siamo sempre su un ponte

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fiume auto 1 copia

Sono venuta al mondo e cresciuta in un piccolo centro come tanti. I miei nonni erano minatori-contadini, mio padre Gioioso di nome e di fatto, mia madre invece un generale dagli occhi neri, bellissimi.  La valle, la fabbrica, la scuola, la famiglia, il fiume, gli inverni lunghi.  A 15 anni pensavo: tutto qui?

Un giorno attraverso il fiume, entro nella grande fabbrica, chiedo di parlare con la titolare, che era, ed è, una donna. Le chiedo di sponsorizzare la squadra di pallavolo femminile in cui giocavo. Mi dice di si. La mia prima azione marketing.

Tornando a casa, sul vecchio ponte pedonale, mi sento più grande di cinque anni. Quindici anni dopo, tenendo corsi di specializzazione ai neolaureati, parlo del marketing come di un ponte tra le imprese e il mercato.

Momenti nei quali si prende una strada. Dopo gli anni di “studio forsennato”, tornata da Harvard avevo due scelte: la strada maestra, cioè lavorare per una grande società di consulenza internazionale, oppure la “porta stretta”, cioè aprire una mia piccola società di consulenza, con grandi ambizioni, nella mia città.

Perchè qualcuno mi aveva detto:  la vera impresa è tornare a casa, realizzare la propria idea d’impresa nel tuo territorio, nella tua città. Multiconsult nasce a Bergamo, nel 1994 da questa sfida, con questo obiettivo: portare il mondo a Bergamo, e Bergamo nel mondo.

Quando parliamo di import-export, di marketing e comunicazione, parliamo di dentro e fuori, di cose che abbiamo dentro da sempre, di cose che prendiamo/apprendiamo da fuori e di cose che vogliamo o non vogliamo portare fuori, condividere.

L’integrità, il valore, la capacità, e anche la tradizione, da un lato, e dall’altro l’apertura, la malleabilità, la disponibilità al nuovo, al diverso, all’altro: perchè ogni nuovo cliente è sempre diverso dall’altro.

Questa sfida riguarda ognuno come persona, riguarda le aziende, riguarda un’intera comunità. Siamo sistemi complessi, che convivono all’interno di eco-sistemi più ampi, e tutta la complessità è nel trovare l’equilbrio con semplicità, e nel mantenerlo.  In questi 20 anni non ho fatto altro che lavorare su questo tema, anche le iniziative, i progetti speciali inseguono questo concept.

Il progetto “dimore e design”, una provocazion ai designer – che effetto fa la tua leggerissima sedia design in policarbonato in un salone marmi, stucchi arazzi e ori barocchi –  per offrire al pubblico uno stimolo, un input sul tema dentro/fuori, tradizione/innovazione.

Potrei parlare ore di reti d’impresa, in teoria un’idea fantastica, che fino ad oggi non funziona. Potrei parlare di marketing urbano, della capitale della cultura, dell’Expo, dell’Accademia Carrara, del Donizetti. Della città d’arte e della città vera, ostica, chiusa, bellissima, la nostra non è una città per turisti qualsiasi.

Il marketing è il passatore,  il traghettatore. Siamo sempre su un ponte, e io mi vedo, mi rispecchio sia negli occhi allegri delle mie figlie, che nello sguardo fermo di mia madre.

Oggi la mia società di consulenza marketing compie 20 anni: costellati di grandi successi, qualche sconfitta importante, e alcune perdite dolorose. Non intendo finanziarie, ma umane. Viene la voglia, il desiderio di seguire un richiamo all’origine (al futuro?) del marketing: la realtà.

“Tu non fai marketing” mi ha detto un giorno un funzionario di un’associazione di categoria: “c’è qualcosa nell’aria, e tu lo fai diventare un progetto”

Ma il complimento più bello, mi è stato fatto dall grande avvocato delle grandi aziende:  “ho visto tanti business plan delle grandi società di consulenza, però è la prima volta che trovo un business plan che è piacevole da leggere, e si capisce cose c’è scritto!”.

Parlavo di perdite importanti, e mi riferisco a persone, persone con le quali ho condiviso tratti importanti di strada, e che a un certo punto – è la realtà! – prendono un’altra strada, un altro cammino. Penso soprattutto a Francesco, la persona che negli ultimi dieci anni è stata al mio fianco ogni giorno seguendo la nascita e la crescita (nella realtà!) dell’area comunicazione.

Franz ha creato uno stile, un metodo, uno standard di qualità nella comunicazione, con l’attenzione quotidiana, a volte maniacale, al dettaglio, al millimetro.  Dieci anni ogni giorno con me, poi te ne sei andato dopo un mese d’ospedale, senza nemmeno avere quarant’anni.

Non so se è una bestemmia, o una preghiera, ma spero tanto valga anche per te, Franz, la nostra reputazione, tu lo sai, è la cosa che mi ha sempre più gratificato, per cui chi ha lavorato in Multiconsult è molto ben considerato quando entra in una nuova realtà.

(tratto da “Nata prima la gallina”, di Giovanna Ricuperati, “libretto da visita” pubblicato da Multi-Consult in occasione dei 20 anni di attività. Immagine: foto di Virgilio Fidanza, fiume Serio.)

il guerriero della luce

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lampada_frontale

(per la rubrica PORNO satiro/maschilista di CTRL magazine “il mondo di Onan”, tema del mese “La Luce”) 

Amano apparire, essere al centro dei riflettori, adorano prendere il sole ma quando si arriva al dunque, alla caverna, vogliono spegnere la luce: non è strano?

Una donna serve proprio a questo, a spegnerti la luce.

Quando hai la testa tra le gambe di una donna, e sei sotto le coperte di una stanza immersa nell’oscurità più totale, sei come un minatore nelle viscere della montagna rocciosa, e come un minatore, oltre alla piccozza, dovresti avere una luce sulla fronte: ti basta montare il faretto della mountain bike su un cerchietto o una fascetta da tennis (brevetto LeccaLux) e avrai risolto metà dei tuoi problemi di roccia e piccozza.

