festa della donna per cani bastonati

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cagnaPadrona

oggi ho scoperto che anche il mio padrone ha una padrona,

che però l’ha abbandonato come un cane, in autostrada, di notte,

cosa questa che l’ha mandato in un super-down sub-human

dopo anni di grande amore e vita e avventure sempre in due sempre insieme

si è ritrovato giornate, settimane, mesi sempre solo, in casa, a letto, a non dormire

un abisso che solo ora (dopo un anno!) sta cominciando a risalire

dopo aver provato terapie e psicoterapie e psico-sostanze di ogni tipo:

io stesso, il suo cane, ho scoperto, non sono altro che una terapia (pet-terapy)

e tutto questo amore che lui prova per me è di seconda mano,

lui si occupa di me, mi fa gli occhi dolci, ma è tutta scena,

riconosco un cane bastonato, ho visto come si accuccia nel letto,

come si aggira nei bar a occhi bassi e coda tra le gambe

non vedendo l’ora di rientrare a cuccia e accendere il computer.

Per un anno il bipede ha tenuto un diario confessione dal titolo “riduzione uomo”

dicono sia il manifesto del nuovo maschio, quello che conosce la crisi,

che non rinnega la sua parte debole, e può sfidare qualsiasi mostro si presenti,

dopo aver affrontato i suoi mostri interiori, una specie di nuovo maschio-antico

con in più la sensibilità del maschio debole….

a me, a sentire certi discorsi, viene voglia di farne una ciotola mista,

con cervello, cuore, fegato, rognone, la ciotola “interiora design”…

spero che il bipede si decida a mangiarsi certa roba invece di mandarla in stampa

evitando sprechi di carta: meglio ingoiare un manoscritto oggi,

che duemila libri invenduti tra 24 mesi!

adesso ne hanno tratto un video, e ti pareva, dedicato a tutte le donne,

si sono messi in tre per condensare in tre minuti il pathos del maschio abbandonato

il risultato è stucchevole, patetico, roba da umani, frasi ridicole, immagini banali,

una specie di “cioè” per quarantenni ritardati dalla lacrima facile,

giusto la musica si salva, date un’occhiata, e ditemi se ho ragione.

Upper Dog

 

BaDante Kawasaki

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Kawasaki500

Negli anni Sessanta questa era una città importante per gli appassionati di moto.

Il fuoristrada è nato in quegli anni, nelle nostre valli, la Sei Giorni, la Cavalcata, su per mulattiere e ghiaioni, erano gare massacranti, si sudava come bestie.

Io correvo con la Gilera 175, ma si teneva duro, perché l’ultimo giorno c’era l’ora di velocità, a Monza, in pista, con le gomme tassellate, ma non come quelle ecologiche di oggi, proprio i tasselli da trattore, era tutta una derapata, facevamo già supermotard, anche se lo chiamavamo in un altro modo.

Poi sono arrivate le prime giapponesi, le prime quattro cilindri, le Honda Four, e le due tempi, le Suzuki, le Kawasaki.

Ricordo come fosse ieri, sarà stato il ’68 o il ’69, c’era la contestazione, il femminismo, non si capiva più niente, ma era primavera e io aspettavo una telefonata da Genova, dal porto, stavo tutto il giorno al bar Orobico, in viale Roma, ad aspettare questa telefonata.

Finché una sera che era già tardi, mezzanotte passata, il barista mi chiama, ti cercano al  telefono, non ci credo, è arrivata, parto subito con un amico, nell’autostrada deserta la Giulia canta che è un piacere.

Siamo a Genova prima delle tre, arriviamo a un certo molo, lei è lì, ancora imballata, la tiriamo fuori dalla cassa, montiamo il manubrio, due regolazioni, un po’ di benzina travasata dalla Giulia, e via, la prima Kasasaki 500 arrivata in Italia era già in strada, ed era la mia…

Poi bisognava fare 600 chilometri di rodaggio, bisognava educarla, addomesticarla, formargli il carattere, renderla competitiva…

Eravamo un bel gruppo, tutti con la passione, una passione totale, passavamo le giornate ad allenarci per la Sei Giorni con le moto da regolarità, anche d’inverno, mettevamo le ruote chiodate, una roba da brividi…

Poi la sera, tanto per fare qualcosa di diverso, con le moto da strada, si stava al bar fino all’ora di chiusura, poi, quando non c’era più in giro nessuno, in piena notte, su e giù dieci volte Bergamo-San Pellegrino senza soste, erano queste le gare che facevamo.

