A Natale certe cose non ditele

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In risposta all’invito di Leone XIV (A Natale, ditele le cose!) una mia gentile amica d’oltremanica, Mrs. Drinkwater, mi ha fatto recapitare un librino dal titolo “Segreti e no”, a firma Claudio Magris, il grande critico letterario, custode della tradizione mitteleuropea.

In poche pagine Magris fa luce sulla doppia natura del segreto, pubblica e privata, e sulla doppia pulsione che scatena: a mantenerlo, e a rivelarlo. Sul versante pubblico due dinamiche: nella custodia del segreto c’è la struttura del potere, nella sua rivelazione la base della narrativa. Ma è sul lato privato che troviamo le motivazioni al “riserbo”, anche Natalizio.

In quest’epoca “di nudismo psicologico”, riscopriamo il diritto all’opacità, a una verità interiore, privata, non condivisa. Argomentazioni a favore del segreto personale, e dunque del non dire certe cose, tantomeno a Natal):

–       perché proprio in questi spazi di libertà da tutti, anche dall’amato, anche da sé stessi, vive una parte importante di noi, una capacità di custodire, e di essere autoconsapevoli;

–       perché ci sono segreti destinati all’oblio, specie per fatti che si vorrebbe non fossero successi, che portati alla luce farebbero danni irreversibili, e senza  alcuna utilità;

–       perché custodire un segreto è anche un altruismo, si mente o dissimula per proteggere altri, che da questa rivelazione sarebbero annichiliti;

–       perché rivelare un segreto è già deformarlo, similmente a quanto dimostrato dal principio di Heinsenberg (osservare un fenomeno è già modificarlo);

–       perché non si apre un cassetto che potrebbe esplodere, quando si può lasciare che il suo potenziale distruttivo  si disinneschi poco a poco (questa sarebbe la “La dissimulazione onesta”, il trattato seicentesco di Torquato Accetto).

Mia cara Mrs. Drinkwater, La ringrazio cordialmente di questa lettura, e della Sua nota sul significato letterale della parola “ri-velare”.

Mi si conceda dunque di aggiungere una postilla al mio messaggio in preparazione al Natale: in questi giorni, amici, viaggiate senza paura nelle vostre stanze segrete, e scegliete con cura e amore, per le persone a voi care, quali cose dire a Natale, e quali invece non dire.

E riflettendo sul diritto all’opacità, “in quest’epoca di nudismo psicologico”, penso a quella forma comoda e geniale di protezione del segreto che è il sacramento della confessione.

E penso alla figura e alla storia di S. Giovanni Nepomuceno il “confessore”, il protettore dei ponti, quella specie di vescovo grigio che vedi sul ponte della Morla, di Gorle, di Nembro e in milioni di altri ponti nella vecchia Europa.

S. Giovanni Nepomuceno era vescovo di Praga, e confessore dell’imperatrice. L’imperatore lo trascina sul ponte Carlo, vuole sapere se la consorte ha un amante. Lo minaccia di morte. Ma il Nepomuceno non cede. E allora viene gettato giù dal ponte, ad annegare nella Moldava.

Rappresenta il martirio di chi custodisce un segreto, e in questo c’è la sacralità della confessione, e la forza, la sicurezza che ti offre nei momenti di passaggio, quando devi attraversare un ponte, affidare i tuoi segreti al Signore (o alla tua coscienza) e andare avanti, passare oltre.

Spesso mi sono chiesto: e se l’amante dell’imperatrice fosse stato proprio lui, il santo confessore? A quel punto, morire per morire, gli è convenuto morire da eroe…

Non è raro ritrovarsi santi per sbaglio, o eroi per caso, per ironia della storia. A volte questo genere di santi risulta anche più amabile. Facciamo tesoro di quello che il Nepomuceno, o qualsiasi altro nostro parente, rappresenta di buono, senza bisogno di sapere e chiedergli se…

A Natale, ditele le cose!

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Ditele le cose, a Natale, le cose che avete in pancia, in gola, ditele, tiratele fuori, aprite i pacchi, questi sarebbero i veri regali da aprire, i nostri cuori: c’è regalo più prezioso?

Dimmela nel modo giusto, quella cosa tra noi, con garbo, umiltà, quella ferita, quell’incomprensione, quella richiesta inascoltata, quella delusione, dimmela, dammi la possibilità di chiederti scusa, perdono, di abbracciarti, di ricominciare, di risanarci insieme.

