il senso del gelato per Bergamo

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Una mucca che ti guarda è l’icona pop di expo-gelato 2015, mostra-happening  dedicata al gelato artigianale, che si inaugura sabato pomeriggio a Bergamo Centro zona Sentierone (la mostra sarà nel chiostro di S.Marta, il laboratorio/show in Galleria).

Parlare delle delizie del gelato, se il tema è nutrire il pianeta, può sembrare uno snobismo, e solleticare facili ironie storiche in stile Maria Antonietta, ma in realtà la storia del gelato è un perfetto esempio di come funziona realmente (o funzionava) l’evoluzione umana prima e oltre il copyright che oggi le grandi holding piazzano su qualsiasi cosa: in realtà nessuno inventa mai niente, ma tutti collaborano a creare tutto, e insieme è possibile fare qualcosa che nessuno è in grado di fare da solo.

Il gelato nasce da secoli di perfezionamenti apportati dal “fare insieme” di anonimi artigiani provocati alla creatività da alcuni “geni” o “inventori” (molti dei quali italiani): chi inventa e crea è sempre un soggetto plurale, e umano, mai un marchio commerciale.

Una storia per molti aspetti italiana, in momenti cruciali (il passaggio dal sorbetto al gelato, l’apertura di gelaterie pubbliche, l’invenzione della macchina gelatiera) che oggi rappresenta ancora un unicum mondiale: siamo l’unico paese al mondo che consuma più gelato artigianale che industriale.

La differenza è molto semplice (e non la troverai negli spot del gelato industriale): il prodotto artigianale rispetto a quello industriale contiene la metà dei grassi e meno della metà d’aria.

Viene prodotto quotidianamente da piccoli punti vendita (le gelaterie artigianali) con piccole gelatiere, mentre il resto del mondo viaggia a gelato gonfiato, con conservanti, trasportato in container su veicoli diesel, american style.

Dunque un prodotto alimentare da sempre portatore di sostenibilità, genuinità, italianità artigianale, no logo, con ingredienti veraci (e cioè: passione, tecnica, attenzione e un pizzico di follia) per certi versi assimilabile alla pizza, invece di essere uno dei temi forti di Expo Italia, è relegato negli eventi collaterali, fuori expo, a Bergamo (che del resto è uno dei distretti specializzati nella filiera del gelato artigianale, con una miriade di aziende).

L’allestimento è provocatorio, inaspettato, una scenografia irridente, un’irruzione pop nel salotto di Bergamo Centro, il cosiddetto Centro Piacentiniano, con il suo quadriportico falso e pretenzioso, e tutti i falsi problemi di identità urbana del Sentierone,

la verità – una verità che mi ha investito improvvisamente mangiando un gelato –  è che il Centro Piacentiniano andrebbe abbattuto, raso al suolo, orrido Tribunale compreso: allora forse anche la vera piazza moderna della città-libertà avrebbe spazio e senso.

 

is this Domus?

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domusBG

Bergamo Experience: ieri, in piazza Dante, una signora inglese, utrasettantenne, una specie di Maggie Thatcher, me la trovo davanti rigida e formale, un depliant in mano, indica la Domus, e mi pone la domanda: is this Domus?

Segue una three minutes absurd conversation, tutto un is this Domus e this is Domus. In sintesi mi chiede: è questa la Domus? Rispondo: sì, è questa la Domus.

Scusandosi, mi chiede di nuovo: ma dov’è la Domus? E io indico la struttura: è qui, è questa la Domus. Lei la osserva, la sua mente è al lavoro. Sospettosa, conclude: dunque non c’è la Domus?

Come sempre, dinanzi ai casi umani, mi scatta la pietas. Così cerco di capire, sorridere, rassicurare.

Faticosamente, riesco a dipanare la questione: la Thatcher, appassionata di rovine romane, avendo visto su un depliant un’immagine della Domus, dava per certo che la struttura suddetta fosse l’ingresso, o la copertura, di un’area archeologica, di una  Domus romana sotterranea.

Non ho il coraggio di dirle che sotto la Domus c’è l’ex Diurno, cioè un rifugio antiaereo riciclato come bagno diurno, uno spazio che ha avuto 30-40 anni di vita, e non 2000.

