il cane che correva sull’acqua

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UpperDogNuota

Mi chiamo Bea Lee e sono nata in Manciuria.

Fin dalla nascita mi hanno addestrata a correre sull’acqua.

Per tutta l’età dello sviluppo le mie zampe sono state fasciate molto strette tra due tavolette di legno.

Lo scopo era quello di costringere le mie zampe a diventare simili a quelle delle anatre. Con me c’erano altri cani di ogni razza.

La selezione è stata durissima. Dopo tre anni di esercizi quotidiani riuscivo a fare più di cinquanta metri di corsa sull’acqua.

Il mio maestro lanciava un bastoncino nel lago io correvo a prenderlo e glielo riportavo.

La difficoltà più grande è nel momento dell’inversione di marcia.

E’ lì che rischi di andare a fondo.

Un bel giorno è arrivato un uomo d’affari italiano.

Dopo aver visto quello che sapevo fare mi ha comprata.

Mi ha portata a casa sua, a Sarnico.

Il sabato mattina ci siamo recati sul molo.

Il mio nuovo padrone ha lanciato un bastoncino nel lago e io sono andata a prenderlo di corsa.

Un vecchietto dell’associazione marinai di Sarnico era sul molo a guardare e scuoteva la testa.

Allora il mio padrone ha lanciato di nuovo il bastoncino e io di nuovo sono corsa a prenderlo e a riportarlo. Ma il vecchietto scuoteva ancora la testa.

Per la terza volta ho dovuto correre sulle acque del lago.

Quando sono arrivata sul molo, il vecchietto, scuotendo la testa ha detto:

“Quel cane lì non impara più a nuotare”.

tratto da “Upper Dog – Le avventure di Otto e Bea”  Calepio Press 2008

disegno di http://www.jennifergandossi.it/home.html

la nuova merce informazione

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HPIM2103

(4 note di B.Horn sulla trasformazione in corso della merce-informazione)

1. In passato i mass-media erano espressione egemonica sulla società di un potere economico che li utilizzava per costruire il suo immaginario,

il racconto di sé come unica società possibile, con una mediazione sociale chiamata libertà di stampa.

Come ogni libero pensatore ha potuto verificare sulla propria pelle,

la stampa, costretta nell’economia dell’informazione,

è libera quanto il nullatenente è libero di non andare a lavorare.

2. Oggi la comunicazione è merce nuova. Una merce che realizza il suo valore nello scambio www fra milioni di persone che al tempo stesso sono produttori e utenti.

Una merce gratuita intercettata e controllata nella sua circolazione a costo zero dai generatori di software, dai motori di ricerca e dai social network, nuove forme di monopolio dell’industria del consenso.

Così controllata, la merce comunicazione produce ricchezza per le elites finanziarie

ad opera di eserciti di persone a cui è concesso uno stato di sopravvivenza precaria nella perenne ricerca della notorietà  e del successo.

3. La nuova merce comunicazione genera comportamenti ed emozioni che sono alla base dei consumi e dunque dei flussi finanziari.

La merce comunicazione è dunque una merce di tipo nuovo, che si fonda su uno scambio simbolico culturale in grado di diffondersi  e farsi mercato e generare miliardi di utenti.

4. Mentre la vecchia merce entrava in eccesso nei mercati e provocava la ciclicità delle crisi economiche, ora la merce comunicazione non ha alcuna ciclicità,

il suo potere distruttivo può indirizzarsi verso il valore delle economie che si vogliono soggiogare indipendentemente dal ciclo economico.

La vecchia merce distruggeva i mercati per quantità in eccesso,

la nuova merce distrugge agendo sul valore dei mercati.

Il  valore economico di intere comunità, culture, nazioni può essere raso al suolo e ricostituito ottenendo gli stessi risultati di una guerra senza l’uso delle armi.

La merce comunicazione è la forma attuale dell’economia politica.

B.Horn

the male code – cap1

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MaleCode1byAthosFFE

screenplay for Christian Bale by Leone Belotti – CalepioPress © 2013 – da un’idea di Gian Franco Bortolotti

cap 1 il codice sorgente  Detroit, 1974.