Natale è per tutti, è la festa della rinascita, finisce un ciclo lunare, ne inizia un altro, è questo l’origine del Natale, precristiana, pagana, è lo Yule nordico, e il significato è un vero e proprio bilancio di fine anno, un fare i conti con le cose importanti, le cose della tua vita, le scelte, i traguardi, i fallimenti, le persone, gli affetti, i comportamenti che hai tenuto: l’anno è finito, riconosci gli errori, paga i tuoi debiti, i debiti dell’anima, chiedi scusa e perdono, ammetti, e festeggiamo insieme, e da domani comincia un nuovo anno, e per cominciare bene questa notte di baldoria è fondamentale, è fondamentale la “pulizia” che si fa tra di noi, è per questo che facciamo baldoria, è dai regali del cuore che viene la gioia, e così il Natale è per tutti, è la festa della rinascita di noi, dei nostri affetti…

Invece, quello che succede, è una tragica caricatura, tutti cercano di interpretare la famiglia felice, e mettere in scena un giornata esemplare, di facciata, dove tutti sono felici, pasciuti, mielosi e capaci di menù, regali e presepi da copertina.

Poi c’è sempre qualcuno, la pecora nera, il cognato disoccupato, la nuora altezzosa o il nipote stronzo che a un certo punto non ce la fa più, e scoppia, e ubriaco dice la cosa sbagliata, nel modo sbagliato, e scatena il finimondo, la scenata,  il contrario esatto della rinascita.

Bisogna dire le cose nel modo giusto, nel momento giusto, bisogna avvisare prima, e quando vi chiedono “vieni a Natale?” bisogna dire “si, ma solo se festeggiamo davvero il Natale”, e gli spieghi questa cosa di aprire il cuore, e regalare il cuore.

In realtà, bisogna essere tutti più cattivi, a Natale, sia con sé stessi che con i propri cari, bisogna avere coraggio a Natale, il coraggio di riconoscere i propri torti, e anche il coraggio di chiedere all’altro ragione dei torti subiti, il coraggio e il bisogno di perdonare ed essere perdonati: allora questo è il Natale per tutti, anche per noi cani sciolti che non abbiamo la famiglia felice, e ci sentiamo male a vedere le luminarie, e il traffico da shopping.

Riprendiamoci il Natale, prepariamoci al Natale, abbiamo un anno per elaborare le nostre ulcere, curarle, leccarci le ferite, e poi far vedere ai nostri cari le nostre cicatrici – non i tatuaggi! – e raccontarle, e chiedere un bacio che benedica queste cicatrici.

Lascia perdere lo stress della corsa al regalo, non è nei centri commerciali che troverai la cosa giusta per me, ma dentro di te, nei giorni passati dentro di te, nelle cose sbagliate successe tra noi, nelle cose non dette.

Fammi un bel regalo a Natale, dimmi le cose che non mi hai detto, e lascia che io ti possa dire le cose che mi sono rimaste lì. Lo so, non è facile, non è detto che la riconciliazione sia automatica: ma mille volte meglio un autentico Natale difficile, di un buon Natale ipocrita. Non cureremo un’ipocrisia decennale in una sera, ma dobbiamo pure cominciare.

Capisci cosa ti sto dicendo, sorella, fratello, amico mio? Questi sono i miei auguri di Natale per te.

 

esci da facebook, e guardami in faccia

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“Su facebook non passa giorno senza che tu metta mi piace alla tua ex, qualsiasi pisciata lei faccia,

e a me, che sono la tua donna, e vengo a letto con te tutti i giorni, non hai il coraggio di dirmi che mi vuoi bene guardandomi in faccia”

(tratto da “Le ballerine di WhatsApp”, spettacolo teatrale – balletto, testo by Leone Belotti, prox on stage)

cosa vuol dire immacolata concezione

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LOTTO-Annunciazione-11 In realtà, si parla di diritto d’autore. Immacolata concezione significa che il codice sorgente è libero, e la creatura, che sia un software, un manufatto o un essere umano, non è di proprietà dei genitori naturali, ma è un dono del “padre nostro” all’umanità.

Questo è il ruolo dell’apparizione dell’arcangelo Gabriele, che l’ateo ignorante legge come un qualsiasi caso di gravidanza extramatrimoniale: il seme, la grazia creativa proviene dal padre di tutti, chiamalo Dio, Spirito del Pianeta, Padre che stai nei cieli o Madre Terra.

L’immacolata concezione è il momento nel quale accogli l’illuminazione creativa nel tuo ventre: ti viene affidato un dono, e il tuo unico compito è svezzarlo, e donarlo all’umanità.

L’unico copyright, l’unico prezzo da pagare all’Autore collettivo, in cambio di una vita libera, breve e autentica, è la morte corporale.