Al contrario di quel che dicono loro, con la luce la libido aumenta, un po’ di luce, non abbagliante, e lo sa bene  la cultura cattolica, a lume di candela. Le nostre nonne lo volevano fare al buio per non lasciarsi prendere dalla libidine, per non essere troppo peccaminose (da una ricerca BaDante Alighieri).

Loro invece, le donne di oggi, credono (sono state indotte a credere) che con la luce tu noteresti le smagliature, la cellulite, i peli sulle gambe.

Stronzate. Le poverette non considerano che al buio gli altri sensi si acuiscono: e percepisci fetori, odori, sudori che, in assenza di una forma femminile visibile, ti sembrano molto simili a quelli di un uomo, ai tuoi, e la cosa è francamente deprimente.

Cose che alla luce del sole ti infiammano, nelle tenebre ti spaventano. Al buio l’ascella della Hunziker ha lo stesso odore di quella di Ibrahimovic. E non parliamo del latoB.

Secondo altri – ipotesi evoluzionista, che pubblichiamo con riserva  – loro vogliono spegnere la luce perchè sono vittime di un retaggio ancestrale, cavernicolo. Stiamo parlando delle donne, specie di scimpanzè che si è evoluta in bipede solo 400.000 anni dopo il maschio, non dimentichiamolo (e con 400g di cervello in meno). Per tutto questo tempo la donna seguiva a quattro zampe il bipede maschio, e lui le gettava qualche avanzo. In seguito questo ruolo fu occupato dal cane.

E con questo rispondiamo anche all’annosa questione: può esistere l’amicizia tra l’uomo e la donna? Sì, ma uno dei due deve fare il cane, e l’altro tenere il guinzaglio.

La donna a quattro zampe, succube del bipede maschio alla luce del sole, nelle tenebre della notte in posizione orizzontale ristabilisce la supremazia della bestia inondando il bipede di libidine con energia inesauribile. A queste condizioni, puoi darle il permesso di spegnere la luce.

 

 

Spalma il vecchio

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palma 3 sorelle

Bergamo città vecchia, grassa, bigotta, e vanitosa: è questo il segno che lascerà, l’effetto che farà sulla percezione della città la mostra su Palma il Vecchio.

Un pittore di regime, ritrattista di vescovi e grasse matrone, in veste patinata, in sacre conversazioni su fondali mitologici.

Cultura? Turismo? Business? Un indotto da 30 milioni di euro? Ci credete?

Se Bergamo vuol fare la capitale della vecchiaia, allora il Palma è il testimonial perfetto.  Volti pasciuti, sguardi spenti, immagine piatta, pomposa. Arte di regime, arte morta, arte già morta allora, e oggi mortalmente morta.

Palma il Vecchio non è un grande maestro. Non è un Bellini, o un Moroni. Non è un genio incompreso, non è un Lotto.  E non è nemmeno un originale, un eclettico. Soprattutto, non è moderno. Non c’è erotismo, non c’è passione, non c’è mistero, non c’è forza, non c’è niente.

Il Palma era già vecchio ai suoi tempi, quando ritraeva con ossequio la classe dirigente, e faceva quello che ancora oggi fanno i fotografi e i figli dei fotografi con gli imprenditori e i figli degli imprenditori sulle copertine di QuoBg o Bg7Up. Ma senza quel briciolo di follia, o quella maestria del colore, che ebbe ad esempio un Fra Galgario.

Per alcuni è un maestro del colore, forse un maestrino, che si è limitato ad applicare, cioè a vendere a committenti laici ed ecclesiastici, la lezione del Bellini (per gli sfondi) e del Lotto (per la composizione). Più un bravo artigiano, un buon imprenditore di se stesso, ligio al potere, che un artista. Uno storico dell’arte lo liquida come “ritrattista esperto in balene morte”.  La “floridezza” spocchiosa delle sue modelle-committenti è effettivamente deprimente, non fanno che dire: guarda quanta ciccia, guarda quanti soldi. Effettivamente le balene del Palma somigliano a diverse tipe odiosamente richhe e grasse che sono in giro ancora oggi, identiche.

Quando ho cominciato a sentir parlare di una mostra su Palma il Vecchio, ho pensato: speriamo una piccola mostra pretesca, per specialisti, fanatici di arte sacra, come quella sul Ceresa. Poi  sentendo parlare di una grande mostra “cultura-turismo” ho cominciato a preoccuparmi. E adesso che vedo il lancio, il sito, l’operazione marketing sono profondamente depresso.

Che senso ha oggi questa sceneggiata, questa imposizione, questa equazione (sbagliata) pittura sacra = alta cultura? Un insulto all’ignoranza dei bergamaschi, del popolo in generale? Come se “il popolo” non sapesse distinguere a prima vista, a istinto la grande arte, che sa parlare a tutti in ogni epoca, dall’arte di facciata, che parla solo ai regnanti, sacra o profana che sia.

Nell’insieme l’operazione, ad onta della quantità di sponsor istituzionali, tecnici, fondazioni, grandi aziende, ha un impatto tra il dilettantesco, il patetico e il ridicolo.

L’immagine guida, il lay out con la griffe anticata “Palma il Vecchio”, è una soluzione grafica trita e ritrita, ormai la trovi anche sui vini di poco prezzo.

I testi del sito istituzionale sono fumosi, allungati, e con qualche scorrettezza grammaticale inaccettabile.  Patetico, commovente lo sforzo di commercianti, artigiani, pasticceri etc di creare dei prodotti, ricette, accessori taggati Palma il Vecchio.

Ammirevole chi si è impegnato e ha fatto ricerche, ma questo sforzo di abbinare “cultura” alla propria attività più o meno commerciale dovrebbe essere permanente, sincero, spontaneo. Credo che nessuno sano di mente  si sarebbe mai sognato di ispirarsi a Palma il Vecchio per alcun motivo. Ma una volta piovuta dall’alto la scelta di puntare sul Palma, ecco che tutti in coro si riempiono la bocca: ah, il Palma, oh, che gran pittore il Palma!