E’ il primo sabato pomeriggio di sole dopo mesi di pioggia grigia sui quartieri operai di Detroit.

Christian Code, undici anni, magro, un po’ piccolo e gracile per la sua età, americano di terza generazione, figlio di operai di origine irlandese,

da due ore è costretto a starsene seduto in silenzio sul primo banco della parrocchia cattolica di St.Paul, aspettando “il momento più importante” del suo “cammino di cristiano”.

Dei trenta ragazzi della sua classe che devono confessarsi in preparazione della cresima, lui è stato sorteggiato per ultimo.

I suoi compagni uno dopo l’altro si inginocchiano davanti a padre Jacob, seduto su una specie di trono accanto all’altare, e gli confessano i propri peccati.

Christian ha l’espressione assorta, e la mente altrove.

Sta cercando di eseguire, scrivendolo a mente, il lungo compito-questionario di grammatica che deve consegnare lunedì.

Arrivato a metà, si blocca su “fai un esempio di domanda retorica e spiegala in cinque righe”.

Si mette a guardare a testa in su gli opprimenti e scuri affreschi delle navate della cupola.

I santi gli sembrano morti viventi intenzionati a calargli addosso dall’alto come zombie.

Poi, come sempre, la sua attenzione si fissa sul martirio di San Pietro, sul gesto del soldato che colpisce la figura accartocciata a terra.

Una scena che vede spesso in casa, quasi ogni fine settimana.

Suo padre che picchia sua madre, sberle, calci.

E improvvisamente, pensando a sua madre presa a calci da suo padre, gli sale quel suo  sorriso da saputello. Ha appena trovato un esempio perfetto di domanda retorica.

Tu dov’eri il giorno dell’assassinio Kennedy?

Come spiegazione, a mente, di getto, scrive:

“Trattasi  di una delle frasi che mia madre rinfaccia a mio padre sia in casa che in pubblico,

e trattasi di domanda retorica in quanto nel quartiere lo sanno tutti, vicini, colleghi, parenti, dov’era mio padre Robert Code quel giorno del 1963,

mentre a Dallas moriva di morte violenta e prematura il presidente che voleva cambiare l’America e a Detroit, in un ospedale pubblico, in modo altrettanto violento e prematuro, nascevo io, Christian Code,

rischiando di uccidere sia mia madre che me stesso,

dopo un’agonia durata sei ore

iniziata quando mia madre si è trascinata sanguinando in strada, dove è stata raccolta da una Ford della polizia municipale che l’ha portata a sirene spiegate all’ospedale.

Come tutti sanno mio padre quel giorno era al pub, ubriaco, a guardare l’assassinio Kennedy in Tv.”

Christian è soddisfatto.

Immagina la reazione scandalizzata della vecchia signorina Gonzalez, l’insegnante di lettere.

Si mette a ridere.

* * *

Quando finalmente arriva il suo turno, la chiesa è vuota e padre Jacob è già molto stanco.

Padre Jacob non è un prete esemplare.

E’ avido, meschino e vendicativo.

Autoritario con donne e bambini, servile e untuoso con potenti e possidenti.

Ma non è un pedofilo.

Gli aspetti morbosi della confessione non l’hanno mai toccato. Semmai annoiato.

Da tutto il pomeriggio è alle prese con le confessioni dei ragazzi della classe 63, in preparazione della cresima.

Non vede l’ora di chiudere la chiesa, ritirarsi in sagrestia e versarsi un bicchiere di vino in santa pace.

Imbullonare la morale cattolica nelle testoline cocciute dei figli degli operai è un lavoro massacrante, snervante e ripetitivo.

Un lavoro di chiodo e martello, peccato e senso di colpa, un sacramento dopo l’altro, come in catena di montaggio.

Sempre le stesse domande, sempre le stesse risposte.

Dopo le formule di rito, e i peccati veniali, c’è la domanda clou.

«Ti tocchi, figliolo?»

Negli ultimi vent’anni padre Jacob ha fatto migliaia di volte questa domanda a intere generazioni di ragazzini di origine irlandese, italiana e ispanica.