D’altra parte, sullo stesso depliant si parla di rovine romane nel sottosuolo della città, alludendo evidentemente alle Domus romane più o meno nascoste o non segnalate in città alta (dietro la Mai, sotto il S.Lorenzo, in via Solata).

Le spiego il “qui pro quo” (yes, we have Domus, but not marked as Domus. This one is marked as Domus, but is not a Domus, is a wine bar) e la indirizzo in città alta.

Morale della Domus: per vedere una parola fuori luogo, serve qualcuno che non sia del luogo.

 

non parlatemi di birra km0

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BAffoLeo

L’invito lasciava intendere la presentazione della nuova Birra Moretti Km0, la birra ufficiale dell’Expo, allo stabilimento Heineken di Comun Nuovo, il birrificio più grande d’Europa.

Immagina 20 campi da calcio, e ragionamenti in termini di milioni di ettolitri. Per andare dal parcheggio all’ingresso ti danno l’ombrello. Per la visita dello stabilimento  vieni equipaggiato da occhiali, tappi per le orecchie, scarpe antistatiche, e pettorina grande visibilità.

Così marzianizzato già non sei più tu: circondato da alte hostess, vieni pastorizzato anche tu, gettato in una sala conferenze e catechizzato a dovere da simpatici key men;

il classico trio management, col solista del marketing che ricama poesia, il pianista di produzione che martella numeri, e il contrabbassista del cda – quello vestito meglio – che si limita a borbottare qualche nota, ma con sentimento pesante.

Indovina chi  dice le seguenti frasi:

1)    la produzione è 50% Birra Moretti e 50% Heineken, che ha rilevato Birra Moretti 20 anni fa, portandola da 100 a 200 milioni di litri l’anno, non da un giorno all’altro, ma giorno per giorno, con un incremento annuo del…

2)    Per la Bottega Birra Moretti all’Expo non abbiamo chiamato un architetto: ma uno scenografo! Una meraviglia, tutta in legno e rame, molto alta, molto grossa!

3)    L’imbottigliatore meccanico riempie le bottiglie per lacrimazione forzata, il tappatore automatizzato esercita un’esatta forza verticale di 320 kg; alla fine del nastro trasportatore i cartoni vengono pallettizzati al ritmo orario di…

4)    Il packaging non è solo estetica: è sostanza!

5)    Programma Zero Infortuni, in collaborazione con Confindustria Bergamo, siamo passati dagli x infortuni del 2005 agli y del 2015 con un decremento dell’xy% annuo…

6)    Ma adesso vorrei presentarvi un amico che per la prima volta ci viene a trovare…

… e a quel punto si alza una figura che pare uscire direttamente dal fantasy world, dalla tv, dalle etichette: il Baffo D’Oro, il super testimonial Birra Moretti, in carne e ossa, bellissimo, due occhi a perdita dei medesimi, senza età ma probabilmente ottantenne, col suo cappello di scena, e il sorriso sornione da spot, preciso…  

A rovinare la liturgia, ecco il solito giornalista comunista con barba e brown velvet jacket che vuole fare una domanda politica: scusate, ma come fate a parlare di birra km0 se gli ingredienti vengono da ogni parte del mondo?

Risposta del violinista (in purissimo stile mirror climbing): no siccome in pratica la normativa dice che sotto i 70km puoi dire che sei km0, e noi qui siamo a 69km da Milano, ecco che comunque è giusto un messaggio… Come direbbe l’Insostenibile Elaviano: In vino veritas, in birra fabulas!

Finita la predica (queste presentazioni ricalcano sempre la struttura della messa: prima le letture, poi la predica, poi i canti e la comunione, cioè lo show e il catering) comincia lo spettacolo: visita in passerella aerea alla linea di produzione, fiumi di birra a perdita d’occhio, le bottigliette marciano compatte come antichi eserciti che si rincorrono, l’esercito Heineken in divisa verde e l’esercito Moretti in divisa marron.

