Visit Bergamo giù dalle Mura

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Le Mura di Bergamo da 455 anni sono e si chiamano Mura Venete, come la Repubblica Veneta, di cui Bergamo è stata, con queste sue Mura, caposaldo di terraferma dal 1428 al 1796.

Veneziane invece sono le tendine, la scrittura, e le brioche alla crema.

Ci voleva il sito di promozione turistica della città, che dovrebbe essere la Crusca del patrimonio storico culturale, per cadere in questa topica, e proprio sul monumento più visibile della città, in predicato di diventare patrimonio dell’umanità.

Da mesi sul sito Visit Bergamo io vedo la home con “Le Mura Veneziane ti aspettano”, e da mesi aspetto che correggano, ma i mesi passano, e le brioche restano lì, indigeste.

Per favore, non ce la faccio più: errata corrige!

Delitto e castigo in 4 sorsi di birra

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Mi mettono davanti una Raskol’nikov, il protagonista del romanzo più famoso di  Dostoevskij: “un’opera dove non esistono personaggi minori, ma dove ogni figura è portatrice di una voce, di una propria potente visione del mondo”.

È stato il critico Michail Bachtin a inventare l’espressione “romanzo polifonico” parlando di Dostoevskij: ogni personaggio rappresenta in qualche modo un’idea, un’ossessione, un punto di vista sulle cose”.

Siamo tutti Raskol’nikov, cioè: compiere un delitto, e passare il resto della vita a cercare di giustificarsi con sé stessi. Tutto è assurdo fin dall’inizio, e la Raskol’nikov è sicuramente una delle birre più strane del pianeta. Tutto strano, tutto illogico in linea con i tempi.

L’unica mentre si beve una Raskol’nikov?  Leggersi la biografia di Dostoevskij. Come si legge una biografia?  La vera lettura è la scrittura che ti fai nella mente quando decidi cosa ti devi ricordare! 4 cose al massimo.

1) A vent’anni è un rivoluzionario e scrive: “Le notti bianche”.

2) A trent’anni sposa una donna ricca, e cosa scrive? “Umiliati e offesi”.

3) A quaranta muore la moglie, lui inseguito per debiti, e scrive: “Delitto e castigo”.

4) A cinquant’anni  riesce ad acquistare una villetta in campagna dove si ritira a scrivere. E cosa scrive? “L’idiota”.

Meglio farsi un’altra  Raskol’nikov. In bocca è salata (sale rosso delle Hawaii!), acida, speziata, lamponata e persino luppolata, ma poco. Una rivisitazione delle classiche Gose di Lipsia. Ha un effetto vieppiù interessante: rende gli uomini più intuitivi e le donne  intelligenti.

testo di Alessandra Corti (ex conversazione con Papa LeoneXIV)

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cosa dicono i morti

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Se parli con i morti, ti diranno in coro di non andare a trovarli in questi giorni, troppa gente, impossibile far due parole, non trovi neanche parcheggio e il fiorista non ti farà certo lo sconto.

Se approfondisci il discorso, non puoi che essere d’accordo con loro: la festa dei morti appartiene al genere delle festività ipocrite, come la festa della donna e simili, feste che in realtà rivelano la cattiva coscienza di una comunità che ignora i morti, e maltratta le donne.

In realtà, non è la festa dei morti, ma del peggior lato dei vivi: le apparenze. Il vero motivo della visita è fare vedere a parenti e conoscenti che la tomba è curata, i fiori freschi.

Stamattina sul giornale un prelato raccomandava di non lasciare le tombe spoglie…

E così il cimitero in questi giorni è affollato di una massa di individui compunti, affettati di gravità, che si sforzano vanamente di sentire una voce interiore, provare un sentimento, ma presto devono ammettere di non sentire niente, è questo che li rende tristi, e li conferma che venire al cimitero è inutile, è solo una formalità sociale annuale. E il discorso è chiuso.

Invece, chi ascolta le raccomandazione dei morti, e sta a casa, e va a trovarli nei giorni qualsiasi, negli orari qualsiasi, la mattina, o all’ora dell’happy hour, nella quiete, nel silenzio, ritroverà facilmente il dialogo con i propri cari che stanno nell’aldilà, cioè aldilà delle apparenze, aldilà dei luoghi comuni.

Se festa dei morti deve essere, i vivi devono stare fuori. Il giorno dei morti i cimiteri dovrebbero essere chiusi. Altrimenti è la festa dei morti viventi.

