47 TFIC – 16 pamphlet

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16 Libro inchiesta

lo scrittore di questioni sociali

Il libro-inchiesta, il pamphlet, il j’accuse, il manifesto di un nuovo pensiero o movimento, l’indagine, il reportage, il libello polemico:

parliamo del successo dello scrittore di cose sociali, dell’intellettuale impegnato, ieri Sartre, Queneau, Pasolini, oggi Naomi Klein, Travaglio, Saviano.

Tutti hanno il saggio-bomba nel cassetto, o perlomeno in testa.

 

Negli anni Novanta del secolo scorso, il decennio della conclamata “sobrietà”, il mio disgusto verso il sistema della moda raggiunse i massimi livelli.

Passavo interi pomeriggi a conversare con l’architetto Baroli – un compasso d’oro! – nel suo bunker in via Durini.

Lui mi raccontava con il sorriso dell’esteta depresso segreti e bugie del made in Italy, io cercavo un modo per rivelare al pubblico cose eclatanti e lineari, come i meccanismi finanziari del cosiddetto “valore culturale aggiunto” per cui una polo o un jeans da 5 euro – una volta griffati – vengono venduti (ancora oggi) a 20 volte tanto, cioè con un ricarico del 2000%.

 

Solo un popolo ignorante può pensare di comprare cultura in una boutique. Solo un paese marcio può asservire industria e banche a un gruppo di “stilisti”, dietro cui si muovono altre economie, è chiaro.

Solo un sistema mediatico corrotto può propalare per decenni certe menzogne colossali e non dire mai niente di quello che c’è dietro la facciata, e non parlo di modelle e festini, parlo di pubblicità, soldi e banche.

Che fare?

Se andavi da un editore con questi argomenti si metteva a ridere.

I media italiani stanno in piedi con le pubblicità di moda.

Un libro verità sul papa, sulla camorra o sulla CIA si può fare: ma sugli stilisti no, impossibile.

L’unica strada come sempre era il Trojan Horse. Colpire dall’interno, sotto mentite spoglie.

Sabotaggio neo-situazionista.

 

 

Ancora non esistevano i blog. Così comincio a raccogliere dati e materiale fingendomi un laurendo adorante con la sua tesi celebrativa sul made in Italy. L’idea è un libro-verità, un pamphlet, un j’accuse.

Quindi mi occorreva uno pseudonimo dietro il quale lasciar intendere la presenza di un grande imprenditore, così da ottenere l’attenzione della stampa servilista. Infine un piccolo editore autorevole che pubblicasse e distribuisse il libro.

Niente da fare. Anche qui, occorreva usare le armi del nemico: se chiami un editore e gli dici ho un libro che è una bomba, ti mette giù il telefono, se gli dici ho un libro camomilla e trenta milioni da spendere, ti viene a trovare il giorno dopo.

Per fare un libro pagato – non avendo come sempre il becco di un quattrino – mi occorreva dunque un mecenate disposto a finanziare l’operazione senza alcuna prospettiva di profitto.

 

Parliamone a Boggi – mi disse Baroli – il vecchio Boggi ha sempre odiato il sistema della moda.

Il vecchio Boggi fu entusiasta, da anni cercava qualcuno che scrivesse un libro verità sul sistema della moda (avrei dovuto riflettere sul perché non l’avesse ancora trovato, in effetti) al punto che era disposto ad aprire la borsa e divenne egli stesso fonte di notizie interessanti:

ad esempio: le camicie cotone uomo Boggi, vendute allora  a 40.000 lire, e le camicie uomo della Standa, vendute a 25.000 lire, e le camicie uomo di Armani, vendute a 120.000 lire, erano le stesse, ma proprio le stesse, prodotte in India dal suo amico Bora.

 

Per l’edizione scelsi Lubrina, allora diretta da Claudio Calzana (che oggi dirige il marketing de L’Eco di Bergamo) a cui va il merito di aver inventato il nome dello pseudonimo: Sean Blazer.

Sean come Sean Connery, l’agente 007, e Blazer come Blazer, che vuol dire “strillone”, nome della nave inglese addetta alle comunicazioni divenuta celebre per l’estro del comandante, che fece fare le divise blu (nella stiva c’era una pezza di tela blu) in occasione della visita della regina, che apprezzò (così nasce il Blazer, la giacca blu con i bottoni dorati).

Così pubblico il pamphlet come Sean Blazer (“Mercanti di moda”, Lubrina 1997, retro di copertina: Sean Blazer è uno pseudonimo sotto il quale si cela un imprenditore fin troppo noto…) e lo mando a tutti i giornali. I pesci abboccano.

Le prime recensioni appaiono su Il Manifesto e Milano Finanza. Ci si chiede se Sean Blazer sia De Benedetti o Luciano Benetton.

 

Il libro va esaurito.

Boggi non resiste. Rilascia un’intervista a Diario dove si rivela come imprenditore di sinistra (!).