Sempre sul “sito ufficiale”, è specialmente ridicola la sezione “shopping del Palma” (c’è anche la personal shopper dedicata, cioè una guida che ti accompagna a fare lo shopping del Palma con la tua card del Palma il vecchio, compatibile con il palmare nuovo, osiamo sperare) e poi c’è  “il Palma al maglificio Santini” (pretesto/legame col Palma: “magliette coloratissime!”).

E poi c’è, immagino agghiacciante, il cortometraggio d’arte “Alessio Boni e il Palma”  (si intuiscono sgommate con la Ferrari + fighetta nei vicoli di città alta by night… genere horror, porno-horror?).

Infine, o per cominciare, la campagna-locandina di lancio della mostra, un buco della serratura, che ricorda un film di Tinto Brass, genere porno soft, e promette “bellezza da scoprire”! Il fatto è che le “balene” del Palma sono già abbastanza terrificanti così, senza bisogno di scoprirle ulteriormente. I nudi del Palma fanno ribrezzo. Questa è la tragedia.

In realtà, qualsiasi bergamasco con un minimo di buon gusto si vergogna di questa mostra, di come è proposta, del sito che la promuove e delle iniziative di contorno e dessert.

Rifiuto l’immagine di Bergamo città vecchia, grassa e bigotta che sarà il risultato logico di iniziative-autogol come questa mostra.

Negli sterminati magazzini della Carrara si potevano trovare decinaia di artisti più interessanti da ogni punto di vista, più attraenti, stimolanti, anche per i poveri commercianti e gli artigiani costretti a ispirarsi, a eccitarsi creativamente  con Palma il Vecchio, cosa difficilissima in assoluto.

E se proprio si vuole rispolverare il Palma, dare vita a un cadavere, va bene, si può fare, ma occorre più coraggio, più fantasia, anche più ignoranza, se proprio vuoi fare l’evento commerciale,

non so, magari un confronto tra due epoche, una provocazione, una mostra doppia Palma/Botero, Fat food woman in Art Expo, con il Palma in Carrara e Botero in Gamec, due gallerie, due epoche una di fronte all’altra.

Nel comunicato stampa ufficiale si parla di un’iniziativa pensata per i giovani, avvicinarli all’arte: ma dimmi cosa ha da dire ai giovani Palma il Vecchio? State buoni e ingrassate bene. E state lontani dall’arte.

Se guardi bene i ciccioni e le ciccione di Botero ti accorgi che sta prendendo per il culo proprio le madonne e i vescovi di Palma il Vecchio. Vai su google immagini, cerca Botero, cerca Palma. Scopri la bellezza!

Eppure Bergamo come ogni grassa matrona bigotta è in grado nel suo ventre mefitico di coltivare per reazione sacche, acidi, fermenti di autentica produzione culturale, artistica, con dei fuori di testa autoctoni capaci in ogni epoca – anche quella presente! –   di produzioni di livello internazionale, ma chiaramente disprezzati, o ignorati in patria.

Un’altra città, un’altra elite, una vera città d’arte, volendo rilanciarsi a livello d’immagine culturale in occasione expo, invece di tirar fuori (e valorizzare…) i soliti pittori di madonne dalle sagrestie di paese in ossequio alla curia, si impegnerebbe a valorizzare la generazione dei moderni, o addirittura dei contemporanei.

Capaci tutti di fare l’ennesima mostra categoria pittori bergamaschi del Cinquecento. Ma se vuoi fare qualcosa di nuovo, qualcosa di Expo, organizzami una grande mostra dei pittori bergamaschi del secondo Novecento. Esatto, ci vogliono le palle!

Non troppi mesi fa all’inaugurazione della mostra postuma sul Prometti mi è capitato di sentire una signora bg-bene dire: “Che bella mostra, quanta gente, che bel catalogo, come sarebbe stato contento, lui!”

Alludeva all’artista, scomparso da poco, suicida, quasi rinfacciandogli l’atroce scelta.

Mia cara signora xxx, le ho detto, se fosse ancora vivo, stia pur certa che i grandi sponsor non gli avrebbero organizzato questa grande mostra.

A Bergamo non sono mai mancati artisti veri, cultura vera. Ma se non è morta da cinque secoli, e se non è di chiesa, non diventerà mai cultura ufficiale.

Questo accade ancora oggi esattamente come ai tempi della controriforma.  Ah, Il valore delle tradizioni! Non si improvvisano da un giorno all’altro!

 

lux in fabula

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sissi

C’era Enel una Miss Sissy tutta Gewiss

tanto che un Tizio di nome Tolomeo,

(d’indole solitamente Luceplan, tra Parentesi)

improvvisamente Duracell, le disse:

Luxottica, sarò l’Arco della tua Artemide!

Che Superpila vuoi per il tuo lato B.Ticino?

Come Osram? Taccia!  Mi carico a luce solare,

nessuno mi può infilare la spina. Watt via!

E il Turciù fu subito Flos.

(fabula Lux per edit di CTRL magazine n55 dedicato alla luce, in distribuzione in questi giorni; un vecchio metodo di esercitazione per copywriter: scrivere un testo usando solo nomi di prodotti o marche, cioè parole in copyright, qui sotto la lista-vocabolario: 

Enel, ente nazionale energia elettrica; Watt, scienziato, unità di misura elettrica; Gewiss e B.Ticino, marchi interruttori elettrici; Duracell e Superpila, marchi pile elettriche;  Luxottica, marchio ottica; Osram, marchio lampadine; Luceplan, Artemide e Flos: marchi luci; Arco, lampada, design Castiglioni bros 1962, produz, Flos; Parentesi, lampada, design Manzù/Castiglioni 1970, produz. Flos;  Miss Sissy, lampada, design P. Starck 1991, produz. Flos;  Taccia, design Castiglioni bros 1962, produz. Flos; Tizo, lampada, design R.Sapper 1972, produz. Artemide;  Tolomeo, lampada, design Fassina/De Lucchi 1987, produz. Artemide;  Turciù, faro/lampada, design e produz Catellani&Smith

 

non parlatemi di giornalismo

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NNparlatemiGiorn

L’ordine dei giornalisti mi scrive per comunicarmi che dopo aver “effettuato un controllo” si trova “obbligato” a cancellarmi dall’albo professionale, e con la più disonorevole delle motivazioni: “il mancato pagamento” della quota associativa, 100 euro, che “deve essere interpretato come un’evidente manifestazione di cessazione della professione giornalistica e quindi di inattività professionale”.