Immagine: Cimitero Vantiniano di Brescia, Pantheon rimesso a nuovo con espulsione dei “cittadini non illustri”, preview RIP advisor CTRL magazine next publishing,  ph. by Michele Perletti http://portraitreportage.weebly.com

 

cosa ti dice un fiore di campo

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vieni da me

io sono linfa per te

non desiderarmi invano

non guardarmi con amore

prendimi

portami con te

consumami d’amore

io sono desiderio gioia orgasmo

mi terrai tra le tue pagine più belle

e ti amerò per sempre

ma strappami

adesso

 

 

Una settimana senza telefono

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Domenica sera. Esci dal cinema, attraversi la piazza, scambi due parole con gli amici, mani in tasca, cerchi le sigarette, e non trovi il telefono. Dapprima pensi di averlo lasciato a casa. Poi ti ricordi il gesto, entrando al cinema, di spegnere il telefono. Torni sui tuoi passi. Ma il cinema ormai è chiuso. Per la terza volta ti palpi tutte le tasche, pantaloni, giacca. Ma sai benissimo che era nella tasca destra dei pantaloni. Deve essere successo quando ti affossavi nella poltrona, con le ginocchia sulla spalliera dei sedili davanti. Ti dici ok, è solo per stasera, domani lo ritrovo, certamente lo ritrovo, con ogni probabilità lo ritrovo.

La tua coscienza, comunque, nell’andare a letto, ti dice: sei un cretino. Perché non hai mai copiato da qualche parte tutti i tuoi numeri di telefono? Sei sempre stato un retrogrado. E ogni volta che hai perso il telefono hai cambiato vita, persone, lavori, contatti, tecnologia. Solo quando tutti hanno la tecnologia innovativa, ti adegui. Il Signore forse ti sta dicendo che devi entrare nel mondo degli sfioramenti digitali, del touch e della connessione permanente. Finita l’epoca del piccolo Nokia scollegato dal mondo.

Lunedi. In rebus adversis. La tua espressione preferita: nelle avversità, quando le cose si fanno dure, esce il vir, il centurione romano, calmo, forte, combattivo, tenace. Puoi farcela. Ma devi combattere. Uscire dalla testuggine. Sfoderare il gladio. Essere pronto a tutto. Piano A e piano B, dogma e pragma, teoria e prassi, strategia e tattica.

Mandi una mail al cinema, telefoni, aspetti l’ora di apertura, ti stupisci della gente che arriva al cine mezz’ora prima. Pensi di parlare con la ragazza dai capelli neri che c’era alla cassa. Invece c’è un ragazzo con gli occhiali. Molto gentile. Dice che non è stato trovato niente, ti fa parlare al telefono con il signore che la mattina fa le pulizie, poi ti accompagna in sala, ti lascia cercare, ti spiega di guardare nei sedili, a volte gli oggetti si incastrano. Niente.

Piano B: evidentemente l’ha preso qualcuno, l’ha trovato e l’ha preso, forse un ragazzino, un ragazzotto. Ma il telefonino in sé non vale niente. Torni a casa, prepari un volantino, prometti una ricompensa, torno al cine. Il ragazzo alla cassa accetta di esporlo sulle vetrate.

Martedì. Coltivare la speranza. Il telefono per noi è Dio, è la forma di vita religiosa costitutiva del nostro esistere. Te ne rendi conto a partire dal secondo giorno.  Per tutto il giorno ti ripeti di “coltivare la speranza”. La sera vai al cine con le migliori aspettative. Niente. Torni a casa.

Vai a letto presto. Non riesci a dormire. A mezzanotte ti arrendi, ti ribelli, sono le gambe a darti la mossa, hai un’idea, ti alzi dal letto, hai un brivido di freddo, ti vesti con quello che trovi. Fai passare tutti i pantaloni e i giubbotti in cerca di monete, infili una berretta, esci, scendi in strada, non c’è in giro un’anima, attraversi la strada, la vedi all’angolo della piazza, la cabina del telefono. Emozionato, entri, sollevi la cornetta, inserisci le monete, un fiotto di ricordi dai tempi della Sip, cabine gialle, pannelli traforati, i gettoni, il disco rotante nel quale inserivi il dito, e ti sembra innaturale tenere in mano una cornetta, grossa, pesante, col cordone ombelicale… Linea libera, nervosamente ti accendi una sigaretta, poi la voce appare nelle tue orecchie, ti vive in corpo, il mondo non esiste più, sei altrove con “l’altro da te”, sei isolato, proiettato, parli, ascolti, esisti, cinque euro in cinque minuti, ma sei al settimo cielo.

Esci dalla cabina, e noti i tre marocchini che ti stanno guardando dalla panchina. Anche loro hanno sentito i tuoi euro sonanti ingoiati in pochi minuti. Sorridi. E quello brutto, cicatrici e tatuaggi, ti dice: «Tipo, te lo presto io il telefono, se non chiami in Romania».

Mercoledì. La vita va avanti. Cominci a pensare di poter vivere così. Non sei morto. Le persone non ti guardano male, o non più del solito. Sei quasi contento, sai che alla sera puoi scendere alla cabina a telefonare. Per tutto il giorno una sicurezza crescente, hai quasi la certezza che lo ritroverai, devi solo aspettare l’ora di cena, l’apertura del cine.