Subito dopo Panorama fa un reportage di 4 pagine con la mia foto e rivela che Sean Blazer è un anarchico di destra (!).

 

La mia idea su Sean Blazer era quella di un nome collettivo che chiunque potesse usare come scudo-egida, tipo Luther Blisset. Speravo che dieci, mille Sean Blazer saltassero fuori ad alimentare l’incendio.

Invece dopo tre settimane, visto che dietro non c’era Benetton né un pari requisiti, era tutto finito e l’unico ad essere rimasto bruciato era il sottoscritto.

Nella mia ingenuità, immaginavo che dopo questo attacco al sistema tipo Davide contro Golia (un lavoro giornalistico con i fiocchi, a parere di tutti gli addetti ai lavori) mi si sarebbero spalancate le porte della grande editoria, o del grande giornalismo.

Sbagliato. Anche da L’Eco di Bergamo, per il quale scrivevo di arte sacra, altra mia passione castrata, fui allontanato col marchio di “inaffidabile”. Invece del Pulitzer, mi ritrovai con un pugno di mosche.

 

Crisi.

Per trovare lavoro, dovetti cambiare nome e sesso (Alice Lewis) e rivolgermi all’unico settore editoriale dove vige piena e totale libertà d’espressione: Harmony, Confidenze, Intimità e Grand Hotel, romanzi rosa e fotoromanzi.

In seguito non sono mancate altre sorprese amare (la metamorfosi possessiva del vecchio Boggi, identificatosi totalmente in Sean Blazer) ma anche alcune soddisfazioni (la stima di Benedetta Barzini, che volle conoscermi, e inserì il testo di Sean Blazer nel programma d’esame del suo corso di Storia della Moda all’Università di Urbino)

e qualche sorpresa tardiva, come la telefonata di settimana scorsa, quando mi si invita a una trasmissione televisiva sulla moda, per discutere se il mio pamphlet, che ha ormai 14 anni, sia ancora d’attualità.

Mi fanno notare che anticipa di un paio d’anni parecchi dei ragionamenti che hanno poi fatto la fortuna del best seller planetario “No Logo” della Klein.

 

Così vado a questa trasmissione, leggo qualche brano, divulgo semplici verità e vengo assalito  dalle pr che lavorano per la Camera della Moda

(e anche insultato, fuori onda: voi intellettuali del cazzo che non fate un cazzo dal mattino alla sera e venite a tirare merda sulla gente che lavora)

ma se non altro conquisto i ragazzi del pubblico, che poi vengono a stringermi la mano.

Il giorno dopo guardo la registrazione e mi rendo conto dell’effetto casualmente o paradossalmente destabilizzante della trasmissione.

 

Esempio: io spiego il meccanismo del valore culturale aggiunto che fa vivere tutto il sistema mediatico parassita, e dopo la pubblicità viene mandata l’intervista al boss Boselli che trionfante dice: 2000 giornalisti alla fashion week! (alla Fashion Week, non in Siria!).

Quindi si torna in studio, io spiego che le banche strozzano tutto il popolo della partita iva, artigiani e piccole imprese per poi finanziare con centinaia di milioni di euro queste griffe che non restituiscono niente e costruiscono alberghi a Dubai, ed ecco dopo la pubblicità l’intervista al boss Moschillo, che con perfetto mix di arroganza e servilismo si vanta dell’appoggio di istituzioni e banche per rilanciare il made in Italy!

Cosa dire? Fare un libro per definizione effimero, un pamphlet,  sull’argomento più effimero che ci sia, la moda,  e ritrovarselo poi come testo universitario, e passati 14 anni scatenare ancora un putiferio, e tutto questo senza fare carriera e senza guadagnare un euro, beh, sono soddisfazioni impagabili.

Per tutto il resto, ci vorrebbe la Mastercard honoris causa.

(Per darti un’idea in tre minuti, ho selezionato alcuni spezzoni e li ho “caricati” in rete > clicca qui per vederli: www.youtube.com/user/officinabad)

Crisi.

Imago: archittture sospese by Jennifer Gandossi

 

 

 

47 tentativi fallimentari d’impresa culturale – 10

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boggiarab

10 brand writing

lo scrittore da immagine coordinata

Oggi Boggi è un marchio moda molto conosciuto, una catena con negozi in tutta Italia. Quando ho cominciato a lavorare per Boggi l’unica cosa che esisteva era il signor Boggi con i suoi 7-8 negozi a Milano, tutti diversi, con nomi diversi, niente marchio, niente immagine coordinata.

La creazione del brand, di fatto, è stata opera dell’arch. Baroli, che ha creato il logo, i colori, il lay out vetrine, le etichette e la comunicazione. Io scrivevo tutto il necessario, dagli head line (Boggi/tempi di contenuti e Boggi ha solo clienti fedeli a sé stessi) a tutto il corollario di etichette, inviti, cartelle stampa, brevi storie del cachemire, della camicia, del taglio sartoriale, piccoli librini dati in omaggio nei negozi. Un lavoro di anni, la costruzione di un’identità di marca.