Chi perdeva, pagava il cognac, ma quello buono.

Ricordo quella sera del ’69, eravamo al solito bar in viale Roma, avevamo appena visto in televisione l’astronauta Armstrong mettere piede sulla Luna, avevamo le moto lì fuori già calde, e uno ha detto: vediamo chi arriva alla Marianna su una ruota.

Il punto critico era Porta Sant’Agostino, allora uno si è piazzato a bloccare il traffico, mentre noi si passava, lì ricordo che qualcuno è caduto, io con il Kawa mai, stava su che era un piacere, la guidavi in aria col manubrio come una vela, i piedi sulle pedane dietro, quelle del apsseggero, aveva un equilibrio fenomenale su una ruota, su due no, era un po’ ballerina, ma su una ruota diventava stabile…

La domenica si partiva in gruppo, appuntamento al bar, si prendeva l’autostrada, al bivio della Serravalle ci aspettava la banda Galtrucco, i nostri rivali milanesi, appena ci vedevano, o ci sentivano arrivare, gas, e si gareggiava come matti, come incoscienti, sdraiati su quei missili senza freni passavamo sotto le portiere delle Seicento, vedevi al volante impiegati allibiti coi bambini incollati al finestrino a guardarti, si fermavano a chiamare la polizia, ma la polizia cosa poteva fare, mica riusciva a restarci dietro…

Ricordo una domenica, ci si era detti “oggi non andiamo troppo lontano”, va bene, andiamo a mangiare a Sarnico, si parte a manetta…

un quarto d’ora e siamo arrivati, è presto per andare a mangiare, dai che arriviamo giù a Canneto, che andiamo a mangiare le rane…

poi dopo mangiato un caffè, non sono neanche le due, dai che andiamo a bere un Fernet alla Futa, altro pieno, altra gara…

e arrivati alla Futa vediamo che è la giornata è proprio bella e ancora giovane, e allora uno dice: io vado a bere l’aperitivo al belvedere Michelangelo, e qualcuno chiedeva dove fosse, a Firenze, bestia, ed eri già in sella, perché chi arrivava prima cominiciava a bere,  e gli ultimi pagavano…

Alla fine della stagione avevi fatto venti o trentamila chilometri, bisognava cambiare moto.

Oggi vedo moto con duecento cavalli, gli fanno fare si è no duemila chilometri in tutta la stagione, la usano per andare da un bar all’altro,  questo lo facevamo anche noi, solo che magari i bar dove andavamo noi erano a Viareggio, a Venezia, a Sanremo o a Cervinia…

(testimonianza raccolta nel 2006 al bar Le Iris-Bergamo dal BaDante Leone Belotti)

capitale di che cosa?

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bergamo Capitale della cultura 2019 logo_54_10907

NDR – REMOVED il testo del post pubblicato ieri con il suddetto titolo (capitale di che cosa?) e la seguente conclusione (…ne deriva che questa città, più che  fregiarsi del titolo di “capitale della cultura” dovrebbe ammettere di essere a tutti gli effetti la “capitale mondiale degli avvocati-politici figli di papà, impegnatissimi in politica e parcelle al servizio dei grandi stupratori di monumenti pubblici e donne di strada”) è stato rimosso su iniziativa dell’editore dopo che ben tre avvocati di nome si sono offerti di difendere gratuitamente il sito mentre un quarto, praticante, ha chiesto 10.000 euro di anticipo. Il contenuto del post è leggibile su richiesta motivata e dietro insindacabile approvazione dell’editore (e magari firmando clausole di riservatezza e non condivisione, le stesse previste da i.tunes) scrivendo a info@calepiopress.it . L’editore si scusa con i lettori – la libertà d’espressione essendo di fatto mutila oggi in Italia – impegnandosi a mettere  a repentaglio l’esistenza del sito per occasioni più importanti che non la propria storia e la propria amata piccola città.

 

una su mille

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badante Alighieri

Essere una donna, nell’Ottocento, e cambiare la storia d’Italia con un azzardo, un capolavoro di controspionaggio in territorio nemico, e in seguito essere protagonista eroica nella battaglia decisiva, a Calatafimini, ed essere quasi completamente dimenticata, questo può capitare a un’ultradonna naturale in Italia.