Ti rechi fiducioso. Ti chiedi chi ci sarà alla cassa del cine, la ragazza dai capelli neri, o il ragazzo con gli occhiali? Invece trovi un ragazzo con i capelli ricci. Anche lui molto gentile, e partecipe del tuo problema. Ma deve dirti che purtroppo ancora nessuno ha ritrovato il tuo telefonino. Affranto, attraversi la piazza. Entri nella cabina. Ma le tue monete vengono rifiutate. L’apparecchio è fuori uso.

Piove. Sei stanco. Hai davanti a te la prospettiva di girare la città in bici sotto la pioggia, cercando una cabina funzionante. Ma quello che ti atterrisce è un coacervo di presentimenti negativi, ti figuri di trovare la linea occupata, o la segreteria, o il silenzio di una mancata risposta, sapendo che non verrai richiamato…

Fai un bel respiro, e torni a casa. Vai a letto, e non dormi.

Cominci a pensare a tutte le persone che non riuscirai più a contattare. Persone che vivono in altre città, in altri paesi. A volte non sai nemmeno il loro cognome. Ma sono persone per te importanti. Che un giorno potrebbero cercarti, e tu non gli risponderai, perché non rispondi mai ai numeri che non conosci. Persone a cui un giorno hai fatto una promessa, che ora non potrai mantenere. Hai la sensazione di aver perduto un patrimonio che non ha prezzo.

Giovedì. Il giorno delle tentazioni. Le tentazioni ti arrivano dai social network. In piazza, sulla panchina, col portatile e la wifi, cominci a entrare in facebook per contattare le persone cui tieni, e per la prima volta hai la percezione dell’esclusione, e in preda a gelosie infantili, saltelli come uno spione da un profilo all’altro, guardi i like, chi like chi, guardi i cuoricini, ti trasformi in uno stalker, perdi il senso del tempo, retrocedi nelle bacheche altrui per mesi in cerca di nomi, e ti tornano in mente i discorsi del tuo amico programmatore, quando ti spiegava il funzionamento diabolico dei social network, un’intelligenza artificiale  muove le nostre relazioni umane, incredibilmente abile nell’insinuarsi nella tua vita, predisponendoti contatti sulla base delle tue ricerche, dei tuoi acquisti, delle parole che scrivi, e di milioni di altri dati.

Un sentimento maligno, diabolico ti spinge a continuare a cercare, non sai nemmeno tu cosa. Ti rendi conto che sono passate due ore, hai le gambe intorpidite, il mal di testa, la nausea, e dopo aver guardato nelle vite degli altri, e soprattutto delle persone cui tieni, senti di non essere stato mai così solo. Capisci che questa voluptas d’informazioni sulla vita social delle persone della tua vita è il vero demonio. Giuri a te stesso, al Signore, e agli Antichi Maestri che mai più cadrai in questa tentazione.

Venerdì. La consapevolezza della perdita. Senza telefono, stai vivendo una traiettoria psicologica nuova, un arco spirituale, e c’è una vita interiore che si riaccende in tutta la pienezza di ansia, angoscia, attesa, e continuo confronto con la propria finitezza. A un certo punto la paura prevale, la fiducia è morta. Non troverai più il tuo telefonino, il tuo passato, e tutte quelle persone cui tieni. La paura ha una sua temperatura, un suo raffreddamento nell’uscire dall’irrazionale, per diventare razionale e reale. Davanti a te vedi la tomba di Hegel, e capisci che è finita. Hai la certezza della perdita. Ti devi arrendere, devi accettare. Ripartire dalla finitezza, dal tuo corpo, i sensi, le uniche app che possiedi veramente, il mal di pancia, la fame, il freddo, la nausea. Queste cose non ti verranno tolte.

Ti prepari da mangiare, fai quello che fai normalmente, non esci, lavori, ma ti sembra di non esistere. Quello che ti faceva esistere era il messaggino di mezzanotte, o quelle due parole di tranquillità scambiate con una persona cara, o quei pochi minuti concitati con una voce che ami, a occhi chiusi…

Sabato. I tre tentativi. Ormai è deciso. Scendi nel negozio di elettrodomestici sotto casa, dove hai comprato la lavatrice. Per mezz’ora ascolti il commesso che ti spiega pro e contro dei diversi modelli e dei vari sistemi operativi. Poi scopri che non sono convenzionati con la tua compagnia telefonica. Da sei anni, ti dice. Su Internet continuano a figurare come punto convenzionato, hanno avvisato più volte, ma niente. Ti spiega dove andare.

Nel punto vendita in centro, vedi una piccola folla di persone in attesa, ognuno con la propria ansia, come nella sala d’attesa di un ambulatorio medico. Potrebbero volerci delle ore.

Vai al centro commerciale. Anche qui piccola folla. Ma c’è il biglietto per prenotare il tuo turno. Quando arriva il tuo turno, spieghi i tuoi problemi: telefono perso, comprare novo telefono. La ragazza inizia a digitare i tuoi dati, e il sistema informatico va in tilt. Succede a volte, ti dice, bisogna aspettare. Qualche minuto, al massimo mezz’ora. Il suo collega sta già parlando con il tecnico. Lo prendi come un segno, dici che hai fretta, tornerai più tardi, te ne vai, torni a casa. Forse devi, puoi stare senza telefono. Passare le serate, le nottate a scrivere, senza un solo contatto.