Da quando nasce a quando muore, il Bambino non è tuo, è figlio di Dio, di un free software, è frutto di un seme non in vendita, non di proprietà, e come tale è libero da ogni tag terrena e sciolto da qualsiasi obbligo di famiglia.

Questo vuol dire immacolata concezione. Nascere liberi.

(imago: annunciazione by Lorenzo Lotto)

 

dopo un mese su whatsapp

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Da un mese, compiuti cinquant’anni, vivo su WhatsApp,

come molti, ho con la tecnologia un rapporto schizofrenico, passo anni da retrogrado, come un eremita nel deserto, poi quando il Signore me lo chiede torno in città, e resto fulminato,

il mese scorso ho perso il mio vecchio telefonino di 15 anni fa, niente foto, niente internet, così mi sono rassegnato a entrare nel mondo smart, e il giorno dopo ero già nel tunnel di WhatsApp. Oggi posso condividere alcune considerazioni:

a)    dopo un mese su whatsapp sei un’altra persona, con una solitudine diversa, fatta da una moltitudine di virtualità, che ti priva dell’unica risorsa della solitudine classica, te stesso;

b)    il vecchio dogma Mc. Luhan – il mezzo è il messaggio – è ancora “buono”, e spiega senso e successo di whatsapp: trovarti davanti questa lista di faccine, con delle mezze frasette, solo da toccare, ti porta a comunicare con messaggi fatti di mezze frasette e faccine, di fatto un balbettare con smorfie sorrisi o sghignazzi. Passi delle mezz’ore a scambiarti emoticon, icone, segni da cavernicoli, e infine la quantità e qualità di informazione che trasmetti e ricevi in questa mezz’ora è infinitamente minore di quella che passa in una comunicazione reale, faccia a faccia, con sguardi, toni, aura, contatto. In realtà sei sempre lì da solo davanti a questa tavoletta a chiederti cosa intendeva, cosa rispondere, problemi che in dialogo reale non hai, perché il tono, lo sguardo, la voce di un essere umano ti fa capire subito cosa sta dicendo il tuo interlocutore, a differenza degli emoticon, che di fatto diventano i tuoi sentimenti, i tuoi messaggi, il tuo mezzo di comunicazione.

c)    la tesi che ero curioso di sperimentare è questa: le tecnologie e le opportunità di connessione e comunicazione sempre e con chiunque assorbono il nostro carico di ansia, o lo alimentano? Per quanto mi riguarda, decisamente la seconda. Ho anche più ansia rispetto all’oggetto: il vecchio scatolino mi dava il senso di avere in mano una bomba a mano, questa tavoletta da scriba, luminosa, sottile, fragile, da sfiorare, mi incute soggezione, emana un alone sacrale, non so mai da che parte prenderla.

Stasera, dopo un mese di dipendenza, sempre lì a guardare sto tabernacolo, aspettando un suo segno – che per l’appunto è il tipo di rapporto che si ha con la divinità – ho capito di dovermi disintossicare, come si fa con qualsiasi droga.

Il vero problema è rendersi conto che l’iper-comunicazione come qualsiasi droga o forma di vita religiosa ti promette la felicità, ma di fatto ti crea dipendenza. Dipendi da quei bip, è il bip che vuoi: puoi fare a meno di tutti i tuoi amici, in realtà, ma non puoi fare a meno di whatsapp. E del web, di fb, etc.

Da domani, prenderò una serie di misure per disintossicarmi, tornerò alla forma di vita religiosa catto-militare, francescana, regolata. Per ritrovare quella “solitudine in rapporto con sé stessi” che il mondo smart non prevede, adotterò 4 regole, cioè 4 divieti di utilizzo di ogni mezzo di connessione (oltre a quelli ovvi causa lavoro, riunioni, incontri, cinema, intimità): 1) durante la preparazione e il consumo dei pasti; 2) quando ti dedichi alla tua igiene e benessere personale (relax, ora di depressione quotidiana, sport, stanza da bagno); 3) quando guardi un film o leggi un libro, perché se sei in un film o in un libro e intanto whatsappi o altro, fai male entrambe le cose; 4) quando dormi, e magari sogni.

Alla fine WhatsApp è una forma di vita religiosa, devozionale, basata su delle immaginette che promettono miracoli, come i santini che le nostre nonne tenevano ovunque, o le foto dei morti di famiglia incorniciate e disposte su altarini o bacheche in salotto, con le quali dialogavano/pregavano quotidianamente.

Ma loro avevano meno ansia legata al bisogno di risposta, e forse anche più consapevolezza riguardo al “mistero” etereo del rivolgersi a esseri che sono altrove, e che noi facciamo rivivere nel nostro spirito.