La verità è che oggi moltissimi giornalisti lavorano con compensi da fame, non arrivano a fine mese, e a fine anno non hanno nemmeno i soldi per pagare la quota. In realtà è l’ordine dei giornalisti quello che ha cessato di svolgere la sua funzione di tutela della professione e dell’etica del giornalismo, e dunque è l’ordine dei giornalisti, e chi lo dirige,  che deve darsi una regolata, o essere cancellato, e non i suoi associati, i giornalisti che continuano a lavorare anche sotto le bombe dell’inps e di equitalia.

Oggi abbiamo una minoranza, una casta di giornalisti con stipendi, contratti e garanzie da top manager, e che per lo più non scrivono niente, ma dirigono,

e una massa di free-lance che “fanno tutto il lavoro”, senza alcuna garanzia, che spesso  lavorano a proprie spese, con la propria macchina, il proprio computer, il proprio telefono, e sono pagati 30€ ad articolo, quando sono pagati.

Bene, se vuoi sapere perchè non ho pagato la quota, guarda il mio reddito, e capirai.

Se invece vuoi controllare davvero la mia attività professionale, ti basta digitare il mio nome in rete per trovare centinaia di miei lavori giornalistici,

controlla bene il mio lavoro, la quantità, qualità e l’efficacia del mio lavoro e poi fatti delle domande.

La credibilità di un giornalista non è nel suo conto corrente, ma nel suo lavoro, nei suoi articoli, reportage, inchieste, denunce.

Io su questo sfido l’ordine a dichiararmi indegno della qualifica di giornalista.

Immagino che una similettera con similfirma “cordiali saluti” (avrei preferito “distinti”) sia arrivata a migliaia di colleghi, con la nota finale “per qualsiasi chiarimento inviare una mail a: informatica@odg.mi.it

Invito tutti i colleghi che si riconoscono nella mia situazione a rispondere a questo indirizzo kafkiano, già per sé rivelatore, copiando questo mio appello,

nel quale chiedo all’ordine di togliere la tessera di giornalista non già a chi non ha i soldi per pagare la quota, ma a tutti quei giornalisti leccapiedi servi del potere che tradiscono l’etica professionale scrivendo scientemente falsità o non scrivendo verità: sono ovunque,  e anche un bambino è in grado di smascherarli.

E contestualmente suggerisco all’ordine di tornare alla realtà, scrivendo lettere d’altro tipo, magari offrendo l’opportunità al “caro collega in difficoltà” di pagare 10€ al mese, on line

(e non pretendendo l’intero importo più mora entro 15 gg da pagarsi su C/C postale)

o meglio ancora istituendo uno speciale albo dei “giornalisti meritevoli e privi di mezzi”, che siano esentati dal pagamento della quota, dimostrando  la qualità e la quantità del lavoro giornalistico svolto, con redditi sotto i 10.000 o 15.000 euro,

e queste quote siano invece versate dai più fortunati con redditi sopra i 100.000 euro, i quali potrebbero senza sforzo e anzi con piacere pagare una quota di 1000 euro l’anno, anziché 100, e così provvedere a 10 “meritevoli”.

A questo dovrebbe servire un vero organismo di categoria, a tutelare la professione, con i più elementari meccanismi di mutuo soccorso.

E poi, invece di scrivere a me, a noi giornalisti, una lettera chiusa, da recupero crediti, scrivere una vera lettera aperta a tutti i giornali: “il fatto che in questo paese i veri giornalisti nonostante lavorino giorno e notte  abbiano redditi  da fame, che non gli permettono di arrivare a fine mese,  è un’evidente manifestazione della crisi della professione giornalistica…”

E a quel punto l’ordine dovrebbe porsi anche delle domande sul proprio senso.

Sappiamo tutti cosa è successo in Italia negli ultimi 30 anni, e quale sia la causa madre dell’asservimento mediatico.

Il punto chiave è il rapporto tra pubblicità e lettori. Una testata che sta in piedi grazie ai lettori (copie vendute, abbonamenti) risponde ai lettori. Una testata  che sta in piedi (4/5 degli introiti, o anche più) grazie agli inserzionisti, risponde agli inserzionisti. Molto semplicemente, se tu vivi con la pubblicità di Armani, della Fiat e del Comune, difficilmente potrai denunciare le malefatte di Armani, della Fiat e del Comune, o anche solo informare in modo imparziale.

La deriva, la sclerosi verso l’irregimentazione viene da qui, e parte dall’alto.

I grandi sponsor non sostengono le testate più vivaci, indipendenti e capaci, ma le più affidabili e istituzionali, cioè le grandi testate. Allo stesso modo le grandi testate non chiamano i writer più acuti, ma i più malleabili. E possibilmente parenti di qualcuno, unico vero requisito di carriera in questo come in ogni settore chiave.

Una casta di pasciuti yesmen normalizzati, contornati da figli di papà e signorine di buona famiglia che fanno i giornalisti per motivi di status, con verve e intelligenza statuaria.

In questo contesto di asservimento, se c’è un soggetto collettivo che può contribuire al risveglio dell’informazione, non è certo l’elite dei grandi media, ma il popolo degli indipendenti, dei blogger, delle migliaia di professionisti che ogni giorno sputano lacrime e sangue per riuscire a far passare barlumi di verità nella marmellata di regime.

Togliere il tesserino di giornalista a chi è in trincea, significa togliergli la baionetta, e perdere la guerra.

