andare in giro in macchina, per qualsiasi ragione,
è sempre stata la mia unica vera attività intellettuale,
un’attività ormai trentennale, d’abitacolo mobile,
sia per lavoro, di fretta, col nervoso e lo stress,
ma anche senza motivo, a zonzo, in total relax;
dopo una vita al volante, a un certo punto metti la retro, ti guardi indietro,
di tutte le cose viste, percepite, assorbite, ti resta una maglia fitta,
un archivio senza ordine, stratificato, confuso, indistinto,
soltanto rimettendoti lì, al posto di guida, per strada,
nel flusso del traffico, riprende vita il flusso di coscienza;
sempre in cerca di qualche linfa, come uno zombie,
fuori ci sarà qualcosa, fuori di me, al di là del parabrezza,
ci sarà un mondo, una strada, un incrocio, esseri umani e architetture,
tracce di vita e cose gettate fuori, che restano come punteggiatura
sui margini non transitabili della carreggiata;
il mio primo parabrezza, rimediato da una lambretta, nel garage del nonno,
montato sul manubrio della saltafoss con elogiabile spirito d’iniziativa puberale:
mi aggiravo nei dintorni dei capannoni pedalando furiosamente,
a volte si trovavano dei giornalini porno gettati da qualche camionista;
primo giorno con la patente, prima guida da solo, primo incidente,
il curvone delle piscine preso allegro, decisamente allegro, senza paura,
per un attimo ti senti il campione del mondo Rally, su Lancia Stratos Alitalia,
l’istante dopo il mondo ti va a rovescio, l’orizzonte un’elica di biplano,
e sei un neopatentato ribaltato nella 127 color becco d’oca di tua madre;
il deflettore, insuperato capolavoro di tecnologia funzionale,
ti permetteva di fumare tenendo la sigaretta praticamente fuori dall’abitacolo,
sviluppavi un’abilità digitale particolare, con la sigaretta già accesa
dovevi premere un pulsante a molla, ruotare un maniglino e spingere convinto
per vincere la forza sigillante delle guarnizioni di una volta, e tutto in sincronia,
e con armonia, tenendo la sigaretta in asse, per non scrollare la cenere;
in certe strade secondarie, comunali, intercomunali, sconnesse,
ti ritrovi dietro a un trattore del dopoguerra, arancione, a 15km/h,
guidato da un vecchiaccio in giacca di fustagno, pacificamente tetro,
il grosso sedere saldato al sedile spartano, in lamiera forata, arrugginito,
archetipo dello sgabello che hai in studio, scintillante di design;
anonimi fossati, che ad Aprile vedevi lussureggiare gravidi d’acqua,
e di notte, d’inverno, con la nebbia e il ghiaccio, temevi t’inghiottissero
a un certo punto, nella stagione dei lavori in corso, spariscono,
diventano marciapiedi, o posti auto riservati per i clienti dei negozi
che nel frattempo sono spuntati, dove prima spuntava il granoturco;
quei viadotti tutto cemento, sembravano usciti da un disegno di Sant’Elia,
li aggredivi a tavoletta al volante dell’Alfetta 1800, con la super 98 ottani,
e con gioia demente buttavi il pacchetto di Marlboro fuori dal finestrino:
adesso guidi una Lexus ibrida, elettrica e metano, e non superi i 50,
c’è l’autovelox, e nemmeno la cicca delle superlight butteresti fuori,
e il viadotto è penosamente vecchio, triste, fragile, sembra più piccolo,
con le nervature d’acciaio arrugginite sotto l’intonaco sgretolato; (continua)
fine prima puntata, tratto da “Andare in giro in macchina è sempre stata la mia unica attività intellettuale” by Leone Belotti per BaDante/CalepioPress 2013; immagine by Virgilio Fidanza, http://www.virgiliofidanza.it/