(imago: elaborazione friendly by C.Rocchi)

il testamento del padre libertino

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RIP brescia 290916 9710 JMR  Nulla è più tragico per me che saperti tormentata da desideri che sei indotta a vincere, secondando la folle idea di sacrificarti, dopo aver perduto gli anni più belli della giovinezza, sposando un uomo che non muoverà un dito per farsi amare e che devi accettare comunque!

No, no, Eugenia, tali doveri non hanno senso: una fanciulla raggiunta l’età della ragione e avuta un’educazione  ella casa paterna, deve essere lasciata libera verso i quindici o i sedici anni di comportarsi come meglio crede e di diventare ciò che vuole.

Cadrai preda del vizio? E che importa! La funzione sociale di una donna che rende felici tutti coloro che la desiderano non è forse più importante di quella di colei che, isolandosi, si concede soltanto al suo sposo?

Il destino della giovane donna è simile a quello della femmina dei lupi: ella deve essere di tutti quelli che la desiderano. Seguiamo l’esempio della natura e delle leggi che regolano la vita degli animali e prendiamo esempio da questi, per una volta!

Eugenia, il tuo corpo appartiene a te e a nessun altro, solo tu potrai giudicare se hai diritto a goderne e a farne godere. Non perdere il tempo più felice della tua vita: sono corti e pochi gli anni felici del piacere!  L’intensità del piacere è tale che ti donerà dolcissime memorie nella vecchiaia.

(da “La filosofia nel boudoir”, Alphonse Francois de Sade, 1795; immagine: cimitero Vantiniano di Brescia, photo by Michele Perletti, http://portraitreportage.weebly.com)

 

pubblicità porno progresso

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tema: guida in stato d’ebbrezza – birra – motociclisti- comunicazione sociale

concept: la pubblicità progresso per sua natura non si rivolge ai bassi istinti ma ai sentimenti nobili, parlando alla sfera etico-morale-razionale, ma così facendo va contro la natura base della pubblicità, che agisce sulla sfera emotivo-impulsivo-subcosciente. Esempio classico i messaggi “buonisti” tipo: se hai bevuto, fai guidare un amico. E tu pensi: che amico è se mi ha lasciato bere da solo? L’idea è fare una pubblicità progresso no limits, che voglia colpire e convincere di pancia, e non di cuore, o di psiche. In realtà, noi sappiamo perché molta gente, specie  giovane, con l’alcol in circolo si sente in pista. L’abbiamo sperimentato. Dobbiamo trovare qualcosa di più eccitante.

ispirazione: viene per serendipity (trovi una cosa quando ne cerchi un’altra), da un altro brain storming informale: si parlava in zona fumatori del successo di “50 sfumature di grigio”, a fronte di un prosa piatta. Provocatoriamente, qualcuno dice: provate voi copywriters a scrivere un pezzo porno di qualità. Raccolgo subito la sfida, mettendoci il carico:  “non solo ti scrivo un raccontino porno di qualità, ma ci metto dentro anche una morale positiva e un messaggio educativo”.

titoloDONNE CHE CORRONO CON I LUPPOLI

plot (per film 30”; mini-spot 5”; annuncio stampa con body copy):

Strada di montagna all’ora del tramonto, l’aria è frizzante, e il motore chiede di correre. Curva dopo curva, la guida morbida da “giretto romantico in moto” diventa sempre più veloce, aggressiva, ruggente. Hanno bevute due ipa a testa, e quando lei, cioè le mani di lei, e le gambe di lei, si stringono a lui, l’adrenalina schizza a mille, e allora lui spalanca il gas al massimo, e scatena i 100 cavalli del grosso motore.

Due curve, un’impennata, una staccata al limite, lui in trance agonistica, lei avvinghiata a lui, e poi ecco il tornante, lui ha già lo sguardo alla traiettoria d’uscita, ma lei gli fa un gesto deciso, che vuole dire fermarsi, subito.  Scendono dalla moto, si tolgono i caschi, si guardano. Lui, lei, la moto, il muretto. Al di là del muretto, il tramonto perfetto.

Lei, come scusandosi, dice: abbiamo dei bambini a casa. Poi si appoggia al muretto, rivolta al panorama, dandogli le spalle. Il disco del sole è una palla di fuoco che affonda tra le montagne incendiando la valle. Lui si avvicina, la bacia tra il collo e la nuca, con dolcezza.

Lei si slaccia il bottone dei jeans e si arcua come una gatta. Il gesto lo infiamma. Glieli abbassa insieme agli slip, si china, la bacia, la morde, il membro è eretto, si addossa a lei, le succhia il lobo dell’orecchio. Lei si solleva, si apre, si infila una mano tra le gambe e lo guida piano dentro sé. Meglio fare l’amore che un incidente, gli sussurra.