La reazione dei  ragazzini, la prima volta, è sempre la stessa:

un silenzio pesante, carico di vergogna e senso di colpa, sul quale calare incalzante e risolutiva la domanda vera, che fa superare ogni impasse:

«Quante volte al giorno?»

Ma questa volta, appena fatto la domanda, un campanello d’allarme gli suona in testa.

C’è qualcosa che non va, c’è qualcosa di diverso, di sbagliato, qualcosa che gli è sfuggito.

Padre Jacob si accende d’attenzione, riavvolge rapidamente il nastro (“Ti tocchi, figliolo? Si, padre! Quante volte al giorno?”) e  capisce.

Quel “si, padre!” è stato troppo immediato e naturale, colloquiale.

Come se gli avesse chiesto “Sai nuotare?”.

Doveva aspettare a porre la domanda definitiva, soppesare quel “Si, padre!”.

Ha commesso un errore, si è lasciato ingannare dal suo stesso metodo, dalla tecnica ripetuta meccanicamente.

Ma ormai è troppo tardi.

Dall’alto scranno di legno, la sua figura imponente, in tonaca nera,  si erge troneggiando sul ragazzino esile, dai lineamenti delicati, inginocchiato davanti a lui a mani giunte e capo chino su un piccolo cuscino color porpora.

Ora lo riconosce, e sa di essere caduto in una trappola.

Christian Code, il piccolo genio, figlio di operai Chrisler.

Lui e l’altro “disadattato” della scuola, il pakistano sudato che tutti chiamano Paky, qualche mese prima sono risultati “tecnicamente dei geni” , con quoziente intellettuale superiore a 150, nell’indagine svolta dall’istituto di psico-sociologia sui ragazzi della scuola della parrocchia.

Il prof.Mc Ewan gli ha suggerito di parlare alle famiglie, per invitarle a far proseguire gli studi ai due ragazzi.

Ma lui non l’ha ancora fatto.

L’esperienza gli dice che un figlio troppo intelligente, nelle famiglie povere, può essere una disgrazia.

Ora lo osserva con attenzione.

Il giovane Code, dopo aver risposto con immediatezza alla domanda “Ti tocchi?”, ora, per rispondere alla domanda “Quante volte al giorno?”,  pare assorto in una  riflessione complicata.

Ha gli occhi chiusi e muove velocemente e silenziosamente le labbra, come stesse pregando.

Infine alza il viso, e per un istante padre Jacob si sente quasi intimorito, affascinato.

L’espressione di Christian è il ritratto dell’innocenza infantile.

«Più o meno 500 volte al giorno, padre»

Padre Jacob non reagisce.

Uno schiaffo a mano aperta sarebbe la soluzione più ovvia.

Ma nel dubbio, si trattiene. Sospira.

Paziente, chiede: «Così tante volte?». Christian annuisce.

«Ogni giorno?»

«Si padre, e quando faccio il bagno, aumenta la media!»

Padre Jacob si sporge in avanti. Christian vorrebbe ridere.

Padre Jacob sta cambiando colore e diventando rosso di rabbia come il gatto Silvestro.

«E perché mai secondo te, figliolo, il padre confessore ti dovrebbe chiedere quante volte al giorno ti tocchi?»

Christian non si lascia ingannare dalla voce controllata: lo sguardo del prete è un fucile puntato sui suoi occhi, pronto a far fuoco.

«Non ne ho idea, padre»

«Pensaci!» sbotta padre Jacob calando una manata rabbiosa sul grosso bracciolo di legno intarsiato.

Christian sussulta e spalanca gli occhi.

Si sforza di reggere lo sguardo infuocato di padre Jacob, ma dentro di lui si insinua la paura.

Con voce fin troppo incerta, timorosa, chiede:

«Vuole sapere se mi tocco in maniera peccaminosa, padre?»

Ma padre Jacob continua a fissarlo con espressione tetra.

Allora Christian si morde le labbra, e improvvisamente la paura, la paura di essere picchiato, lo divora.