Domenica. Una vita diversa. Ti svegli la mattina immaginando una vita diversa, libero dalle tentazioni, dalle paure, dai bisogni. Sali in città alta, visiti Palazzo Terzi in modalità fantasmagorica. La fantasmagoria è la scienza, la tecnica per evocare gli spiriti dei defunti, farli apparire, farli rivivere dentro e fuori di te. Il nome che inserisci nella psiche/memoria, attivando anche il lato emotivo, è Henry Beyle, meglio noto come Stendhal. Per te Stendhal – attenzione! – è il nonno di Ken Follet. Ne “La Certosa di Parma” ci sono già “I pilastri della terra”. Ti senti, e lo evochi, come Fabrizio del Dongo, imprigionato nella Torre di Parma. Tu sai cos’è il sesso con la contessa Sanseverino, mora, procace, perversa; e l’amore con l’altra, la giovane bionda, esile, eterea, languida.

Con questa compagnia, quasi senza deciderlo, invece di tornare a casa, entri in autostrada. Dopo meno di due ore esci a Parma. Sulle orme di Stendhal, vuoi trovare il luogo che nel romanzo è chiamato “la Torre di Parma”, e deve trattarsi di uno dei numerosi castelli nei pressi della città, ma nessuno ha mai saputo dire con certezza quale. Sino ad oggi!

Non entri in città, ti dirigi verso gli Appennini, nella zona dei castelli. Non hai navigatore, né mappe, né telefono, ma conosci la zona, e soprattutto hai in macchina con te la “compagnia Stendhal”, che ti ispirerà la direzione, e ti porterà a destinazione. Osservi le linee sinuose delle colline che annunciano gli Appennini. Accanto a te, immagini una donna bellissima, dolce ed attraente. Le parli, le tocchi le gambe. Profitti dei semafori per baciarla con passione. Ti senti bene. Cazzo, ti dici: forse è questo che intendeva la Tamaro.

Il letto di un fiume in secca, un dolce pendio, con un piccolo cimitero circondato da un vigneto (la vite e la morte!), e alle spalle del vigneto, su un’altura, in posizione dominante, bello e preciso come un disegno sul vocabolario, ecco il castello che cercavi.

Con la coda dell’occhio, un cartello: birra artigianale. Freni, accosti, un cancello, il vigneto, un capannone, un piccolo piazzale, un tendone con dentro un tavolone, e una decina di persone.

Pensavi fosse un birreria. Meglio, è un birrificio. “Siediti con noi, stiamo festeggiando mia figlia che è incinta”. Ti danno da bere una birra cruda, non pastorizzata, buonissima. Brasato di cinghiale, salumi, formaggi, e poi torta alla birra. Ritrovi lo spirito del birrificio, il micro-birrificio familiare, una coppia di cinquantenni, i figli e gli amici dei figli. Un idillio, e glielo dici, e allora la “matrona” di casa ti guarda negli occhi, e confessa: “Non è tutto così bello come appare, ne abbiamo di problemi, anche grossi”.

Sulla via del ritorno, ti fermi a Brescia, fai un giro al Cimitero Monumentale, osservi il muro, la bacheca con le migliaia di profili del più grande social-network del mondo, l’aldilà. Ti inchiodi davanti  al sacrario dei “ragazzi del 99”, un’intera generazione di minorenni mandata a morire nella guerra del 1915-18, imberbi, costretti come vermi in una trincea, e poi gettati davanti ai cannoni, o ai gas, o ai lanciafiamme, a fare una morte atroce, e senza motivo, senza aver mai provato le gioie dell’amore.

Cala la notte, il cimitero chiude. Noi non esistiamo, siamo profili nelle bacheche altrui, numeri in agende altrui, lapidi anonime in cimiteri d’altre città. Se perdiamo la fede, e viviamo senza fede, senza il feticcio né il culto telefonico, ci accorgiamo che nel giro di pochi giorni il nostro vicinato relazionale diventa irraggiungibile. Il prossimo non ci parla più, l’amico è perduto, i gruppi ci estromettono.

La notte, a casa, una folla di spiriti inquieti si agita attorno al tuo capezzale. Te lo ripete in coro: non puoi lavorare, avere amici, relazioni in questo mondo senza avere un telefono. Puoi farti le domeniche col telefono spento. Ma domani è Lunedì.

Lunedi. Abramo e Isacco. Ti svegli, scendi al bar, e mentre leggi la Gazzetta ti viene in mente Abramo, messo alla prova dal Dio punitivo. Devi sacrificare il tuo bambino, la tua arroganza, la tua libertà, la tua privacy, i tuoi contatti, la tua vita riservata, e abbracciare la normalità, essere come gli altri, dotarti di uno smart, essere sempre raggiungibile e mailabile.