Col Baffo che si lascia fotografare free, si brinda col management, tutti alegher,  maestranze e giornalisti, e lemme lemme in non scialanza ci si appropinqua ai tavoli food & beverage con le 11 referenze (solo quando le ho viste ho capito che le referenze sono i prodotti, le birre)

In realtà, non esiste nessuna Birra Moretti Km0, le due novità sono:

1) la nuova grafica delle etichette, in stile birra artigianale di qualche anno fa, carta da pacco e lettering monocolore, nell’insieme molto simile alle Lucky Strike natural,

2) le nuove birre regionali,  in 4 versioni, una mezza delusione:  Sicilia e Toscana bevibili,  Piemonte imbarazzante (sa di sciroppo concentrato per granite) e Friulana quasi disgustosa (sa di shampoo Garnier alla mela verde: ma sulla marca dello shampoo potremmo discutere, dice il giornalista guru della birra).

Come sempre, banale la Bionda e dignitosa la Rossa (secondo un amico noto birraio una delle meno peggio tra le industriali).

Impietoso risulta tuttavia l’accostamento con le prelibatezze del catering di Vittorio, risotto, pacheri, lasagne, formaggi, battuta di carne, dolci al cucchiaio, tutto 5 stelle: e ti faceva venire voglia di un buon bicchiere di vino.

Avrebbero fatto meglio a limitarsi a servire patatine, salatini, olive e cipolline, per mascherare l’insipienza della bevanda e valorizzarne quantomeno l’elemento dissetante e alcolico, come ben sapevano i baristi dell’epoca pre happy hours.

Provate tutte le referenze, pausa pissyng, e momento di coscienza critica:

aver mangiato a sbafo da Vittorio col Baffo, non ci impedisce, a costo di non essere invitati una seconda volta, di scrivere quello che abbiamo visto, provato e pensato:

Il messaggio Km0, proprio perchè  è giusto un messaggio, non è un messaggio giusto, e quasi nemmeno un messaggio.

Le birre regionali sono una mossa sbagliata, un prodotto sbagliato, un marketing sbagliato: puzzano d’inautentico fin dalla loro immagine coordinata;

Personalmente, l’unica referenza che continuerò a comprare è la Rossa, che vedrei bene in bottiglia da 66cc.

Tirar su la patta e sentirsi la coscienza a posto, una cosa sola.

All’uscita c’è il posto di blocco con le hostess. Con sorriso e muscoli tirati, ci consegnano una pesante shopping bag Moretti. Dentro, un’ampia selezione di  referenze in bottiglia. Nella mia, manca giusto la Rossa.

MorettiLeo Imago: il Multi-Reporter Calepio Press- Osservatore Elaviano – CTRL

 

 

 

Accademia Carrara Outing

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Ora che riapre, e ne siamo tutti molti contenti, io voglio sapere perché è stata chiusa.

Si parlava di un restyling funzionale, vale a dire gli impianti, e la libreria (la bookshop) e il caffè-bistrot, come nei musei europei,

ebbene, giovedi 23 aprile 2015, dopo 7 anni, riapre la Carrara, senza bookshop e senza caffè-bistrot;

pareti imbiancate a nuovo, nuovi impianti elettrici, nuovo allestimento:  e noi che siamo bergamaschi sappiamo bene che questi lavori si potevano fare in due-tre mesi, e anche senza mai chiudere la pinacoteca, ma lavorando “a zone” (come fanno nei musei europei…);

noi che siamo il popolo dei magut, tra l’altro, sappiamo bene che se la Carrara fosse stata rasa al suolo da un terremoto, l’avremmo ricostruita così com’era in cinque-sei mesi.

E dunque perché sette anni, quali sono le veri motivazioni, perché non sono rese pubbliche?

Chi è meno serio, in questa vicenda, le istituzioni, i loro dirigenti, il pubblico, gli organi d’informazione?