Christian è come un gatto immobilizzato.

Cerca di reggere gli occhi fiammeggianti, mentre nel suo cervello passano rapide una serie di opzioni sulla prossima cosa da dire:

«Vuole sapere se pratico la masturbazione?»

«Vuole sapere se mi tocco il pene indurito pensando alla signora McBride fino a disperdere il seme nei pantaloni o nel fazzoletto o nel water?»

Quando parla, la sua voce è stridula, e la frase assurda, surreale in bocca a un ragazzino:

«Con ogni probabilità il padre confessore vuole sapere se disperdo il seme»

Lo sguardo di padre Jacob è imperscrutabile.

Christian deglutisce. Con un filo di voce, a capo chino, mormora: «Si, padre, disperdo il seme, dalle cinque alle dieci volte al giorno, più la notte, nei sogni»

Padre Jacob lentamente si rilassa.

Un’altra dura giornata di lavoro in archivio.

La sua vecchia carcassa di soldato di Cristo si affloscia sui velluti rossi di quella specie di trono in cui è assiso.

Ora non resta che comminargli la punizione (ne reciterai venti ogni sera) dopo avergli  fatto recitare l’Ave o Maria.

«Ave o Maria» dice, invitando Christian a recitare la preghiera ad alta voce.

E Christian obbediente recita:

«Ave o Maria, piena di grazia, venga il tuo regno e sia fatta la tua volontà…»

Padre Jacob si alza di scatto, rovesciando lo scranno.

Christian schizza a sua volta in piedi facendo un balzo indietro, schivando il braccio proteso del prete, ma non il suo indice accusatore:

«Vattene a casa, Christian Code! E dì a tuo padre che domani lo aspetto in sagrestia dopo la messa. Tuo padre! Non la mamma!»

La sua voce di tenore riecheggia nella navata della chiesa, mentre Christian raggiunge quasi di corsa l’uscita.

Padre Jacob risolleva lo scranno ribaltato.

In tanti anni, non aveva mai sentito una bestemmia del genere.

Ave o Maria, venga il tuo regno!

Entrando in sagrestia si sfila la tonaca e la getta sul cassettone.

Da una madia prende un bicchiere e la bottiglia di vino italiano.

Si versa un bicchiere e lo vuota d’un sorso. Poi un secondo.

Infine si sforza di ricordare il volto del padre di Christian, inutilmente.

* * *

Gli occhi di Robert Code sono incollati sulle natiche formose della giovane donna  che al di là del banco si è piegata in avanti per sostituire il fusto di birra.

Robert è quasi sicuro che non indossi mutandine.

Inconsciamente, Robert Code  si guarda le mani.

Un metalmeccanico ha sempre le mani sporche.

Lo sporco sotto le unghie dice tutto di te.

Le frasi di sua moglie Terry gli passano nel cervello come frustate.

Gli riaprono ferite nelle quali si crogiola.

 Ormai Robert parla con lei solo nella propria testa, dopo aver bevuto tre o quattro birre.

Ogni momento è buono per sentirsi dei falliti.

Hai ragione tesoro. Ma il sabato pomeriggio in solitudine al pub, mentre fuori c’è il sole, con i Tigers in Tv che perdono una partita già vinta, ha qualcosa di speciale, che merita un’altra birra, non credi?

Quasi gli leggesse nei pensieri, appena agganciato il nuovo fusto, la ragazza gli chiede:

«Un’altra birra, Bob? Terry è di turno, no? O ti aspetta a casa?»

Da una vita Jenny McBride gli provoca fantasie erotiche che non saranno mai appagate.

Amica di sua moglie Terry dai tempi delle scuole, vicina di casa e madre di Mary Ann che è a scuola con suo figlio Christian.

Per anni Jenny e Terry si sono aiutate nel badare ai figli piccoli. Impossibile anche solo pensarci.

Ma quando il sabato indossa quella stretta camicetta per dare una mano nel pub di suo cognato, con quel seno prorompente, unica attrattiva del pub dopo le partite in tv, Robert Code  comincia a fantasticare.