Dopo aver resistito una settimana, il lunedì pomeriggio ti consegni, ti presenti al tempio commerciale, e ti metti nelle mani degli operatori della compagnia telefonica. Ne esci psicologicamente e politicamente violentato, ma con la nuova tecnologia, pronto ad affrontare una nuova vita.

Dopo mezz’ora, mentre stai imparando ad aprire le mail, te ne arriva una dal cinema dell’oratorio: i bambini hanno trovato il telefonino.

I bambini della Montessori, stamattina, otto giorni dopo, hanno ritrovato il tuo telefonino nella sala del cinema, dopo la proiezione di Heidi, e l’hanno consegnato al ragazzo alla cassa.

A questi bambini che hanno ritrovato il tuo telefonino, e col tuo telefonino la tua dote di umanità che credevi ormai perduta, vorresti idealmente conferire il titolo di bambini benemeriti.

Grazie bambini, grazie al vostro gesto, hai  ritrovato non solo il telefonino, ma la fede nel prossimo, in te stesso, nel futuro… e nei bambini! (che ha sempre detestato).

E perciò ti impegni a essere buono, umile, a non cadere in tentazione, a resistere ai vizi e alle paure, a mantenere le promesse, a essere raggiungibile dalle persone cui sei caro o che potrebbero avere bisogno di te, ad aver cura degli amici e rispetto per la vite degli altri.

Perdi il telefono, e ritrovi te stesso. Una settimana senza telefono, e ritrovi la tua umanità originaria, la condizione umana, l’essere soli al mondo, appesi a un corpo e cinque sensi, con un’idea, una passione o una voglia di anima.

E questa umanità-solitudine ti spinge a cercare realmente l’altro, l’umanità degli altri.

(Immagine: sacrario militare, Cimitero Vantiniano di Brescia) ph. by Michele Perletti http://portraitreportage.weebly.com

 

 

il codice etico dell’artigiano

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1)   Siamo tutti figli del nostro tempo, e della madre terra.

2)   Abbiamo fame di verità e sete di libertà.

3)   Disponiamo di una vita, mille desideri, alcune possibilità.

4)   Fin dalla nascita, cerchiamo il senso della fine.

5)   Coltiviamo direttamente tolleranza e solidarietà.

6)   Il bisogno di lavorare è più grande del bisogno di soldi.

7)   Più delle conoscenze ci interessa la conoscenza.

8)   Quello che facciamo, cerchiamo di farlo bene.

9)   Nel nostro piccolo, comportiamoci da grandi.

10) La vera ricchezza, è condivisibile.

(2016 by Leone Belotti, a disposizione di tutti gli artigiani/piccole imprese che lo vogliano adottare, impegnandosi a rispettarlo.)

 

 

Nell’ambito di Bergamo Scienza

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A cena in un palazzo nobile, sede di un circolo femminista-vegano, dove si mangia molto eticamente (cioè: esci che hai una fame porca).

Sono con un amico neo-maschilista, carnivoro consapevole, e la fame ci rende creativi. L’idea imprenditoriale che sviluppiamo tra un chicco d’orzo del malawi e un bastoncino di zenzero di zanzibar è una cascina-allevamento basso-padana, con animali ruspanti che tu, dopo adeguata formazione, possa catturare personalmente, uccidere, scuoiare e macellare per la tua famiglia e la tua tavola. Una scelta virile, responsabile, morale. Ne parliamo sussurrando come due teneri gay.

Ma ecco che improvvisamente gli occhi del mio amico si accendono e la colonna vertebrale gli si raddrizza. Seguo il suo sguardo e vedo questa giovane donna divinamente bella, con stacco di gamba over the table e pube aggettante sull’infinito.

«Marina!» esclama l’amico. Lei è russa, ma parla un buon italiano. L’amico le chiede cosa ci fa a Bergamo, lei risponde qualcosa “nell’ambito di Bergamo Scienza”. Accetta con piacere di sedersi al nostro tavolo e abbandonare il suo gruppo di “noiosi cervelloni”. Nel frattempo l’amico molto rapidamente mi spiega: l’inverno scorso, nel bordello più esclusivo di San Pietroburgo. Ma eccola tornare con borsa e mini giubbino-pelliccia (che suscita occhiate di disapprovazione femminile). E inizia a raccontare.

Un progetto di ricerca sugli acidi gastrici e gli enzimi della digestione. Due anni di ricerche, finanziato dai militari e dalla camera della moda russa. Obiettivo: rimedi naturali per migliorare la digestione, l’assimilazione, e la riduzione dei grassi.

Lo spunto viene dall’usanza dei contadini – che lei ricorda dall’infanzia, ma citata anche in Tolstoj – di masticare, o meglio succhiare, per delle mezz’ore, dopo i pasti, un nocciolo di prugna.