(imago: redazione Calepio Press)

non parlatemi di cultura

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Giovenale

ormai quando sento qualcuno parlare di cultura, di promuovere la cultura, mi parte automatico il warning “ipocrisia!”, lo stesso che scatta con “io non sono razzista”;

chi dice di voler fare cultura, solitamente è solo in cerca di un abito per coprire la propria scandalosa ignoranza, inadeguata alla ricchezza materiale,

vuole cioè comprare cultura, l’etichetta di cultura, non fare, produrre cultura;

un dispendio virtuoso, gratificante, per lavarsi la coscienza, e forse nemmeno per lavarsela, ma per imbellettarla, profumarla, deodorarla, perchè questa etichetta di cultura da sempre serve benissimo anche come copertura strumentale di altri traffici politici, commerciali, edilizi,

per rilanciare l’economia, vogliono sostenere il turismo, e per sostenere il turismo, oltre al food (e siamo alla frutta) occorrono le bandierine della cultura (dessert): gli eventi culturali, e gli spazi culturali, come se la cultura fosse qualcosa da rinchiudere in uno spazio!

in realtà la cultura è una scusa per costruire strade, aprire cantieri: per questo si è tramato per ottenere il titolo di capitale della cultura, per mettere le mani sui finanziamenti europei – 90 milioni di euro – da destinare a infrastrutture ricettive, cioè strade e parcheggi;

ma quasi peggio dei “profittatori” della cultura, sono gli “amanti” della cultura, che si lasciano abbindolare dai profittatori, e a loro servono come “utili idioti”,

gli “amanti” della cultura in realtà spesso sono dei necrofili, e l’unica forma di cultura che sono capaci di concepire è la cultura morta, codificata, e soprattutto il suo tempio, il cimitero, il mausoleo della cultura: il museo, dove la cultura riposa in pace,

così per l’arte (ristrutturiamo la pinacoteca!), così per le lettere (ristrutturiamo la biblioteca!) così per la musica (ristrutturiamo il teatro!) e in tutto questo ristrutturare – e spendere soldi pubblici – chiaramente chi lavora sono le imprese edili, e chi mangia sono i burocrati, non certo gli operai della cultura, gli artisti, o il pubblico, e alla fine della spesa infatti non abbiamo creato cultura, non abbiamo realizzato un solo prodotto culturale, ma solo degli edifici vuoti, con scritto sopra “cultura”; vuoti, o frequentati per esibizionismo sociale.

Parlare di milioni di euro in cultura da salotto, in cultura morta, in un’epoca di fame, nella quale i veri artisti sono per strada, o totalmente asserviti, mi fa diventare ignorante.

Chi fa davvero cultura, non se ne riempie la bocca, e meno ancora la pancia,

chi fa cultura passa le giornate, le notti, la giovinezza, gli anni, la vita inseguendo un progetto, producendo opere, ricerche, libri, quadri, composizioni musicali; e quasi mai viene interpellato, coinvolto, sostenuto da chi proclama di voler far cultura;

e se riesce a campare di quello che fa, l’artista in questa città, è grazie a commesse che arrivano da fuori, da operatori nazionali, o internazionali,

nella propria città, e specialmente in questa città, chi fa cultura è quasi sempre ignorato, ostacolato, calunniato, per poi essere usato da morto, 20 o 200 anni dopo il fatto, da quegli stessi bottegai e affaristi che l’hanno lasciato crepare di fame, o di solitudine;

soltanto dopo che tutto il mondo ha riconosciuto un talento, un artista, arriva il titolo su l’Eco di Bergamo: e non per riconoscerlo come artista, ma per rivendicarlo come bergamasco!

dei grandi bergamaschi del passato, oggi mostruosamente esibiti per fare turismo, compositori, pittori, architetti, Donizetti, Fra Galgario, Quarenghi, Beltrami, non ce n’è uno che in vita abbia lavorato o sia stato riconosciuto a Bergamo, ma tutti hanno sempre dovuto fuggire da Bergamo;

questa mancanza di consapevolezza culturale “in tempo reale”, la vedi soprattutto in un dato che dovrebbe far riflettere:

abbiamo avuto e abbiamo molti grandi pittori, architetti, musicisti, scienziati, ma nella storia della letteratura italiana dell’800 e del 900 non esiste un solo grande scrittore bergamasco, e nemmeno medio, e nemmeno minore,

dammi una città qualsiasi, Parma, Ferrara, Como, Pescara, e ti farò dei nomi: ogni città, ogni provincia italiana tra 800 e 900 ha espresso narratori in grado di produrre opere entrate nel “repertorio” nazionale o anche internazionale, narratori della propria città, della propria gente, romanzieri del territorio, se così si può dire,

e invece non esiste e non è mai esistito uno solo scrittore di Bergamo o della provincia di Bergamo, è questa la verità,

è questo su cui si deve riflettere, quando ancora ci si chiede come mai non siamo riusciti a ottenere il titolo di capitale della cultura:

come mai non c’è, non c’è mai stato uno scrittore di Bergamo, che sia stato capace di scrivere un romanzo decente su questa città, su questo tipo umano che è il bergamasco?

forse mancanza di talenti, di genio? O piuttosto mancanza di humus, di terreno sul quale attecchire, cioè di lettori, di mecenati, di intellighenzia nelle elite socio-culturali?

non parlatemi di cultura quando spendete 10 o 20 milioni in edilizia, o in altre manovre:

tu oggi mi spendi 10 o 20 milioni di euro per strani lavori decennali di ristrutturazione di musei e teatri, e tra 10 anni la cultura, il patrimonio culturale, e il valore culturale della città nel mondo non sarà cresciuto di una pagina;

parlatemi di cultura quando fate un vero premio artistico, un vero premio letterario, o musicale, o d’arte, e mi viene in mente chiaramente il premio Bergamo, che ai suoi tempi ha prodotto opere e artisti di valore internazionale (per la serie… “il fascismo ha fatto anche tante belle cose”)

fatemi un premio letterario per un romanzo intitolato “Bergamo”, e non con la pubblicazione come premio, ma con 50.000 euro in premio, e altrettanti in marketing editoriale, e in questo modo stai investendo in cultura, in un autore e in un’opera.

Ti scandalizzano i 50.000 euro? Per un calciatore, o un avvocato, o anche per un’automobile andrebbero bene, ma per uno scrittore, per un romanzo…

Tu vai avanti a fare premi-elemosina, e avrai i pittori della domenica, e gli scrittori del giovedì. Tu metti soldi veri, e avrai gli scrittori veri, e i romanzi veri. Volgare, banale, reale.