Photo: La Barbie by Ezio Manciucca, categoria Fine Art, serie: La plastica è debole; http://www.eziomanciucca.it/foto/fine-art/98/la-plastica-e-debole/page#

 

 

 

 

Amore e Psiche al tempo di WhatsApp

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Niente telefonate. Tramite WhatsApp, fin dal loro primo incontro si mandano un unico messaggio: Solito posto, solita ora? E la risposta invariabilmente è: Si.

Quando si vedono, non si perdono in domande, discorsi, richieste, promesse, attese. Passano tutto il loro tempo, che non è mai abbastanza, facendo l’amore. Una pura storia d’amore, solo d’amore.

Ma una mattina Psiche, svegliandosi dopo aver sognato i suoi baci, rimirando l’immagine di lui su WhatsApp, gli manda un messaggio che è un ordine, o forse una preghiera: Dimmi che mi ami.

Quando lo riceve, lui diventa di marmo. Non risponde subito. Lascia passare l’intera giornata. Sul far della sera, su WhatsApp, le manda un lungo messaggio. Te lo dice il mio corpo quanto ti amo, quanto ti voglio. Le parole e le aspettative rovinano tutto. Ogni cosa finisce. La malinconia fa parte di me, fa parte dell’amore. Non posso prometterti fedeltà.

Psiche lo rilegge più volte, poi spegne il telefono. Ora anche lei è di marmo. Si guarda allo specchio. Viveva sulle ali di un sogno d’amore. Si ritrova sola in una stanza densa di consapevolezza e malinconia. Un velo plumbeo le avvolge il cuore.

Lo stato d’innocenza è perduto. Il pensiero di lui non le dà più gioia luminosa, ma infinito dolore. Le sue parole – ogni cosa finisce, non posso prometterti fedeltà –  le risuonano come campane funebri, mentre le parole che bramava come acqua nel deserto – ti amo, amo solo te! – non arriveranno mai.

Non dorme. Tra di loro, tra le loro labbra, ci sarà sempre una distanza, una piccola distanza incolmabile. Il cuore le suggerisce il messaggio che gli manderà domani, l’ultimo messaggio. Hai ragione. Il nostro amore è stato bellissimo. Addio!

Quando la mattina accende il telefono per mandarglielo, per prima cosa vede che l’icona di WhatsApp brilla, e nella chat trova tre messaggi che lui le ha inviato nella notte: Hai ragione tu, amore mio. Vincerò ogni paura. Ti amo. Con le dita tremanti, e il cuore in tumulto, gli risponde: basta stronzate e messaggi inutili, vediamoci al solito posto.

(photo, Amore e Psiche, Villa Carlotta)

 

Quando scrivevo romanzi molto veloci

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In fondo al rettilineo, prima della galleria, c’era una delle mie curve preferite. Conoscevo bene quella curva, a medio raggio, stringente, cieca, a destra, con la parete rocciosa da una parte e lo strapiombo sulle acque del Brembo river dall’altra. Una maledetta curva assassina, disassata, pericolosa, spesso scivolosa, con buche ai margini e brecciolino in carreggiata. Era una curva da prendere a 90-95 km/h in condizioni ideali.

Diedi un occhio rapido al tachimetro e realizzai che ci stavo volando dentro a 140 km/h pieni. Quando sei abituato a spremere al massimo i 30 cavalli scarsi del tuo 125, e ti dimentichi di essere su una belva da 110 cavalli, succedono cose come queste: ti rendi conto troppo tardi che stai entrando in curva troppo veloce per le leggi della fisica.

Mollai di colpo il gas e mi avvinghiai ai freni scalando a martello una marcia dietro l’altra. Un attimo prima ero un genio che voleva migliorare la staccata a gas spalancato. Adesso ero un idiota nel panico disperatamente appeso ai freni.

Le forcelle cominciarono a sbacchettare come martelli pneumatici. Cercai di esercitare una forza mostruosa sul manubrio, col risultato che già ai 60 metri i due dischi anteriori – due poveri Brembo di serie da 260 mm – mandavano bagliori arroventati. Stavano collassando. Ma soprattutto i 110 cavalli che avevo tra le gambe, pazzi di dolore per le mie violente scalate, ululavano come mandrie al macello, e parevano in procinto di sbiellare i due cilindri nei quali erano imbrigliati. Già mi immaginavo il carter sinistro esplodermi sulla caviglia, tra le altre cose.