Mesi di analisi sui noccioli di prugna. Niente. Poi l’intuizione. Il nocciolo della questione (!) non è nella prugna, ma nella masticazione a vuoto, con tanto di salivazione e continuo deglutire. I neuro-trasmettitori, credendo che tu stia mangiando, attivano in continuazione gli enzimi e gli acidi gastrici, e questo ti permette di digerire molto meglio.

Per verificare questa ipotesi, ecco il progetto da lei stessa ideato e diretto. Per un anno, 25 ragazze di una casa di piacere di San Pietroburgo si sono prestate alla ricerca scientifica, praticando dopo i pasti attività continuata di fellatio. I risultati parlano chiaro. Rispetto al campione di controllo, queste ragazze hanno una digestione migliore, defecano meglio e non ingrassano pur mangiando di più.

Complimenti sinceri, questa ricerca merita la pubblicazione. Ragioni di opportunità, ci spiega, hanno consigliato di presentare questi risultati in via preliminare solo agli addetti ai lavori (“nell’ambito di Bergamo Scienza”) ma prossimamente, ci assicura, questa “scoperta” finirà su tutti i telegiornali, e non fatichiamo a crederle.

Noi abbiamo sempre pensato che la fellatio avesse effetti benefici anche su chi la pratica. Ora abbiamo le prove scientifiche. E anche le amiche vegane, dopo i cinque cereali con la soia, potranno prendersi un bel pezzo di carne in bocca.

 (photo by Benedetto Zonca)

 

 

una statua al cimitero bacia meglio di te

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Che cosa cerco nei cimiteri? Prove a sostegno di una vecchia tesi del Petrarca, il Trionfo dell’Amore sulla Morte.

Un vero bacio è una promessa d’eternità stipulata in modo commovente da creature mortali. E tuttavia l’energia di questa promessa può rendere eterno il gesto, e allora quell’istante si protrae e illumina l’esistenza, e non solo di chi lo dà, e di chi lo riceve, ma anche di chi lo vede, e viene catturato dalla voglia di baciare, ed essere baciato.

Sul soggetto “ultimo bacio”, nei cimiteri trovi capolavori in 3D+1 (la dimensione ultraterrena), con sfumature di marmo più erotiche di 50 pagine porno.

E ti vengono dei pensieri, come: ci sono statue che baciano meglio di te. Ma anche: puoi risvegliare un cadavere, animare una statua, con la forza del tuo bacio.

Bisogna rendere grazie a questi altari, dove l’amore trionfa sulla morte. Guardare queste statue, e imparare a baciare.

(immagine: preview Rip advisor, Cimitero Vantiniano di Brescia, next publishing su CTRL. Qui sotto, ultimo bacio cimitero Verona e Genova)

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Come Tessuto Non Tessuto

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Ero una ragazzina, erano gli anni dei Beatles e dei Rolling Stones, e dei jeans a zampa d’elefante. Sempre con il grembiule azzurro-bluette, cucivo a macchina gli angoli delle coperte. Avevo a fianco due signore che nastravano, io in mezzo a cucire gli angoli. Si lavorava dieci ore e mezza al giorno, lavorare otto ore in quegli anni era considerato da lazzaroni.

La sera, dopo il lavoro, andavo a scuola, a Fiorano, ai corsi serali dell’Istituto Tecnico per Segretarie d’Azienda. Così ogni giorno della settimana. Otto ore le facevo poi il sabato, dalle sei di mattina alle due pomeridiane.

Era la mentalità che allora tutti avevamo, una specie di religione del lavoro, ogni operaio considerava il suo lavoro come la sua attività, e l’azienda come la sua azienda.  Se dovevi mandare via il camion stavi lì fino alle otto, alle nove di sera a caricare, e a fare le fatture e i documenti di viaggio.

Cosa dire di 40 anni di lavoro, una vita per l’azienda, decenni di impegno quotidiano? Io sin da ragazzina avevo preso una decisione, dedicarmi al lavoro: è un patto che fai con te stessa: il lavoro non ti tradisce, e tu non tradisci il lavoro. L’amore per il proprio lavoro è questo.

ndr: tratto da “Come Tessuto Non Tessuto”, testi di Leone Belotti, immagini a cura di Andrea Zanoletti, pubblicazione in occasione dei 75 anni delle Tessiture Pietro Radici, progetto editoriale di Filippo Servalli, edizione fuori commercio RadiciGroup.

Si tratta del quarto volume di foto-racconto d’impresa realizzato per RadiciGroup (dopo “Cosa Vuol dire Nylon” e “Chi Fa Chimica”, dedicati a RadiciFil/Yarn e RadiciNovara, e “99 Radici +1 Anima”, dedicato a Gianni Radici); un lavoro con una struttura “tessile”, per trama e ordito, con testimonianze di lavoratori “intrecciate” a documenti/ricerche storiche.

Si cercano sempre storie e personaggi eccezionali da mettere in copertina, si elaborano strategie d’immagine coordinata, ma il vero progetto di comunicazione, i veri personaggi eccezionali, sono i lavoratori: persone che hanno lavorato una vita, e hanno una vita da raccontare. 