Tu metti un premio da 50.000 euro e ti garantisco che i 100 migliori writers bergamaschi si mettono a lavorare con grande carica, e altrettanti writer vengono da ogni parte del mondo, e si trasferiscono a vivere a Bergamo a loro spese: e già così aumenti, crei il valore, l’appeal, l’ambiente, la koine, il fermento culturale della città.

Entro dieci anni, nel corso di dieci edizioni, su mille romanzi prodotti dal premio ne potrebbe uscire uno che ti ripaga di tutto: e intanto hai prodotto almeno 10 buoni romanzi, e lanciato 10 buoni scrittori, alcuni dei quali ripagheranno l’investimento, sia con le vendite, che portando turisti. E hai speso 1 milione in 10 anni. In cultura.

Parlo di un premio letterario, perchè è il mio interesse, io sono uno scrittore, ma la stessa proposta te la faccio sul premio d’arte contemporanea, sul film, sull’opera musicale.

Se quelli che dovrebbero, vorrebbero, potrebbero essere i mecenati della città, invece di pensare alla cultura come a una spesa inutile, di prestigio, la concepissero come una qualsiasi altra industria, produzione-distribuzione-vendita, a quel punto, nel loro affarismo, potrebbero anche “arrivarci su”, e capire che un bel romanzo di successo, tradotto e letto in tutto il mondo, è il miglior investimento pubblicitario che una città possa fare.

Come puoi pensare seriamente di proporti come città d’arte, di cultura, se non esiste un solo libro, un solo romanzo che faccia di questa città un luogo letterario, degno di stare nell’immaginario collettivo? Ma nemmeno una guida turistica ben fatta, esiste, a pensarci bene.

sentierone social club

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Bergamo-anni-50-60

L’idea Sentierone social club (nell’ex Diurno) lanciata da questo sito, è stata ripresa, apprezzata, arricchita e condivisa in questi giorni da migliaia di utenti sui social network (il sito di CTRL magazine ha superato i 1500 like http://www.ctrlmagazine.it/2014/una-discoteca-sotto-il-centro-di-bergamo-si-puo-fare/ ).

La desertificazione del centro città necessità di nuove, autentiche pulsazioni umane. Per capire come il Sentierone abbia perso vita e funzione basta  analizzare i casi opposti dei due locali storici diversamente morti, il Nazionale e il Balzer:

il primo, rifatto in look design, del vecchio Nazionale conserva solo il nome, con l’aggravante esterna dei vasoni di plastica bianca, segni di banalità, di vanità arredo-design senza identità, senza personalità;

il Balzer invece è rimasto com’era negli arredi, ma non nei prodotti:  nel corso del tempo ha dimenticato i suoi must: l’aperitivo Balzer, mitico e ormai sconosciuto, e l’insuperabile focaccia alla crema di pollo, e andando più indietro negli anni l’ìncredibile cono palla (ricoperto da cioccolato “fondente” fuso al momento) o il krapfen (un riferimento per intere generazioni).

Oggi Balzer è penosamente ridotto a esibire un brutto tabellone posticcio posato sui mosaici del quadriportico, con prezzi pausa/pranzo e foto a colori delle insalate miste e delle sale interne, in stile bar qualsiasi per turisti, di quelli che a Roma espongono “Lasagne e Cappuccino 10€”.

Ora il Balzer chiude, ma per quelli come me il Balzer è già morto da un pezzo.

L’altro locale in chiusura, il Ciao, non ha mai avuto senso né consenso sul Sentierone: in autostrada o in aeroporto va bene, food anonimo in contesto anonimo, ma c’è qualcosa di profondamente stonato nel trovarsi in terrazza sul “salotto” della città, in questa scenografia architettonica borghese (proprio sopra la scritta “urbis ornamento et civis commoditate”) con in mano un vassoio di plastica (sul quale si posano malmostosissimi piccioni)

A fronte di queste malinconiche inerzie, il Diurno, il grande spazio sotterraneo di piazza Dante chiuso da decenni, può diventare il cuore della rinascita come centro socio-culturale giovanile, ospitando le sedi degli operatori culturali della città viva, della città vera (editori, musicisti, artisti, associazioni, etc) nei tanti spazi-uffici attorno alla grande area ipogea centrale, chiaramente adibita a locale-concerti, spettacoli, discoteca.

Magari aprire una seconda uscita giusto in fronte al Tribunale darebbe certezza di ordine pubblico a mamme e assessori.

Come scrive un lettore: “Discoteca, ottima idea, ma forse meglio pensare a uno spazio in cui siano possibili serate-discoteca, oltre che musica pop dal vivo, teatro alternativo – un polo culturale pop, insomma, con molteplici “vite”. Sarebbe necessario coltivare un’alleanza con il polo-Donizetti, in modo da creare una relazione che non opponga i due poli: così si evita la reciproca segregazione/ghettizzazione del pubblico e delle attività”.

Il segnale è dunque abbastanza lampante, l’indicazione per la giunta, il sindaco, gli assessori-architetti e gli altri attori coinvolti nel rilancio della centralità del Sentierone, a cominciare dall’immobiliare Fiera proprietaria dell’area, per finire con i matusa della lirica, che propugnano il restauro del Donizetti (si parla di 18 ml euro, che significano 200€ pro capite per i cittadini di Bergamo) è chiara:

il consenso e la partecipazione dei cittadini, se le proposte sono realmente innovative, ci sono, e prenderle in considerazione con volontà politica positiva sarebbe un segno vero di attenzione alla cittadinanza e capacità di rinnovamento non solo nell’arredo urbano, ma nella percezione e nel vissuto della città.

Slogan: Nazionalizzare il Sentierone! Un Balzer in avanti! Vita notturna al Diurno!

(imago: il Sentierone quando era uno sport acquatico di massa, e si facevano le “vasche”)

cosa bolle sotto il Sentierone

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exDiurno

I problemi d’identità del Sentierone vengono da lontano, dalla sua origine, dal suo nome:

si chiamava “sentierino”, ed era un piccolo sentiero che traversava il prato di S.Alessandro collegando i borghi storici di Bg bassa, pignolo/palazzo e pontida/s.alessandro, sviluppatisi come promanazioni, germinazioni dalle porte di Bg alta.