Ad ogni modo, in questa situazione, e senza mollare i freni, buttai giù la moto in piega estrema, così, di colpo, con grande sangue freddo e anche con un certo sfoggio di tecnica speedway. La ruota posteriore cominciò a slittare e a saltellare come un bob su una pista con le gobbe. Tutto il retrotreno stava partendo in sovrasterzo: avrei dovuto controsterzare di avantreno per stare in carreggiata, ma avrei così innescato il noto effetto crazy horse, quando la moto si imbizzarrisce e ti disarciona esattamente come farebbe uno stallone selvaggio.

Ero nell’istante prima della caduta, quando hai la massima tensione e la piena consapevolezza, frutto d’esperienze già avute, che una sola impercettibile pressione sbagliata sul freno o sul gas significa essere catapultati in aria come il pilota di un caccia quando preme l’eject.

Fu proprio in quell’istante, mentre stavo per cadere, che, alzando gli occhi alla strada, dall’altra parte della carreggiata mi vidi apparire frontalmente e in tutto il suo splendore non già la Madonna, e nemmeno Atalanta, bensì la nota e massiccia sagoma di un furgone combinato modello magut, alla tipica andatura allegra noter gà mia tép de pèrd, con tre hulk in canottiera piantati nella cabina e i manici dei badili sporgenti mezzo metro fuori dal cassone, dalla mia parte.

Che cosa ci faceva un furgone magut di domenica mattina all’alba, in assetto da cantiere? Evidentemente stavano costruendo 18 villette a schiera nel fine settimana, ma sarebbero arrivati in ritardo quella domenica mattina, perché un sedicenne in moto si sarebbe spatarrato sul muso del loro Transit.

Potevo provare a evitare il frontale col Transit dei magut, con probabilità quasi certa di farmi schiacciare sulla roccia dalla mia stessa moto o volare insieme a lei giù dallo strapiombo. Niente poteva salvarmi. Era del tutto impossibile stare nella curva ed evitare il furgone. Era arrivato il momento cruciale.

In un istante ultrarapido nella mia mente si affacciò l’immagine del nonno, nella sua tipica posa da contro-predicatore, con la sua tipica espressione da vecchio gaudente monarcoide. Fin da quando ero bambino, il nonno mi aveva ripetuto: «Nessuna grande impresa è impossibile quando è animata da alti ideali». Me lo diceva quando avevo cinque anni, e a cinque minuti dalla fine perdevamo in casa con la Fidelis Andria, e me l’aveva ripetuto di recente, quando gli avevo chiesto se mai l’Atalanta avrebbe vinto la Champions League. Nessuna grande impresa è impossibile: come un mantra orientale, questa frase si era instillata nel mio cervello, ed era diventata un comandamento morale, un sentimento, un istinto, uno scatto in avanti. Fu questo che mi accese il cervello mentre stavo per ammazzarmi: la grande impresa.

Non c’era tempo per ragionare, né spazio per frenare; restava solo l’incoscienza della grande impresa. Così, davanti al muso del Transit dei magut, già quasi in fase di caduta per i fatti miei, lasciai per un istante che la moto seguisse la sua deriva, il suo istinto ad allargare, e poi iniziai a riprenderla in sbandata controllata, o derapagè. Ovviamente questa non era la manovra adatta a evitare il furgone. Le nostre traiettorie si sarebbero incontrate a centro curva, da manuale del frontale mortale. E qui ringrazio il Dio dei Magut, perché il driver in canotta comprese al volo la situazione, a invece di cercare di frenare o schivarmi – cosa che non avrebbe comunque impedito l’impatto – sterzò deciso all’interno, sicché io gli sfilai all’esterno, cioè dall’altra parte della carreggiata, all’inglese: manovra da urlo e oltre ogni codice, una cosa da tunnel dell’orrore, con il muso del furgone che ti si fionda davanti agli occhi e schizza via come un fotogramma.

Ero miracolosamente riuscito a infilarmi tra il furgone e il gard rail, sul lato strapiombo. Ora mi restava il secondo problema, cioè stare nella curva e non volare fuori per la tangente e giù dal dirupo roccioso verso le pozze verdi di acqua gelida ottanta metri più in basso. E qui ringrazio il Dio della Playstation che mi ha insegnato la guida di sponda, usando il gard rail come fosse il muretto-guida di una pista da micromachines. Dunque con la tranquillità dell’adolescente alla consolle presi a saggiare e strisciare il gard rail facendo skating col ginocchio sinistro – protetto dalle saponette para-rotul rinforzate con inserti di borchie metalliche – mentre la Yama riprendeva quel minimo di aderenza che mi diede la possibilità, subito sfruttata, di controsterzare, dare gas, e uscire a cannone dalla maledetta curva giusto mezzo metro prima del diabolico muretto, perché anche quando non ci sono più altri pericoli, anche quando hai evitato il frontale e lo strapiombo, c’è sempre un diabolico muretto killer ai lati della strada.