«Vada per un’altra birra!»

Nel servirgli la birra, lei dice: «Si muore di caldo qui dentro!»

C’è qualcosa di malizioso in quel suo sorriso?

Robert in tanti anni non l’ha mai capito.

Ora Jenny spegne la tv e accende Radio Rock.

Le note di  Feel like making love dei Bad Company invadono il pub e Robert, nel primo sorso di birra,  rivede la faccia di sua moglie Terry stravolta dal piacere, un’immagine vecchia di anni, un bel ricordo, una grande nostalgia, fare l’amore tutti i giorni, ubriacarsi insieme, ridere e parlare fino a notte fonda.

Poi, nato Christian, niente più sesso, niente allegria, solo rancore e rabbia.

Non ricorda più l’ultima volta che hanno fatto l’amore.

Come sono lontani i tempi in cui lei lo riempiva di complimenti per la sua prestanza di grande stallone.

Adesso lo disprezza, e non in silenzio, lo aizza giorno e notte rinfacciandogli ogni sua mancanza.

Lui rimugina, e a volte esplode.

La picchia fino a farla stare zitta, cercando di non rovinarle troppo la faccia.

Poi osserva il viso di Jenny, un viso comune, e con qualcosa di volgare.

Spesso, in periodi diversi, ha pensato di provarci con lei, ma non l’ha mai fatto.

Non si è mai sposata Jenny, nemmeno dopo la nascita di Mary Ann.

Sembra dieci anni più giovane di Terry.

Si è slacciata un bottone della camicetta, adesso.

«Ti rubo una sigaretta, Bob»

Di nuovo quel sorriso, e nel prendere la sigaretta dal pacchetto che lui le offre, uno squarcio fugace nella scollatura gli trafigge il respiro.

Dal suo sgabello Robert la segue con lo sguardo e si sforza di ragionare pragmaticamente.

Lei esce a fumare. Deve raggiungerla?

E magari dirle qualcosa di spiritoso, gonfiare i muscoli, posarle un istante una mano sul fianco?

Oppure chiederle senza malizia se ha bisogno di una mano?

Il magazzino del pub è proprio dietro l’angolo, la scusa di aiutarla a portare una cassa di coca cola gli pare buona.

E appena in magazzino, sbatterla contro il muro!

Finisce la birra in un sorso, afferra il pacchetto di sigarette e sta già scendendo dallo sgabello quando si blocca.

Attraverso le vetrate, sull’altro lato della strada, vede l’orribile sagoma, un alberello rachitico in movimento, di suo figlio Christian.

Ha i pantaloni sporchi di fango e la maglietta lacerata.

Doveva andare in parrocchia per le confessioni, ma evidentemente si è poi fermato a giocare nel campetto di terra dell’oratorio e adesso sta andando a casa a lavarsi.

Cioè a sporcare il bagno. Poi Terry se la prenderà con lui.

Anche Jenny ha visto Christian, Robert osserva la scena.

Jenny sta gridando qualcosa per attirare l’attenzione di Christian, l’espressione felice.

Fa sempre così con lui, lo ricopre di complimenti esagerati,  “il mio ragazzo preferito”, “l’unico maschio intelligente di questa città”.

Christian la vede e si illumina. Attraversa la strada senza nemmeno guardare. Un idiota!

Jenny getta via la sigaretta appena accesa e spalanca le braccia.

Christian si tuffa letteralmente tra i seni maestosi di Jenny Mc Bride, che se lo stringe addosso come volesse divorarlo.

Robert Code ha bevuto parecchio, ma la sua vista non è offuscata, e vede distintamente,  mentre lei gli stringe la testa al petto, le mani di suo figlio Christian che furtive, nello sciogliersi dall’abbraccio, indugiano sull’attaccatura dei seni della donna.

Lei gli dà un bacio in fronte e lo allontana con dolcezza.

Christian corre via. E poi Jenny fa qualcosa che spiazza Robert: gettato un rapido sguardo intorno, raccoglie la sigaretta da terra, e la riattizza aspirando lunghe boccate compulsive.