Io sono disposto ad accettare qualsiasi verità, ma per favore smettiamo questa ipocrisia dei “lavori” che ci rende ridicoli (avremmo anche una reputazione di città dell’edilizia da difendere);

cosa c’è sotto? Ho solo ipotesi romanzesche:

1)    un esperimento di sociologia: “vediamo quanti anni passano prima che qualcuno chieda notizie della Carrara”

2)    una strategia estrema di valorizzazione: “teniamola chiusa il più a lungo possibile per aumentare l’aspettativa”

3)    una banale consorteria di profitto: “mandiamo i quadri all’estero o nei caveau, e facciamo lavorare e guadagnare le assicurazioni e le banche”

4)    una commedia dell’assurdo senza un vero e proprio piano: “proviamo a vedere cosa succede lasciando che i lavori seguano un’inerzia esistenziale stile Salerno-Reggio Calabria”

5)    un’astutissima manovra per trasformare un patrimonio pubblico in una fondazione privata: “tanto ai cittadini non importa niente dell’arte”.

Effettivamente i risultati sono scoraggianti. Se qualcuno toglie agli italiani il segnale televisivo per una mezza serata, scoppia la rivoluzione, e i responsabili si prendono l’ergastolo; se lasci chiusa una delle più importanti pinacoteche  del paese per sette anni, nessuno ti dice niente.

E quindi è puramente per amore di verità, e non per fare scandalo o polemiche, che chiedo a tutti gli enti coinvolti nella gestione dell’Accademia Carrara, e alle persone che li rappresentano, per quale motivo realmente  l’Accademia Carrara sia stata tenuta chiusa per sette anni;

lo chiedo a nome di molti cittadini, e non stupidi: e sarebbe bello avere una risposta “pubblica”, un vero e proprio “outing” dopo sette anni di mistero, magari il giorno stesso dell’inaugurazione.

(Imago: titolo dedicato da CTRL magazine alla riapertura della Carrara)

 

Mc Donald’s, Expo, la pizza e il bambino scemo

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Un bambino scemo in pizzeria invece di scegliere la pizza vuole l’happy meal, il papà più scemo di lui lo porta al Mc Donald e sono tutti felici. Slogan: tuo figlio non ha dubbi!

Con arroganza multinazionale, nella sua nuova campagna Mc Donald irride, nell’ordine:

1)    uno dei prodotti simbolo del food made in Italy, la pizza,

2)    il luogo dove questo prodotto viene preparato e servito: la pizzeria

3)    il cameriere italiano, cioè il servizio e la conduzione di tipo familiare

4)    il bambino italiano, che alla pizza in pizzeria preferisce l’happy meal col suo bel packaging

5)    il papà italiano, che si sdraia davanti al bambino succube della pubblicità

6)    la legislazione italiana, che ha un’idea sorpassata di pubblicità scorretta

7)    l’expo, sotto le cui insegne termina la spot, il che ci lascia capire il caro prezzo  pagato dall’Expo a Mc Donald per averlo come main sponsor (insieme a Coca Cola!)

Tutti questi soggetti irrisi, ma specialmente i pizzaioli, e i titolari di pizzerie, vedendo questo spot, si renderanno conto di vivere e lavorare in uno stato di sudditanza.

In 30 secondo riescono a demolire agli occhi dei bambini l’andare in pizzeria e a convincere i genitori che da Mc Donald è tutto più facile.

Nei fatti, si scontrano due modi concorrenti di produzione/nutrizione/consumo: da una parte la catena fast-food della grande multinazionale, industrializzata,  standardizzata, gestione manageriale; dall’altra il mondo delle ristorazione parcellizzata, di cui le pizzerie sono cardine, con prodotto artigianale fatto sul posto, piccoli proprietari, gestione familiare.

Questi due mondi sono in guerra, ma non combattono ad armi pari.

L’associazione pizzaioli/pizzerie non può fare uno spot dove dileggia Mc Donald e i suoi clienti come bambini scemi, succubi e capricciosi. Mc Donald lo può fare.

La pizza italiana, il gelato italiano, non hanno brevetti. Hanno ricette. Le ricette sono come i free software: mettono a disposizione di tutti una conoscenza.

La coca cola invece è una ricetta segreta. Siamo nel mondo del copyright, del prodotto brevettato, dove identifichi il prodotto con il marchio, e  quindi essendo di tua proprietà il nome stesso del prodotto, io non ne posso nemmeno parlare!