Questo “sentierino” diventa “sentierone” quando nel prato di S.Alessandro sorge la Fiera di Bergamo, vero punto di nascita della Bg bassa.

Durante il Ventennio la Fiera viene demolita, al suo posto nasce il centro Piacentiniano, come scenografia con portici neo-classica, e tutta l’area delle Fiera diventa il Sentierone/piazza Dante, con edifici pubblici, il tribunale, le banche, una sorta di centro direzionale.

Pochi anni dopo viene realizzata Piazza della Libertà e il mastodontico Palazzo Littorio, l’edificio pubblico più importante della Bergamo Moderna, lasciato quasi in disuso dopo il regime, per ragioni psico-collettive di rimozione.

I problemi d’identità di tutta questa area, dunque, si accavallano: da un lato le due piazze, Dante e Libertà, pur essendo state costruite a 10 anni di distanza, in realtà sembrano lontane secoli, la prima neo-classica e borghese, la seconda razionalista e futurista, ma con la “macchia” di rappresentare un regime, un periodo rimosso, come un senso di colpa non affrontato, che impedisce di dare nuova anima a una stanza, una persona, una piazza.

Perciò, nel dopoguerra, è stato più facile per la Bergamo bene re-impossessarsi del centro piacentiniano con quella sua aria da pasticceria architettonica che non della più moderna e funzionale piazza e palazzo della Libertà.

Negli anni sessanta e settanta il Sentierone è il vero centro della città. I due locali storici Balzer e Nazionale davano identità di salotto, e sotto piazza Dante c’era il Diurno, una sorta di centro commerciale ante litteram, con negozi, uffici, associazioni.

Oggi abbiamo un fenomeno di desertificazione del Sentierone. Le principali attività commerciali e non dell’area sono chiuse o in chiusura (tribunale, ristorante Ciao, bar Balzer, e altri negozi storici della borghesia berghem, come Pagano) e la sera non esiste un posto dove bere un caffè.

L’immobiliare Fiera proprietaria dell’area sta pensando a cosa fare per rivitalizzarla e le associazioni architetti/innovatori che governano la città (Innova Bergamo, Bg 2.035) hanno aperto le loro sedi in piazza Dante,

si parla di restrutturare il Donizetti, ci si chiede cosa fare del Diurno (scartata l’idea del park) se e come riaprirlo,

è evidente che se si vuole dare funzione e senso di centralità occorrerebbe:

1) tenere in vita i locali storici (Il Nazionale è stato rifatto a nuovo ed è un locale-design senza storia, il Balzer pare chiuda senza cedere il marchio, e dunque se riaprirà non riaprirà come Balzer)

2) cogliere l’occasione dell’uscita del Ciao, marchio tipico da non-luoghi, per aprire un ristorante o trattoria vera, bg foods

3) nell’ex diurno, realizzare la discoteca di Bergamo Centro, magari comunale, civica, la discoteca della città, come controcanto del Donizetti: qui la lirica e la borghesia matusa, là la techno e “i giovani”; a far da connessione il quadriportico con 1bar matusa 1bar movida e al posto del Ciao 1 Bg ristorante expo-strategico cucina bg in ambiente moderno e prezzi pop.

La discoteca del centro è la vera soluzione al problema di rivitalizzare l’area, si evitano i problemi guida-alcool, non si disturba nessuno (nessun residente nell’area) e si abituano i ragazzi a venire in centro, magari in bicicletta.

Chiaramente, essendo sotterranea/undergorund, e trovandosi in Piazza Dante, si chiamerà: IL PURGATORIO

(photo: l’ex Diurno sotto Piazza Dante, chiuso da decenni)

contropassato prossimo

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Contro

Ok ragazzi, gettiamo la maschera, chi vi scrive è il vecio rimba della redazione e quello che vi dirò vi suonerà pessimo. Voi magari vi sentite delle mezze merdine perchè la famiglia vi mantiene, vi fa l’elemosina, vi compatisce: ma la verità è che i vostri padri, le madri, con i nonni, le nonne, gli zii e le zie vi stanno fottendo alla grande (e sfottendo) da almeno vent’anni, da quando siete venuti al mondo.

Vi racconto com’è andata veramente. Quando loro avevano la vostra età, c’era il boom economico, cioè il contrario esatto della crisi: vuol dire che qualsiasi cazzone (q.ca), aprendo una qualsiasi attività, in pochi anni faceva una palata di soldi; vuol dire che q.ca volesse fare il libero professionista, andava all’università gratis, si laureava col sei politico senza aprire un libro, avviava lo studio coi soldi dello stato e in pochi anni faceva una palata di soldi.

Vuol dire che q.ca privo di iniziativa trovava 3000 posti di lavoro in fabbrica, in banca, in ferrovia, in posta, in comune, in regione, con 3000 stipendi l’anno e mesate di malattia, permessi, vacanze premio e premi di produzione più la casa nuova in affitto quasi gratis e la casa di vacanze al mare o in montagna pagate dall’azienda o dall’ente statale.

Vuol dire che q.ca universitario il giorno dopo la laurea era di ruolo nelle scuole, negli ospedali, nella pubblica amministrazione, con tutti gli scatti, avanzamenti, assegni familiari, sussidi, promozioni automatiche.

Vuol dire che a 35 anni, volendo, q.ca andava già in pensione, le famose pensioni baby, dopo aver lavorato in pratica 5 anni (+ 5 anni di università/assemblea + 5 anni di maternità o malattia professionale o ferie d’aggiornamento).

Voi invece a 35 anni state ancora facendo stage gratis, e se cercate di fare un’attività da morti di fame in proprio siete assaliti dall’asl o dall’inps o da tutte e due che a prescindere vi chiedono subito 3 o 5 o 7mila euro l’anno (per pagare le pensioni a genitori, nonni, zie, invalidi, cioè a tutta la famiglia, che poi vi fa l’elemosina)

Non parliamo della classe creativa, della bufala grassa di nome made in italy, moda e design, advertising e mass media: qui vi stanno stra-fottendo! La verità è che voi avete studiato, fatto esperienza, gavetta, e siete davvero dei creativi, ma siete dannati a essere dei poveri falliti, mentre loro, i q.ca 68ottini sono ingrassati sentendosi dei geni.