La “morale” che ricavo da queste esperienze, e che giro alle persone cui tengo, e con cui collaboro, dai CTRL boys alle Multi girls, è questa: le aziende sono miniere di memoria, il lavoro “normale” è la storia eccezionale da pubblicare, vedi anche quest’altro frammento:

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Era la fine dell’estate del 1959. Avevo appena compiuto i 14 anni. Era la prima volta che entravo nel capannone delle Tessiture Pietro Radici. Non avevo mai visto così tanti telai. Li guardavo a bocca aperta. “Ti piacerebbe aggiustarli?”

Pensavo fosse il direttore dello stabilimento, invece, come ho scoperto in seguito, chi mi parlava era il signor Gianni Radici in persona. Allora devo aver risposto qualcosa come: “Mi piacerebbe, ma non saprei da dove cominciare”. E lui: “To impareret!”. Con quella frase, in un colpo solo, mi stava dando una rassicurazione, e un ordine.

Quando nel 2000 sono andato in pensione il funzionario dell’INPS continuava a scartabellare nel mio faldone. “Non è possibile!” diceva. Cercava i giorni di malattia fatti nel corso di 40 anni di lavoro alle Tessiture. Non ce n’erano.

Piazzale degli Alpini progetto Orobia Felix

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Immagina di essere un grande uccello migratore. Stai sorvolando il territorio orobico da sud a nord. Sotto le tue ali, scorre un paesaggio transitivo: la bassa pianura, poi la fascia urbanizzata – con le nervature di comunicazione intrecciate ai corsi e agli specchi d’acqua – quindi le Valli e le Prealpi. Il centro di questo quadro multicolore, di questo reticolo ondulato, attira la tua attenzione: è la Città dei Mille, con le sue mura e le sue torri.

Ti lanci in picchiata-zoom, in pochi istanti sei sopra la città. Il tuo occhio è attirato da un quadrato verde con al centro una vasca d’acqua e due alte torri che quasi si sfiorano, unite da una forma antropomorfa. Decidi di appollaiarti per osservare l’area sottostante. Subito ti rendi conto di avere le zampe sul cappello di un alpino. Guardi giù. Quello che vedi ha l’aspetto di un’area degradata.

Sul lato sud osservi un melting-pot d’adolescenti border line; sul lato est bivacchi di tossicodipendenti, alcolisti e clochard. Nella zona centrale, riunioni e merende di badanti. Nessuno cittadino “indigeno” (bergamasco bianco) utilizza l’area. Gli “indigeni” vanno e vengono dalla stazione “tirando dritto”, come se il piazzale non esistesse: non lo attraversano nemmeno, piuttosto lo circuiscono. Le forze dell’ordine compiono mini-operazioni di polizia, entrando in auto nelle zone pedonali e svolgendo controlli con finalità di prevenzione e dissuasione.

Poi vedi due ometti senza capelli che camminano, si fermano, indicano, parlano animatamente. Sono un architetto e uno scrittore. Focalizzi il tuo super-udito su di loro e ascolti i loro discorsi.

“Il sistema monumento e specchio d’acqua risulta quasi estraneo. L’acqua non è visibile da chi passa sul viale, non è invitante, le vasche hanno un tono e un contegno cimiteriale.”

“L’area viene vissuta intensamente solo in occasione di eventi come street food, che occupano la piazza come fosse vuota, mentre la fruizione dell’area nel quotidiano è di fatto a bassa intensità, come zona di “siesta” lungo le sedute che delimitano la zona asfaltata, e unicamente da persone extracomunitarie”.

“Risulta evidente da un’osservazione delle dinamiche d’uso che nonostante la sua centralità urbana questa è un’area periferica, senza identità, risultato di una progettazione astratta, positivista, razionalista, con intenzioni e visioni di ordine urbano e progresso sociale oggi superate.”

“Non possiamo fare un progetto asettico-elegante in un’area melting pot: sarebbe fuori luogo e ignorato.  Dobbiamo affrontare il progetto con forza e semplicità: usare un linguaggio/stile multiculturale e immediato, dare una suggestione funzionale di ampio consenso, offrire un utilizzo inclusivo e aperto alle collaborazioni dei soggetti collettivi”.

“Due sono le cose che ci servono: un’idea nuova, e il linguaggio per esprimerla”

“Immagina di essere un bambino”

“Se fossi un bambino prenderei una ruspa e comincerei ad allargare le vasche d’acqua fino a formare un vero laghetto, dove andare in barchetta con la mia fidanzata. La terra rimossa la userei per ricreare nella zona nord la morfologia delle valli, in modo che questa area diventi un parco mini-orobie in scala 1:1000, rappresentativo del territorio, per accogliere turisti, viaggiatori e bambini”

“Immagino la zona sud, la pianura, come l’area del gioco: una zona bambini recintata, e un piccolo palco per artisti di strada, trasformando il dislivello con la zona autolinee in una gradinata-platea aperta (che sfrutta anche il cono ottico libero e ti permette di ammirare lo sky line di città alta). La zona centrale, con il laghetto-innamorati e la zona cani sarà l’area del sentimento. La zona nord, con i rilievi e i chioschi, sarà l’area del cibo”

“Come un foglio piegato, un tessuto architettonico leggero e colorato, in vetroresina riciclata (nuove tecnologie per nuove ecologie) corre perimetralmente lungo il piazzale, delimitando e significando il parco. Questo pattern rappresenta la capacità di un muro di piegarsi a ogni disponibilità, variando forma, facendo accoglienza. Un linguaggio semplice, popolare, facilmente comprensibile per connotare uno spazio “zoioso”, fruibile, percorribile, infantile, giocoso.”