Nel breve rettilineo dopo la curva, a sessanta all’ora, le gambe mi tremavano come lenzuola stese al vento. La strada era sgombra e la moto aveva ripreso il suo assetto normale. Mi fermai sul ciglio della strada. Avevo distrutto la parte sinistra della tuta-salopette in pelle vintage, la saponetta era completamente abrasa, lo scarico ammaccato e il convogliatore d’aria in carbonio sfasciato.

Niente di grave sul lato danni fisici e materiali, ma uno sfacelo sul versante danni psichici. La mia carriera di centauro era ad un bivio. Avevo compiuto la grande impresa numero uno. Avevo portato in salvo i ciàp. Ero stato grande, e il nonno mi aveva come sempre ispirato, ma la mia manovra da urlo non sarebbe servita a niente se non fossi stato aiutato dall’alto. La Dea mi aveva salvato, era chiaro, proprio come nell’Iliade e nell’Odissea, quando le Dee si innamoravano di un guerriero mortale, e deviavano le frecce avverse.

Capivo che potevo essere morto, o restare traumatizzato a vita. Potevo non salir mai più su una moto o risalirci subito. Pensai di nuovo alla Dea, alla mia Dea personale che stavo per rivedere.

L’ultima volta che ci eravamo visti, quasi tre mesi prima, era salita dietro di me sul Caballero Competizione. Sull’onda di questo flashback la mia naturale idiozia di sedicenne ebbe il sopravvento: infilai la testa nel casco, balzai in sella come Zorro e con gesto sincronizzato avviai il motore, spalancai il gas e mollai la frizione.

La ruota posteriore, dopo aver frullato a vuoto come un frullatore senza frutta, fece presa e sparò in avanti me e la Yama come un’unica bestia che ruggisce e balza in avanti protesa e affamata. Divorai quel che restava del rettilineo in accelerazione rabbiosa con impennata continua e innesti al volo di prima, seconda e terza marcia. In fin di rettilineo planai dolcemente in carreggiata e lo stomaco, che era giunto in gola, ritornò al suo posto. Quindi mi alzai in piedi sulle pedane con l’idea di sgranchirmi, ruttare e scoreggiare. Ma sul bordo della strada vidi due ragazzini che mi osservavano a bocca aperta. Cosa ci facevano due ragazzini, uno bianco e uno nero, all’alba sui bordi della strada? Allora feci loro un cenno di saluto papale, con pollice, indice e medio in outsourcing, poi diedi gas stando in piedi sulle pedane per un’ultima penna trionfale prima di uscire dalla loro visuale.

(tratto da “Rapina al casinò”, by Leone Belotti 1993, classificatosi secondo al Premio Tedeschi Mondadori per il miglior giallo dell’anno. Vincitore quell’anno risultò Carlo Lucarelli. L’anno successivo, di nuovo arrivai secondo. Non contento, partecipai una terza volta. Arrivai secondo, e smisi di scrivere gialli d’azione.

Domenica scorsa, dopo aver perorato su questo blog l’idea di chiudere ai motori le Mura di Bergamo, con perfetta coerenza italiana, sono andato a farmi il mio giretto in moto sulle Mura, con la mia vecchia Yamati, ibrido telaio tipo Ducati e motore Yamaha TDM, quasi 20 anni su strada e 100.000 chilometri senza un problema.

Vedo questo fotografo con grande zoom che dal bordo strada mentre passo mi fotografa a ripetizione. Quando torno indietro lo rivedo, mi fermo, è giovane, mi dice di essere russo, si chiama Dimitri, indossa una maglietta Ducati, sta girando il mondo in compagnia di una bellissima ragazza, seguendo un progetto preciso, fotografare motociclisti di ogni paese.

Per questa sua capacità e voglia di mettere insieme le sue passioni, la fotografia e la moto (e la ragazza…) mi ricorda me alla sua età, quando scrivevo romanzi molto veloci, in venti giorni, con protagoniste le motociclette.

Ci scambiamo la mail, gli chiedo di mandarmi qualche scatto. Spesso queste promesse restano tali. Invece stamattina trovo le foto che mi ha fatto. Grazie Dimitri, se nel tuo giro del mondo ripassi da Bergamo, casa mia è casa tua!)