I fatti storici sono semplici e accertati, anche se poco divulgati: 1861, i mille garibaldini sono radunati, e pronti a imbarcarsi, ma Garibaldi aspetta un cablogramma dalla Sicilia. Vuole rinviare la spedizione. Le ultime notizie riferiscono di 24 fregate schierate davanti al porto di Palermo, con i cannoni pronti ad accoglierli.

Pisacane, i fratelli Bandiera, già troppi tentativi sono falliti nel sangue, per eccesso di ottimismo sul sostegno popolare contro le truppe borboniche. In Sicilia Garibaldi aveva mandato i suoi infiltrati-informatori-sobillatori, guidati da Rosolino Pilo.

Con loro una donna, mora, alta, forte, energica, formosa, giovane: Rose Marie Montmasson, la donna, la moglie di Francesco Crispi, il futuro primo ministro dell’Italia colonialista, che vuole la spedizione ad ogni costo.

Rose e Crispi si erano conosciuti a Torino, lui giovane agitatore radicale, intelligente, passionale, che Cavour faceva entrare e uscire di galera come un travel cheque di politica interna, lei lavandaia delle carceri, figlia di padre ignoto, originaria della Savoia, sveglia, focosa. Amore a prima vista.

Nei dieci anni successivi, vissuti pericolosamente insieme, sfuggendo alle polizie di mezza Italia lei lo segue ovunque, mantenendolo, proteggendolo, procurandogli tutto, diventando il suo agente segreto. E in segreto si sposano a Malta, tirando giù dal letto un sacerdote, come Renzo e Lucia, col foglio di via in una mano, e l’atto di matrimonio nell’altra.

In quel 1861, Rose, inviata da Crispi, con un intervento lampo in Sicilia cambia la storia d’Italia: o riesce con le sue armi ad avere effettivamente l’appoggio dei capi popolo e degli ufficiali borbonici, o riesce, con le stesse armi, a convincere i suoi compagni a mandare un telegramma falso a Garibaldi. Si propende per la seconda ipotesi.

Il telegramma convince Garibaldi, che ordina di salpare. Lei intanto lascia la Sicilia, e raggiunge in navigazione notturna la Sardegna, dove la spedizione farà scalo.

A Quartu, durante le operazioni di rifornimento, travestita da maschietto, a insaputa dello stesso Crispi, si imbarca con un sotterfugio, per poi rivelarsi prima dello sbarco a Marsala, e indossare abiti femminili,  l’unica donna tra i mille, una su mille.

A Calatafimini, nel caos della battaglia si prodiga nel portare in salvo i feriti, nel tenere la mano ai morenti, nell’incoraggiare i combattenti, e a un certo punto, rimasta quasi nuda per essersi stracciata le gonne per fare bende, raccoglie la bandiera tricolore a terra, e si copre con quella: è  come un segnale per la carica che respinge le truppe borboniche, numericamente superiori, e ribalta l’esito della battaglia.

E’ il trionfo, i garibaldini e i siciliani la chiamano Rosalia, come la santa, la spedizione dei mille in pochi mesi realizza il sogno inseguito da anni, l’unità d’Italia.

Crispi entra in parlamento, diventa un uomo di successo, sia come avvocato, che come parlamentare, è potente, facoltoso.

A Firenze, capitale d’Italia negli anni precedenti Porta Pia, i due coniugi vanno a vivere in un palazzo nobile, ma mentre Crispi diventa sempre più uomo di governo, Rose si ritrova sperduta nelle troppe stanze del palazzo: abituata ad agire, a fuggire, a stare in un tugurio, non sopporta le formalità, il lusso, il parlare forbito.

Crispi la accusa di non essere in grado di dargli un figlio. Tra i due si scava un abisso: lei lo ha seguito ovunque, rischiando la vita, le fucilate, gli arresti, patendo la fame, il freddo, ma non è in grado di seguirlo nella scalata sociale.

Crispi vuole accanto a sé un altro genere di donna, adesso. Ha conosciuto una nobildonna meridionale, Lina Barbagallo, figlia di un grande latifondista già procuratore del re a Palermo, di una bellezza più raffinata, e con una dote degna di un capo di stato.

Umiliata, non più amata, Rose si ritira a vivere da sola, a Roma, in una stanza di un quartiere popolare, come una concubina scaricata, un’amante invecchiata, lei, che era sua moglie, e non aveva perso lo spirito giovane, anarchico, libertario, a differenza di lui, sempre più uomo di stato.

