, esistono le prove di questo: le cosiddette scuole secondarie, insomma, dovrebbero essere soppresse,

il mondo si troverebbe meglio se sopprimesse le cosiddette scuole secondarie, i licei ginnasi, le scuole superiori, eccetera, e ci si concentrasse soltanto sulle scuole elementari e sulle università …”.

 

 

librai indipendenti?

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fiera-librai-bg-16-apr-1-magLa locandina recita: “I librai indipendenti di Bergamo ospitano i vincitori dei premi Nobel, Campiello, Strega, Bancarella e Grinzane Cavour”.

Trovo questa frase tragicamente comica.  Compagni librai, qui la contraddizione è troppo marcata. Come fai nello stesso tempo a proclamarti indipendente e a vantarti di ospitare i vincitori dei premi di regime?

Il premio Nobel è il padre di ogni forma di lavaggio della coscienza collettiva, ma l’importo è talmente ingente che tutti ne dimenticano la provenienza.

I premi Campiello, Strega e Bancarella sono i più noti e istituzionalizzati premi letterari. Tra questi premi e le case editrici esistono gli stessi rapporti che esistono tra le case discografiche e i festival di Sanremo e simili.

Il premio Grinzane Cavour non esiste più dal 2009, quando è stato chiuso dalla magistratura e i beni sequestrati a causa dei comportamenti illeciti della presidenza, ovvero della gestione clientelare del premio stesso.

Allora, se questo è quello che fanno i librai indipendenti – ospitare i vincitori dei premi main stream, anche quelli andati a male – vuoi vedere che per trovare i nuovi autori, gli scrittori maledetti, le voci dissidenti, i sovversivi, gli esordienti, o anche solo gli autori “perdenti” dei grandi premi, devi andare nelle librerie coatte, di regime, dipendenti dalle multinazionali?

 

l’anno del giardiniere

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So che ci sono molte belle professioni, per esempio scrivere sui giornali,, votare in parlamento, sedere in un consiglio d’amministrazione oppure firmare scartoffie d’ufficio, ma quantunque tutto questo sia bello e meritorio, nello svolgere queste professioni, l’uomo non fa quella figura e non ha quella postura così  monumentale, plastica e chiaramente statuaria che ha l’uomo con la vanga.

Signore, quando sta così sulla sua aiuola, con una gamba appoggiata alla vanga, asciugandosi il sudore e dicendo “Ah!” , allora sembra proprio una statua allegorica; basterebbe scavarla con attenzione, estrarla con tutte le radici e metterla su un piedistallo con la scritta “Trionfo del Lavoro” oppure “Il Signore della Terra” o qualcosa del genere.

Dico questo perché adesso è proprio il tempo di farlo, voglio dire il tempo di vangare.

(Karel Capek, L’anno del giardiniere, 1925. Prima lettura 2008; rilettura: ieri. Foto: a ds Karel Capek; a sn. il fratello pittore Josef, inventore della parola “robot”)

Il respiro – una decisione

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AUSSTELLUNG "THOMAS BERNHARD UND DAS THEATER" IM ÖSTERREICHISCHEN THEATERMUSEUM

Il malato è un veggente, nessuno possiede un’immagine del mondo più chiara della sua. L’artista, e soprattutto lo scrittore, ha addirittura l’obbligo di farsi ricoverare di tanto in tanto in un ospedale, e poco importa se questo ospedale è un ospedale vero o una prigione o un convento.

L’artista, e soprattutto lo scrittore, che non si faccia di tanto in tanto ricoverare in ospedale, che non si faccia perciò ricoverare in un quartiere del pensare come questo, di vitale e decisiva importanza per la sua esistenza, finisce col tempo per smarrirsi nella futilità perché rimane impigliato ala superficie delle cose.

L’artista o lo scrittore che per un motivo o per l’altro si sottragga a questo compito è condannato in partenza a diventare una nullità. In questo quartiere del pensare ci è possibile raggiungere un  grado di coscienza che è impossibile raggiungere al di fuori del quartiere del pensare.

In questo quartiere del pensare otteniamo ciò che al di fuori di esso non è mai possibile ottenere, la coscienza di noi stessi e la coscienza di tutto ciò che è.

(Thomas Bernarhd, Il respiro, 1978. Prima lettura, 1989. Rilettura: ieri)

una ragazza per l’estate

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Per sei mesi era stata la mia amante, sempre con quell’aria di domandarmi… non so, forse tutto. Era bella, silenziosa e irrequieta, con un viso d’amore vagamente sofferente e arrendevole. Il mio passato era così pesante che avevo deciso di fare la felicità di una creatura, almeno.

Miseria, discredito, debiti. Si fa di tutto, novelle per rotocalchi, traduzioni, il soggetto per un film idiota, articoli; aver la testa vuota, il cuore morto, e disonorarsi, scrivere, che cosa non ha importanza, ma scrivere, e pagare, pagare ancora, elemosinare l’anticipo e ingoiare la vergogna: “Il vostro ingegno, che apprezziamo sempre…”. E mi toccava ringraziare. Disgraziato!

Gettavo nervosamente la sigaretta appena accesa, oppure fingevo crisi nervose e di sfiducia verso l’umanità, tanto per chiudermi in camera, e lei raddoppiava la dedizione, infantilmente ostinato, allora me la prendevo vicino, e mi dedicavo a lavori forzati di erotismo in cui il mio disinteresse era tale da lasciarmi sempre la lucidità necessaria al raggiungimento di successi sbalorditivi.

L’esaurimento nervoso mi aveva ingrassato di un leggero grasso malsano, i muscoli mi s’inflaccidivano, la carnagione tendeva al grigiastro. “Un invertebrato, ecco che cosa sei, un verme pallido”, pensavo, scivolando all’indietro; lei gridava, pareva pazza: risalivo… Un gran grido, un lungo silenzio, poi i suoi grandi occhi che mi fissavano, io già temevo di dover subire qui complimenti tecnici, invece, respirando appena, sforzandosi di osare, aveva detto: “Sai cos’è che mi piace di te?” “Dimmi” “La tua nostalgia”.

Ho preso la sua mano e siamo restati là, zitti, tristi. Mi aveva rivelato quel che accadeva. Io sono debole, e temo; temo sempre di restare solo, di aver paura, di parer miserando: me ne rendo conto quando una donna mi guarda; vorrei un po’ do comprensione ponderata, e lei indovina: non è che i mie occhi si accendano, si illuminano; ascolto musiche angeliche, cori di voci bianche, la interesso, si china su di me, mi toccherà…

E quando si dona so che è proprio vero, e sono contento di sentirmi sicuro; le mie labbra e i miei gesti la ringraziano con tremori tardivi, l’amo, crede che l’ami.

(Tratto da: Maurice Claudel, Una ragazza per l’estate, 1959. Imago: Pascale Petit, interprete dell’omonimo film. Prima lettura: estate 1999. Rilettura: stasera. Rileggere è un po’ come ritornare in un posto,  o con una donna, rischi la delusione, l’estraneità, le cose cambiano, gli anni passano, ma rischi anche di ritrovare, riprendere possesso, e finalmente, anni dopo, capire te stesso.)