Poi un bel giorno Boggi ha venduto il giocattolo a una finanziaria, si è preso i suoi milioni di euro, e la nuova proprietà ha affidato la comunicazione alla grande agenzia.

Crisi.

L’esperienza a fianco di Luigi Baroli in realtà è stata preziosissima. Tutta quell’attenzione maniacale (che io allora non capivo) all’integrazione prodotto/vetrina/comunicazione in quegli anni Novanta era l’arma totale per dare visibilità e valore al marchio, erano gli anni della fidelizzazione, della fedeltà di marca, tutte cose che derivano dal saper proporre e rinnovare un universo coerente, un linguaggio riconoscibile, una storia credibile.

Si tratta di imparare a calibrare un certo tono, uno stile di comunicazione, come se l’azienda fosse una persona, con un suo lessico, una sua mentalità.

Lo scrittore da immagine coordinata, mi diceva un vecchio art, non deve essere un dio, ma bensì il suo assistente, cioè quello che, dopo che dio ha mosso l’indice e promanato il verbo, lavora duro tutta la settimana per completare la creazione di ogni ordine e specie vivente.

In un certo senso occorre saper fare il contrario del gesto creativo istintivo, che vuole inventare, colpire, stupire, no, qui bisogna dare continuità e coerenza e sicurezze e conferme al messaggio originario, il verbo aziendale, fisso come il sole, e solitamente banale.

Un lavoro da svolgere in simbiosi con l’art o l’arch che crea l’immagine di marca, e tutto il corredo infinito che va dal biglietto da visita al lay-out dei negozi passando per le insegne, le etichette, il packaging, le campagne pubblicitarie, le brochure, i cataloghi, tutta roba che oggi viene fatta per il sito web, a volte dimenticandosi una delle regole basi (il mezzo è il messaggio).

Di fatto poi nelle richieste quotidiane ti ritrovi a misurarti con crisi di rigetto, impieghi mezza giornata a scrivere quelle maledette dodici righe dove ancora una volta devi saper dire tutto sull’azienda e sulla qualità del prodotto specifico.

Crisi.

Ad ogni modo, se entri nel tunnel dell’immagine coordinata  e dell’identità di marca, ci puoi portare dentro chi vuoi, è un discorso che dà sicurezza, è come spiegare a Hitler che per invadere la Polonia occorrono divisioni corazzate, copertura aerea, e fanteria d’assalto, nell’ordine. Ti seguono subito.

In realtà, la vera missione del creativo, dopo aver convinto il cliente a dotarsi di un’immagine positiva, è quella di convincerlo ad avere non solo un’immagine, ma una sostanza, un’identità positiva, e dunque a migliorare realmente il prodotto, il servizio, indirizzare la filosofia aziendale nell’ottica della sostenibilità sociale/ambientale e della consapevolezza del consumatore.

Cominci a entrare nella psiche di un’azienda scrivendo le istruzioni tecniche o le didascalie del catalogo, ma devi avere già in mente la visione strategica complessiva.

Con la rete web e le opportunità dell’e.commerce, figura ruolo e prospettive del brand writer entrano in una nuova direzione.

La tendenza è in certo modo sovversiva, il creativo diventa egli stesso negozio, può scegliere i prodotti da comunicare e vendere, gestire in proprio tutto il web-marketing, accorciare e riunire la filiera della costruzione del valore culturale aggiunto e della distribuzione commerciale.

I brand writer di domani saranno dei blogger dotati di capacità di persuasione che si muoveranno su diverse piattaforme di e.commerce come ambulanti nei mercatini, ripristinando in modalità web la figura del commerciante-persuasore capace di raccontare il prodotto, un prodotto che sperimenta egli stesso, figura ormai scomparsa nella grande distribuzione dove tutto è affidato all’immagine coordinata e il commesso-venditore ha solo una funzione di servizio.

Il brand writer del web e dell’e.commerce, più che scimmiottare i format dell’epoca cartacea, dovrà agire nella costruzione della community-clienti, stimolando risposte e partecipazione così da rendere partecipe il target stesso alla costruzione della mitologia di marca.

Dunque dovrà creare delle occasioni di comunicazione, offrire occasioni di visibilità, gallery fotografiche, video, profili facebook e/o twitter o altro a seconda del target e del prodotto, e invece di imporre e inviare messaggi a senso unico, dovrà inventarsi dei giochini, degli scherzetti, con meccanismi virali, per solleticare risposte e contributi.

Alla fine fai sempre una forma di letteratura, e ancora una volta dimostri il teorema per cui con la letteratura giusta si può vendere facilmente di tutto.

Eccetto la letteratura, chiaramente.

Crisi.