Se invece hai un prodotto che non ha un marchio, ha solo un nome comune, pizza, lasagne, gelato, e tradizioni secolari, e ingredienti autentici, allora io lo posso denigrare tranquillamente e danneggiare tutta la filiera. Questo è quello che vedo nello spot Mc Donald.

Noi popolo di pizzaioli, gelatai, vignaioli, pasticceri non possiamo dire che Mc Donald è merda, che la Coca Cola è merda; loro invece possono dire che la pizza è merda, che le pizzerie sono merda, e quindi domani potranno anche dire che la pasta italiana, o il vino, o le gelaterie artigianali sono merda.

E lo possono fare in Italia, all’Expo italiana, dove noi si pensava di lanciare il cibo come nuovo made in Italy, esempio per l’umanità. Per ora, purtroppo, esempio di sottomissione.

Viene da pensare che quel bambino scemo che invece di scegliere una pizza subisce il menu preconfezionato, siamo noi, è l’Italia.

Bergamough

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UniOfBg

c’è qualcosa che non funziona nella Bergamo Experience, e rende poco credibili eventi come il Donizetti Pride e il Palma Shopping Tour,

si tratta di una parola fuori luogo, ricorrente, che troviamo nello slogan ufficiale – Bergamo Italian Masterpiece – ma anche nel forum Bergamo Pubblic Space, nell’iniziativa Bergamo Cashless City, nel progetto Bergamo 2035 Smart City e perfino nell’ente promotore, la University of Bergamo;

questa parola fuori luogo, stonata, è la parola Bergamo: tutti gli slogan citati vengono ridicolizzati da questa parola italianizzante, provincializzante;

per cui, a parere degli esperti, il problema potrebbe essere risolto solo con una scelta coraggiosa, una mutazione grafologica, da Bergamo a Bergamough,

una grafia più importante, per un risultato linguisticamente coerente;

la pronuncia non si discosterebbe dall’attuale, se non per un finale più corposo e rotondo, in grado di dare alla città una suggestione e un sound nobile, internazionale, simile a Marlboro, contrazione moderna dell’originario Marlborough,

sicché tra 20 o 30 anni, quando tutti avranno imparato a dire Bergamough, potremo fare come la Marlboro, e lanciare la versione alleggerita, Bergamo Light, la città che si è fumata il cervello.

 

Gori veranda Domus

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goridomus1

Il sindaco Giorgio Gori complici due calicini di cabernet svela: “la Domus vetrina della città? Uno scherzo! La verità è che avevo in giardino una veranda che ho dovuto smontare da solo  – che tra l’altro mi occupava spazio in garage – e ho pensato di donarla alla città e farla montare a una squadra di architetti. Tutto qui”.

“Ma ci deve far riflettere il fatto che l’opinione pubblica si sia bevuta come un calice di merlot la favola della vetrina della città: come se nella città dei costruttori per metter giù un box temporaneo servissero 4 studi di architettura, con più di 20 architetti, 52 aziende sponsor  e 15 partner culturali! Scherziamo? ”

“Sarebbe veramente autolesionista, una vetrina del genere, sia per i costruttori, che per i comunicatori! Basta andare sul sito dedicato ( http://www.alta-qualita.it/bergamo-wine-2015/sponsor-patrocini/ ) per vedere che metà dei link non portano in nessun sito!”

“In realtà la veranda-domus è una puntata di scherzi a parte!”

donizetti danger

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Donizzelav La Mia è la più vecchia istituzione della città, fondata nel 1265, al fine di praticare la “misericordia pubblica” “sostenere i bisognosi” e “prevenire l’eresia”. Una volta ci sapevano fare.

Nell’aula magna (ma niente da bere) della sede della Mia, in via Arena (dove c’era il Conservatorio, oggi allocato nell’impoetica città bassa) è stato presentato nei giorni scorsi il Donizetti Pride, denso e simpatico cartellone di diffusione expo-donizettiana in città, spettacoli, incontri, rappresentazioni non solo nei teatri, e non solo di repertorio.