* * *

Don’t let me be misunderstood.

Il volume della musica è altissimo, si sente fino in strada.

E Robert da sempre odia quella canzone, quelle parole, quella musica.

Anche prima che Terry gli dicesse: forse odi te stesso, la tua incapacità di esprimerti.

Robert Code sente crescere la rabbia.

Salendo le scale a due gradini per volta, ubriaco, quasi inciampa.

Arrivato al pianerottolo di casa, pensa: “lo ammazzo”.

Spalanca la porta d’ingresso urlando: «Abbassa questa cazzo di musica!».

Ma in soggiorno e nelle camere non c’è nessuno. La porta del bagno è aperta.

Nessuna traccia di Christian.

Per un attimo pensa di andare a spegnere lo stereo, ma la vescica gli sta scoppiando per le troppe birre bevute.

Entrando in bagno si slaccia i pantaloni, e solo allora nota che la vasca è piena d’acqua e di schiuma fin quasi a strabordare.

Per un istante osserva in silenzio la superficie dell’acqua. Che non è perfettamente immobile. Allora protende le mani come artigli nell’acqua.

La preda è viscida, sfuggente, e si dibatte come un pesce.  

Solo le mani sai usare, e nemmeno tanto bene.

Sono mani brutte, grosse, callose, ma forti, dure. Christian non ha scampo.

La sua idea di eclissarsi in apnea, come nei film d’avventura, si rivela una tragedia.

Avrebbe dovuto schizzare fuori dall’acqua mentre suo padre lo cercava in camera, afferrare l’accappatoio e darsela a gambe.

Con presa ferrea, con una mano sola, la sinistra, suo padre lo tira fuori dalla vasca, tenendolo stretto per il collo.

Christian è stupito dalla facilità con cui suo padre lo afferra. Con le mani, cerca inutilmente di coprirsi le parti basse.

Disgustato, Robert vede ciò che suo figlio cerca di nascondere: il suo piccolo pene turgido!

Si stava masturbando!

Lo solleva davanti a sé, inchiodandolo al muro.

Anche se ha sbattuto la testa contro le piastrelle bianche Christian non grida, non urla.

Ora arriveranno le sberle, lo sanno entrambi.

Schiaffi e manrovesci, due, quattro, sei, otto, anche dieci, è la routine del fine settimana in casa Code, o lui, o la mamma, a turno.

Per un istante i due maschi si fissano negli occhi.

Bello come un angioletto, tutto il contrario di suo padre.

Poi  Christian perde il controllo, qualcosa dentro di lui si spezza, e del tutto involontariamente, mentre ancora lo stereo spara le ultime note di misunderstood, eiacula in faccia a suo padre.

La destra del padre, chiusa a pugno, scatta immediata e si abbatte violentissima sul viso di Christian.

* * *

All’istante Christian perde i sensi a ricade a corpo morto nella vasca, facendo uscire secchiate d’acqua.

Ora Robert è in preda al panico. Scivola, cade, si ferisce.

Carponi, in ginocchio davanti alla vasca,  solleva il corpo di suo figlio, lo porta in soggiorno, lo distende sul divano, lo copre.

Poi trova il coraggio di posargli una mano sul petto.

Il cuore batte, ma al posto della faccia, della bocca, del naso, c’è una maschera di sangue.

Come fa a respirare?

Robert cerca un fazzoletto, e mentre si aggira sconvolto nei pochi metri quadri della casa, trova la lucidità di strappare quel cavo elettrico, e spegnere lo stereo.

Finalmente trova un tovagliolo pulito.

Nel pulirgli il naso si rende conto che l’osso è frantumato.

Torna in bagno a prendere la scatola delle medicazioni, e mentre è in bagno, nel tetro silenzio che è calato in casa Code,  lo sente tossire violentemente.

E nel precipitarsi in soggiorno, quasi scivola di nuovo sulle piastrelle bagnate, ma con una spallata allo stipite della porta del bagno, riprende l’equilibrio.

Christian ha gli occhi aperti, ma è immobile.

«Riesci a muoverti?»