“Con questo linguaggio multicolore e multifunzione, giocoso e pop, delimitiamo, segnaliamo il parco, e diamo vita alle piccole architetture funzionali: il chiosco-trattoria/shop, il chiosco-caffè, il chiosco-aperitivi, il piccolo padiglione tecnologico (ricarica dispositivi, wi-fi, etc), e soprattutto i servizi igienici pubblici, che immagino esemplari, bellissimi, realizzati come show-room funzionante in sinergia con le aziende design e sanitari, riunite in questa mission di esibire i più servizi pubblici del mondo, made in Italy”.

“Bene! Ci resta la parte più delicata. Il fattore umano. Chi renderà questo luogo frequentabile? Chi garantirà la sicurezza? Chi muterà le paure in occasioni di comunicazione?”

“L’alpino è precisamente quel tipo umano sia “ostile” che “oste”, in grado di relazionarsi in modo non ipocrita con l’umanità altra: parliamo di accoglienza burbera, forse l’unica autenticamente nelle nostre corde.”

“Parliamo di gestione dell’area affidata all’associazione Alpini: del padiglione-trattoria Bergamo, della sorveglianza, della cura e manutenzione, dell’ordine pubblico. La trattoria Alpini, in piazzale Alpini, nel parco mini-prealpino, con vigilanza svolta dagli Alpini… porterebbe in primo luogo gli Alpini, che sono nonni, e quindi i nipotini. E gli Alpini sono forse gli unici e veri “operatori multiculturali” in grado di creare relazioni umane con stranieri, giovani, extracomunitari, badanti, etc.”

I due ometti adesso raggiungono una ragazza che sta arringando una piccola folla eterogenea: “Cari commissari, sappiate che questo non è solo un progetto d’architettura, ma un progetto sociale, che coinvolge la città, le associazioni, gli enti, gli operatori commerciali e le aziende del nostro territorio”.

“Noi vogliamo creare attrazione, accoglienza e promozione: 1) attrarre i bambini, in modalità mini-orobie 2) accogliere il turista con una rappresentazione “abitabile” del territorio e delle sue risorse 3) funzionare da piccola expo permanente per iniziative e prodotti del territorio 4) rendere sostenibile il progetto coinvolgendo enti, aziende, associazioni in grado di creare sinergie, sponsorizzazioni e project financing 5) dare identità e anima al luogo con la presenza degli Alpini, capaci  di garantire sia la sicurezza che l’accoglienza”.

L’architetto e lo scrittore annuiscono e riprendono a parlare fittamente. “La città salotto piccolo borghese è finita, Sentierone docet. Sul Sentierone campeggia l’iscrizione “civium commoditati et urbis ornamentum”, a comodità dei cittadini e ornamento della città. Con il parco-expo e gli alpini entriamo nella “civium condivisione et urbis securitas”, a sicurezza della città e condivisione dei cittadini.”

“Questa operazione psicologica e sociologica, è la parte delicata e decisiva del progetto.  Al di là dell’intervento d’architettura, il vero intervento è umano, e di comunicazione. Si tratta di restituire agli Alpini luogo, funzione, identità. Dove oggi c’è un monumento morto, avremo uno spazio vivo. Ci servono gli Alpini vivi.”

“In realtà dobbiamo superare la paura di sembrare provinciali, che ci porta a fare cose algide e morte. Non dobbiamo vergognarci del nostro Arlecchino, il pezzente capace di grande creatività, né dei nostri Alpini, montanari capaci di grande umanità”.

“Gli Alpini renderanno vivo e sano il Piazzale a loro dedicato, e lo spirito di Arlecchino, rivivendo nel pattern multicolore, sarà lì a dirci che la diversità è alla base di ogni possibilità di vita”

(testo e immagine tratti dalla relazione descrittiva del progetto presentato al concorso per la riqualificazione del Piazzale degli Alpini dal team di progetto Attilio e Barbara dello studio Pizzigoni + Leone Belotti. In merito ai risultati del concorso per la riqualificazione di Piazzale degli Alpini, la Giuria si è così espressa: “… per quello che riguarda l’ambito di piazzale degli Alpini i progetti presentati non hanno saputo risolvere con efficacia le numerose criticità del contesto e le esigenze di qualità urbana richieste nel bando”).