Il Comune, la Mia, il Conservatorio, la Fondazione Donizetti, cioè enti solitamente in sclerosi, hanno preso coraggio e affidato la responsabilità creativa a un vero organizzatore di cultura, che incredibilmente ha meno di settanta anni, forse anche meno di cinquanta, e idee chiare,

niente grandi nomi, niente Bocelli, si spettacoli nuovi, sì spettacoli diffusi nello spazio-città; una ventata d’aria fresca,

lo si vede già dalla grafica della cartella stampa, molto al passo coi temp, nello stile “repetita iuvant” che riprende e omaggia la cover de L’Osservatore Elaviano, la testata più chic nei club di Londra e Berlino (ma qualcuno la trova anche a Bergamo, dove viene creata).

Bravo assessore, bravo direttore, bravo presidente, l’impressione è positiva.

Se proprio vogliamo trovare una pecca, semmai, è nell’anglofilia del naming della manifestazione, Donizetti Pride, articolata in Donizetti Night, Donizetti Off e Donizetti Alive;

cosa che certo non piacerebbe al nostro Gaetano, che insieme a Puccini, Bellini, Rossini e Verdi ha fatto parlare l’italiano in tutto il mondo proprio grazie all’opera lirica.

Negli Stati Uniti probabilmente questa rassegna si sarebbe chiamata “Donizetti Bel Canto”, o qualcosa del genere,

nella patria del bel canto invece l’hanno chiamata Donizetti Pride, che fa anche un pochino Gay Pride: e questo è davvero ingiusto, perchè Donizetti è stato un vorace mangiatore di donne, tanto da creparci. Rispettiamo i morti.

Farlo parlare in inglese, passi, ma farlo passare per gay mi sembra pericoloso.

Rischiamo che durante la messa della domenica in S. Maria Maggiore sorga dal sarcofago e si erga bestemmiando. Conosco il tipo.

 

 

io sono bortolo

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Leo1

Caro Giorgio, caro Stefano, sindaco della Città e rettore dell’Università, dicendovi “io sono Bortolo” intendo segnalarvi tutto il disagio psichico che mi causa una topica colossale propalata a vostro nome, live e on line,

mi riferisco al questionario somministrato ai cittadini attraverso il “Bg public space” sul Sentierone e sul sito omonimo,

dove per rilanciare il centro di bg si propone ai cittadini una prima domanda “cretina” come “vorresti che il centro di Bg rappresentasse l’identità dei bergamaschi?” (con risposta plebiscitaria “si” al 98%, incredibile!)

e subito dopo ecco la domanda “truffa”: “come vorresti ridenominare Largo Bortolo Belotti? a) largo della Roggia Nuova (era tale nell’800) b) largo del Convento (che non c’è più) c) largo San Bartolomeo (in omaggio… alla chiesa!).

Nel dubbio, basta imboccare la domanda successiva: vorresti che venisse evidenziato il tracciato della roggia tramite pavimentazione e cartelli digitali, qr code, realtà aumentata?

A questo punto mi viene da urlare: “io sono Bortolo!”

A parte il fatto che le rogge, eventualmente, vorrei vederle riportate alla realtà normale, alla luce, laddove sensato,

la topica è questa: per rafforzare l’identità della città si propone di eliminare il buon Bortolo Belotti, cioè l’unico personaggio bergamasco cui è intitolata una via nell’area in oggetto, tra Petrarca, Verdi, Tasso, Roma, Vittorio Emanuele, Dante e Cavour?

Ti dico in 5 righe chi era Bortolo Belotti, e cosa rappresenta:

1) un grande avvocato, uno storico insigne, un poeta raffinato, uno studioso di fama, un parlamentare scomodo;  2) uno dei fondatori del partito liberale, un antifascista vero, arrestato dal regime, mandato al confino, morto in esilio; 3) autore della monumentale Storia di Bergamo e dei Bergamaschi; 4) è stato uno dei pochissimi intellettuali bergamaschi del novecento di statura nazionale; 5) uno dei pochissimi esempi di intellettuale di successo che ha avuto il coraggio civile di dire no al fascismo, e non come uomo di sinistra, ma come liberale, erede della tradizione di giustizia e libertà.