Crispi ormai vive con la Barbagallo, diventa padre, la sposa. La regina Margherita rifiuta loro l’invito a un pranzo ufficiale, e lo accusa di bigamia. Crispi fa sapere al re testualmente: se l’invito non arriva entro un’ora, domani mattina in Italia ci sarà la Repubblica. L’invito arrivò, ma non gli evitò lo scandalo, e il processo per bigamia.

In tribunale, avvocato di sé stesso, sostiene che il matrimonio maltese non ha alcun valore, in quanto celebrato da un gesuita che era stato scomunicato a divinis perché repubblicano e socialista. Vince, il matrimonio con Rose è dichiarato nullo.

E’ l’inizio della sua ascesa, che lo porta a diventare uno dei massimi esempi di trasformismo politico (da radicale repubblicano a monarchico colonialista): Crispi è l’uomo forte che preparò la strada a Mussolini.

Rose intanto vive in miseria assoluta, alcolizzata, ripudiata, dimenticata da tutti, ma non dai reduci garibaldini, che organizzano una colletta nazionale per aiutarla.

Ancora nei primi anni del Novecento, è riferito un suo incontro con un reduce che lei ha salvato da morte certa, il quale, riconoscendola, l’abbraccia in lacrime e crolla in ginocchio dinanzi a lei, chiamandola come la chiamavano allora, Santa Rosalia.

Accorre gente, qualcuno inizia a inveire contro Crispi, ma lei, ormai anziana, li fa tacere, e lasciandoli increduli, dice: dovesse avere bisogno, saprei ancora amarlo e consolarlo, e si allontana sorridendo.

Morì sola e povera, fu sepolta nel cimitero del Verano, nei loculi destinati dal comune ai poveri, e ignorata dalla storiografia ufficiale, evidentemente succube del diktat di Crispi, che voleva cancellare ogni traccia della sua esistenza, riuscendovi in modo ammirevole.

Sono passati 150 anni, e oggi abbiamo un Ministero delle pari opportunità che in occasione delle celebrazioni commemorative dell’Unità d’Italia, ha promosso la pubblicazione di “Italiane”, un pachiderma in 3 volumi, un’opera ufficiale, di grande prestigio e rigore, quasi 200 biografie delle grandi donne che hanno unito l’Italia.

Non mancano le solite contesse e  poetesse di regime: chi manca completamente è Rose Marie Montmasson, la donna capace di convincere Garibaldi  a partire con un falso telegramma, capace di travestirsi da uomo per imbarcarsi con i Mille e capace poi di spogliarsi nuda sotto le fucilate per fare bende con le sue gonne, e capace infine, ridotta in miseria e solitudine, di dire saprei ancora consolarlo del grande statista temuto e odiato da tutti.

Chissà quale di questi episodi, di queste capacità, è risultata imperdonabile alla sensibilità delle nostre intellettuali che hanno selezionato le 200 “Italiane” che hanno contribuito all’identità nazionale. Forse una lavandaia, senza cultura né famiglia, in una pubblicazione prestigiosa, come a una riunione di gala, potrebbe creare qualche imbarazzo.

Donne come Rose Montmasson, ultradonne naturali una su mille, capaci di imprese eroiche ogni giorno, che escono dalla trincea per combattere, che sfidano i giganti, che rischiano e a volte perdono tutto, ma non la dignità, io ne conosco. Donne che hanno cuore, cervello e fegato, con una spruzzata di follia, e quindi un coraggio totale.

In televisione, sui giornali e nelle pubblicità non te le fanno mai vedere, e nemmeno nei libri di storia. Ti fanno vedere solo degli esseri repellenti che credono di essere delle super donne, e forse questa è una fortuna, almeno restano ancora spazi di verità da esplorare in proprio.

Importante non dimenticarsi mai che la superdonna costruita di regime, per quanto si possa lodevolmente impegnare, è sempre e solo una povera creatura di fronte a una vera ultradonna naturale.

(la storia di Rose Montmasson è stata scritta da anonimo presumibilmente nei primi del 900, ritrovata e integrata nel 2011 da Leone Belotti per blog bamboostudio – fotografia di Michele Stroppa >   https://it-it.facebook.com/michele.stroppa )