Naturalmente questo quadro è ipebolico e generalizzante: accanto ai q.ca in ogni settore abbiamo tantissimi b.ti – bravi tipi – che nelle scuole, aziende o in proprio hanno dato tanto e tenuto in piedi il paese, mentre i q.ca ingrassavano e dissipavano.

Ma la grande verità è che un’intera generazione di q.ca ha fatto un po’ di casino per alcuni anni, dal 68 al 78, facendo collettivi, assemblee, occupazioni, espropri proletari, manifestazioni, e poi anche tirando le bombe, in ogni senso: viene da lì il boom economico, dal cambiare tutto, con le buone o le cattive.

E a un certo punto le aziende, o lo stato hanno cominciato a comprare, cooptare, finanziare questi q.ca perchè creassero le loro aziende creative e ad assumere questi q.ca nei giornali e nelle televisioni e nelle case editrici o in qualche ente inutile dedito alla cultura o al turismo.

Quando siete nati voi, negli anni ottanta e novanta, crollato il comunismo, è finita la dinamica sociale, e i q.ca della boom generation si sono compattati, omogeneizzati, destra e sinistra si sono unite per fottere insieme le nuove generazioni.

Vi accusano di non avere identità. Vi chiamano x e y generation. Ricevete solo critiche, non vi fanno fare niente, non mollano niente, non cambia niente: e questa è l’origine e la statica della crisi.

Si sono presi il migliore dei mondi possibili, e se lo sono mangiato. Adesso vi lasciano un mondo invivibile. E vi accusano di non essere capaci di stare al mondo.

Oggi gli ex 68ottini non hanno alcuna intenzione di farsi da parte – come hanno fatto i loro veci! – ma avvinghiati alla cassa e alle poltrone hanno in testa una sola cosa: tenere da parte i soldi per trapianti e staminali, per ringiovanire! Cioè per rubarvi ruolo, posto e futuro.

Sean Blazer

cover story per CTRL magazine n.53; da stasera in distribuzione, versione on line su >

http://www.ctrlmagazine.it/2014/ctrl-magazine-53/

la messa-convegno Bg 2.035

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italcementi-ilab-kilometro-rosso-ferrettiblog

Ieri seguendo la religione del nostro tempo, l’innovazione tecnologica, sono andato alla messa-convegno Bg2035 nella cappella I.Lab della nuova cattedrale del KmRosso fuori le mura, che attira fedeli e credenti nel progresso da tutto il mondo;

due note di colore (rosso, bianco) sull’edificio sacro: proprio come accadeva nella Roma barocca, quando i papi si sfidavano a facciate barocche chiamando chi il Bernini chi il Borromini,

similiter Don Bombassei ha chiamato l’archistar Nouvel per ideare il grande muro del pianto stridente dei freni arroventati, che per 900 metri è rosso, poi è arrivato Monsignor Pesenti e i suoi 100metri li ha voluti bianchi, e non occupati da un muro, ma da un tetto aereo, e per far questo chiaramente ha chiamato l’altro archistar delle cattedrali del progresso, Meier.

Nel salone convegno, il mood è lo stesso della messa in duomo, con minimo fervore, massimo torpore e molta compostezza.

A guardar bene, col gossip eye, vedi che anche le persone in effetti sono le stesse.

Con-celebranti: una sacra corona composta da reverendi pastori della congregazione degli architetti, tra i quali abbiamo riconosciuto l’archistar catto-ticinese, l’archi-badessa portoghese, lil nostro archi-sindaco e in rappresentanza dell’architetto supremo, il nostro vescovo.

Pastore officiante: il direttore del giornale della curia.

Liturgia della parola (affidata a due novizi che hanno appena preso i voti ad Harvard): l’innovazione urbana, le smart citiies e il car sharing,

cioè storie che sentiamo identiche da anni annuendo, non dissimiliter dalla lettera di san paolo ai corinzi.

Iconografia sacra: due grandi affreschi video raccontano i miracoli di santa app e santo smart, con rassicurante manierismo.

Momento clou: presentazione al tempio del bambin gesù Bergamo 2035, nato dal matrimonio tra l’università di bergamo e l’italcementi. Presente il santo rettore, e in teleconferenza il presidente della fondazione italcementi, che festeggia 10 anni (la fondazione, per il presidente aggiungi tranquillamente uno zero: una mummia, ma una mummia simpatica, comica, diversamente dalle mummie di mezza età, che interpretano il tragico).

Tutti i presenti augurano magnifiche sorti e progressive agli sposi e si rellegrano della prosperità e benessere che l’unione di queste due sacre famiglie, il sapere e il cemento, portano alla città.

Tutto intorno alla sala, in funzione chierichettes, come puttine carosellanti, una squadra di hostess d’assalto (corpi speciali!) che ogni tanto si danno il cambio della guardia, risvegliando l’attenzione.

Dopo la predica, il rito della comunione (aperitivo, catering) e l’ite missa est.

Sul sagrato, rincuorante, si rivive l’abbinamento dio-patria, con bellissimi carabinieri da parata del reggimento cinecittà.

Uscendo dal parco tencnologico, mi assale una certa malinconia:

sono venuto alla cattedrale dell’innovazione per verificare se sia diventata quello che promette d’essere ormai da molti anni, e cioè un centro di produzione del sapere,

(e per fare questo dovrebbe diventare istituzione pubblica, e non, come è ancora oggi, azienda privata di proprietà di una o due famiglie, dalle quali dovrebbe divorziare “per amore della scienza”)

e invece ho preso atto del matrimonio università-italcementi e della loro neonata creatura, Bergamo 2035.

Quasi rimpiango il buon tempo antico, quando le Università erano donne libere, nubili, che si concedevano a tutti gratis et amore dei.