Christian non risponde, però solleva e apre la mano destra, poi la sinistra, e infine muove le dita dei piedi.

Robert guarda l’orologio. Le nove e cinque. Manca ancor quasi un’ora alla fine del turno.

Afferra il telefono, e chiama il caporeparto perché mandi subito a casa Terry.

Il caporeparto è un amico, non c’è bisogno di spiegargli niente.

Mezz’ora dopo, mentre Terry porta Christian al pronto soccorso della fabbrica, Robert si fa una doccia fredda e indossa il suo vestito migliore.

Si mette alla guida della vecchia Dodge e va a suonare il campanello della canonica.

Sono quasi le dieci di sera. Ha infilato 50 dollari in una busta e appena padre Jacob gli apre la porta gliela consegna.

Padre Jacob riconosce subito quel volto dimenticato e il suo bisogno. Lo fa entrare senza fargli domande.

E’ sufficiente uno sguardo di compassione.

«Stasera ho bevuto, padre, e ho picchiato mio figlio»

Padre Jacob infila la busta in un cassetto e riflette.

L’uomo davanti a lui è sconvolto. Il suo pentimento sincero.

Dio vede e provvede.

Non è il momento di affrontare certi discorsi sulla “diversità” del cresimando Christian Code.

Probabilmente Robert Code non sa nemmeno cosa sia il quoziente d’intelligenza.

Padre Jacob lascia trascorrere qualche ragionevole istante prima di alzare la destra nel segno della croce.

Robert piega il capo e giunge le mani.

E padre Jacob recita:

«Ego te absolvo in nomine patri».

* * *

Uscito dalla parrocchia, Robert non sa cosa fare.

Non ha il coraggio di andare al pronto soccorso.

Fa una lunga camminata seguendo la recinzione della fonderia.

La sua testa è piena di pensieri confusi su casi di morte conseguente a emorragia cerebrale di persone che dopo il trauma riprendono momentaneamente i sensi.

Alla fine del giro, da lontano, nota che davanti al posto di pronto soccorso non c’è alcuna auto. Dunque Terry e Christian sono rientrai a casa.

Con la speranza nel cuore, ripercorre il lungo tragitto.

Quando rientra a casa è passata la mezzanotte.

Terry sta guardando la Tv, la sigaretta che le pende all’angolo della bocca.

La camicetta aperta, il reggiseno sul tavolino, iI posacenere pieno di cicche.

Non sono la tua baldracca.

Robert attende. Inutile chiederle.

Come sempre, lei inizierà a parlare quando lo deciderà lei, di scatto, come un’arma automatica, per frasi secche, senza guardarlo.

Roberto attende in piedi per un tempo lunghissimo, in preda a un’ansia crescente.

Perché le porte delle due camere sono aperte, e Christian non c’è.

Terry spegne la sigaretta, la spegne con cura.

Poi ne accende un’altra e la fuma quasi per intero.

«L’hanno trattenuto in osservazione. Ti è andata bene. Avresti potuto ammazzarlo»

* * *

FINE PRIMO CAPITOLO – segue

photo “The baby was” by Athos Mazzoleni

http://www.foodforeyes.com/ 

piano dell’opera: The male code  (original screenplay for Christian Bale

by Leone Belotti / GianFranco Bortolotti / CalepioPress©2013)

 

INDEX

 parte prima 

1 – il codice sorgente                       Detroit, 1974.

2  – la scheda madre                        Detroit, 1976.

3 – la periferica di controllo            Detroit, 1978.

4  – il sistema operativo                   New York, 1980.

5  – la relazione in copyright           Boston, 1982

6  – la scheda di memoria                Detroit, 1984

parte seconda

7  – la donna software                      Sylicon Valley, 1986

8  – la donna telefonia mobile          NY-London, 1988

9  – la donna pixel                             NY-Paris, 1990

10  – il maschio hacker                     Los Angeles, 1992

11 – il dominio del maschio web     Mosca, 1994

12  – il maschio server                     NY-Bejing  1996

PROXIMA PUBLICATIO : CAP2 La scheda madre > MAR 9 APRIL 2013