Photo by Dimitri Moseychuk; Instagram: @seitengewehr_98k – Facebook: https://www.facebook.com/dmitry.moseychuk.9

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Se le Mura Venete potessero parlare

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BGterrazzaUmanità

Se la cosa fosse avvenuta spontaneamente, l’accetteremmo; la lingua è una cosa viva, niente è immutabile. Ma che la cosa sia frutto di una scelta dall’alto, che venga imposta, e con motivazioni così basse, e linguaggio non pertinente (una scelta “stilistica”, la definisce un portavoce istituzionale) ci deprime profondamente.

Cambiare “leggermente” nome alle Mura Venete di Bergamo, creando un falso come le “Mura Veneziane”, che fa subito souvenir, con la motivazione di attirare turisti (considerati come allocchi), mi sembra un’operazione non dignitosa, che non crea valore, ma al contrario squalifica sia il messaggio che l’emittente.

Parliamo del monumento simbolo della città. Vogliamo tutelarlo, promuoverlo valorizzarlo. Noi siamo sognatori. Pensiamo al tracciato pedonale sotto le mura, e immaginiamo i bastioni panoramici come una terrazza dell’umanità, senza auto né asfalto.

E intanto ci sono persone al servizio della città che sui monumenti e sulla nostra identità fanno scelte di marketing adatte a merendine senza valore, cui trovare un naming appetibile. Noi non siamo tra i cacciatori di titoli e medaglie, non riusciamo a entusiasmarci per questa rincorsa al riconoscimento di “patrimonio dell’umanità”, ma se sei convinto che sia un patrimonio dell’umanità, come puoi pensare di cambiargli nome? Come puoi pensare di ristrutturare i parapetti con cemento armato, ed effetto “muretto in stile”.

Non possiamo sentir parlare di scelta “stilistica”. Le Mura Venete sono vere. Le Mura Veneziane suonano false a chilometri di distanza, puzzano di dolciastro come certi profumi. Il fatto è che le Mura Veneziane non esistono. Venezia non ha mura. Sono le Mura di Bergamo, non di Venezia. Bergamo è una città di pietra, non d’acqua.

Questo appello è lanciato dalle Mura a tutti coloro che amano questa città di pietra, e ascoltano i sussurri delle pietre, e i silenzi, e le urla.

Ma il Comune vuole attirare turisti a forza di like, segue la politica dei like, di google, e del SEO.  Bene, se il Comune capisce solo i like, diciamoglielo con i like.  Preferiamo tenerci le Mura Venete. Condivide, et impera!

(qui sotto, riporto un estratto da WALL STRETT 1588, by Max Rebelot:

…e allora perché non far luce sul più gigantesco abuso edilizio mai realizzato a Bergamo,demoliti centinaia di edifici orti vigne cascine monumenti chiese per rinchiudere la città in un enorme inutile muro, succedeva nel 1561,

da preventivo dovevano costare 40.000 ducati ma a fine lavori siamo arrivati al milione, era il 1588, si inaugurava il Viale delle Mura (in english: “wall street”)

mega opera completamente inutile, perché nel frattempo l’invenzione delle armi da sparo le rendeva militarmente superate, mentre il nuovo assetto geopolitico uscito dalla battaglia di Lepanto segnava la fine del ruolo di Bergamo come caposaldo di terraferma della Repubblica Veneta,

il suo vero valore è quello di opera concettuale, la città delle mura, la città dei muratori, la città murata, città chiusa, con i muri in testa,

all’alba della civiltà dei motori il circuito delle Mura ospitava gran premi di auto e moto, poi il soap box rally,

adesso sarebbe ora di chiuderle al traffico, e dare l’esempio della città pedonale,

ecco da cosa ci possono proteggere oggi le mura: dalle auto! Dall’idea superata di libertà come abitacolo mobile privato. Oggi abbiamo capito che la libertà è uscire da quell’abitacolo, gioia di vivere con gli altri, e condividere aria e terra, anima e corpo.

Vogliamo scale mobili, ascensori, piste ciclabili, vie ferrate, trenini elettrici,

per cominciare rimettiamo a posto i parchi e le aree archeologiche di città alta devastate per realizzare parcheggi da ignoranza atavica +  grasso benessere, mix micidiale, da sempre dna delle nostre elites sociali e politiche

poi per godersi veramente il fascino storico-paesaggistico delle mura, ed entrare nello spirito del luogo, ci vorrebbe un servizio di risalita slow-motion, a dorso di mulo

e per la discesa uno scivolo d’acqua diretto, mozzafiato, panoramico, spettacolare, un fast rafting  tra la piscina del Seminario e quella dell’Italcementi, e glielo facciamo inaugurare insieme, a esperti, artisti e assessori..