Ma chi se ne frega della storia, e chi se frega dei bergamaschi, tutti bortoli: chiamiamola via della roggia nuova, o del convento vecchio, che hanno un suono più turistico, più appeal, più app, più start up.

Così, mentre si annuncia di volerla valorizzare, si uccide la memoria e l’identità della città, e per far questo si cerca di usare – e si abbindolare – i bravi cittadini che partecipano al sondaggio.

Ma la domanda vera sarebbe da rivolgere a Giorgio e Stefano: perché? Perché volete eliminare Bortolo Belotti? Perchè volete il mio consenso per cancellare dalla toponomastica, e quindi dimenticare, un’icona della società civile locale, cosa che solitamente fanno le truppe d’occupazione?

Caro Giorgio, caro Stefano, vi assicuro che il 100% degli elettori al posto della realtà aumentata preferisce tenersi stretta la realtà storica, e la memoria di un grande studioso super partes che porta un nome e un cognome tipicamente Bergamo, cosa di cui io non mi vergogno.

O mi state dicendo che è proprio questo il motivo per cui si vuole farlo sparire, perché Bortolo Belotti, nella visione internazionale della città, suona troppo bergamasco, provinciale?

Così fosse, avremmo davvero un problema di provincialismo.

(PhotoAkam: Leone Belotti vestito da Bortolo)

non è una città per turisti

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NNcittàturisti

Bergamo non è una città per turisti, nonostante l’apparenza, nonostante la scenografia monumentale di città alta e la scenografia ambientale dei colli, Bergamo è una città geneticamente anti-turistica;

nonostante l’impegno, i programmi, i soldi che si stanno investendo per costruire questa “industria turistica”, l’impresa non decolla, il cittadino, il commerciante, le imprese non hanno la mentalità per fare accoglienza;

non c’è amore per la propria storia, non c’è cultura del territorio, non c’è realmente desiderio di ospitare l’altro, il diverso, lo straniero;

ospitare gente non è come produrre tondini metallici, occorrono materie prime come anima, cultura, cuore;

chi ha queste materie, da sempre è fuggito da questa città; tutti i grandi uomini che oggi si pretende di usare come icone turistiche, Beltrami, Quarenghi, Donizetti, fino a Manzù hanno sempre dovuto andarsene altrove, mai riconosciuti in patria: solo dopo che tutto il mondo celebra un genio, allora lo rivendichiamo, e volgiamo che tutti sappiano: è di Bergamo!   Si, peccato che a Bergamo sarebbe morto di fame!

Per fare un’industria turistica le risorse artistiche-paesaggistiche in realtà sono secondarie, primarie sono competenze come pazienza, elasticità, curiosità, tutte cose contrarie allo spirito del bergamasco introverso, lavoratore, ostico, mugugnante;

per questo, la costruzione di un’industria turistica, dovrebbe essere fatta umilmente, un passo alla volta, non da un giorno all’altro con slogan e iniziative destinate a sicuro fallimento;

per cominciare, si dovrebbe valorizzare l’autenticità, la verità, il carattere profondamente onesto, sincero, modesto, anti-show, della città, e dire questa cosa, usare questo contro-slogan:   “non è una città per turisti”, e valorizzare ciò che realmente può portare uno slogan del genere, e cioè viaggiatori che detestano la città turistiche, ad esempio, ovvero il target molto alto dei ricchi snob, e il target molto pregiato di intellettuali e artisti e viaggiatori no-massa;

lavoriamo sulla qualità, creiamo una mentalità, costruiamo un modello sostenibile di città storica, non risorsa da sfruttare ad esaurimento come un pozzo di petrolio, ma giacimento da mantenere vivo, e tutelare come una fonte sorgiva.

O davvero vogliamo le piazze di città alta invase da “restaurant” che propongono “lasagne e cappuccino 9 euro”, come a Roma? Seguendo gli esperti in marketing turistico, si finisce lì.

Con tutti i suoi difetti, è ancora una città vera, con un suo carattere, un suo pudore, non facciamo finta di essere bresciani o milanesi, dare spettacolo non sarà mai il nostro forte, troviamo il coraggio di costruire un nostro modello, una nostra prospettiva coerente, pertinente.