i Lombardi con le braghe calate

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Oggi alle 16.15 meridiane due comunicati tra loro slegati, provenienti dalla stessa istituzione, la Regione Lombardia, hanno prodotto in me, nella mia coscienza storica, il succitato titolo;

(premessa metodologica in 10 righe che puoi anche saltare o leggere infine:

come dicevano Braudel e i suoi amici della scuola degli Annales, la grande storia si scrive rintracciando il filo che lega i piccoli fatti,

la microstoria spiega la grande storia: il vero tono, il senso storico di quel che accade, più che nei grandi eventi istituzionali, è nella catena dei banali provvedimenti quotidiani;

per questo serve un metodo certosino di raccolta dati e poi una capacità creativa e ordinativa di visione globale.

Allora io che con gli Annales sono cresciuto oggi ho riprovato quel brivido che è l’orgasmo dell’investigatore quando in due fatti insignificanti riconosce una prova del delitto)

h.16.10 la prima notizia, parlando con una collega, molto delusa mi dice che Regione Lombardia non rinnoverà il sostegno a Dimore&Design, progetto no lucro di valorizzazione del patrimonio storico/architettonico, nato a Bergamo, per aprire gratuitamente al pubblico palazzi nobiliari normalmente chiusi, invitando, provocando noti designer ad arredarli per l’occasione;

stiamo parlando di edifici che racchiudono la nostra storia, a volte in modo non esibito, trasandato, ma autentico, dimore che non sono ancora state comprate da divi televisivi o sceicchi o da società finanziarie per farne la loro sede di rappresentanza,

perché è questa la fine che faranno,

i giornali titoleranno grazie alla XZY palazzo WJK tornerà a nuova vita, e invece noi sappiamo che morirà completamente, e con l’edificio morirà la nostra storia, e un po’ anche noi;

da qualche decennio stiamo perdendo l’idea di “patrimonio pubblico”, per cui una comunità a un certo punto è in grado di trasformare beni materiali privati, come un castello o un palazzo nobiliare, in beni culturali pubblici, con utilità e uso pubblici, di vario tipo, anche sociale;

l’iniziativa Dimore&Design dietro l’apparenza glamour ha lo scopo di creare conoscenza, coscienza, senso di appartenenza tra il pubblico contemporaneo e queste dimore storiche; senza questa coscienza non si può nemmeno ipotizzare il vero discorso;

il vero discorso te lo esemplifico subito: il più bel parco di Città Alta, la più grande area verde, la più scenografica è il parco di Palazzo Moroni, tra la Fara e la Rocca,

questo parco potrebbe diventare un parco pubblico, basterebbe un gesto serio del comune, invece un bel giorno leggeremo che il Palazzo e il parco sono stati acquistati da una multinazionale, come l’Italcementi, e tutte le anime belle cadranno dalle piante;

dunque la Regione Lombardia dice: non ci interessano le dimore storiche della città di Bergamo.

Va bene, si sa che le spese “cultura”, “patrimonio storico” per quanto esigue sono sempre le prime a essere tagliate.

h. 16.15 parlando con un’altra collega, molto allegramente mi informa che Regione Lombardia ha messo sul piatto una bella somma a fondo perduto per sostenere i piccoli esercenti in crisi,

e va bene, e immagini che le condizioni per usufruire dell’aiuto siano il legame col territorio, con i prodotti e l’economia e l’identità del territorio,

e invece incredibilmente Regione Lombardia aiuterà quei piccoli negozi che decideranno di entrare a far parte di una catena di franchising,

non ho capito,

hai capito, per esempio tu nel tuo paesino o nel tuo quartiere hai una trattoria che da tre generazioni fa da mangiare con roba presa alla cascina dietro l’angolo e la Regione Lombardia ti finanzia a fondo perduto se entri in una catena di ristorazione sushi di tendenza;

lo stesso se hai una merceria, una panetteria…

ha capito cosa ci resta dell’Expo a Milano?

il paradosso è che questo “paghiamo tutto noi” di solito è proposto dalle grandi catene stesse, adesso invece è la Regione, cioè noi, che finanziamo il suicidio delle botteghe del territorio, creando zombie, non negozi, con non prodotti, per non persone,

dunque la notizia non è “Regione Lombardia aiuta i piccoli esercenti” ma casomai “Regione Lombardia aiuta le grandi catene”,

noi lombardi abbiamo una specie di orgoglio regionale, legato al lavoro, all’etica, all’amministrazione virtuosa,

quando andiamo in Trentino siamo ammirati per come spendono bene i soldi pubblici, quando andiamo in Sicilia l’opposto,

oggi alle 16.15 la Regione Lombardia mi è calata nel Gattopardo, nella logica del paradosso, sostenere gli esercenti per farli sparire, trascurare il patrimonio pubblico per lasciarlo privatizzare,

i Lombardi, i politici lombardi in un colpo solo mi fanno capire l’intenzione, svendono il commerciante lombardo e il palazzo lombardo, e al loro posto promuovono il punto vendita e la sede della catena multinazionale…

ci sono tanti modi per diventare schiavi, per finire in catene…

eppure Lombardo, longobardo, significa longo bardus, bardato a lungo, è questo che ha sconvolto l’impero romano, l’uso dei pantaloni lunghi, l’uso della cucitura, ignota ai romani,

portare i pantaloni significa essere capaci di decidere del proprio destino, essere autonomi, uomini liberi, con libere assemblee…

penso alla Fara, che era il campo longobardo dove si tenevano le assemblee dei guerrieri, ferocemente determinati ad abbattere l’impero,

e penso con vergogna a noi Lombardi di oggi, con le braghe calate.

(imago: Palazzo Moroni, Bergamo)

 

nascituros, morituros, 5 sensi 1 anima

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aborteut

(Leone XIV latin version su aborto, eutanasia; trad. it. in coda) 

natura mater nostra est

deus pater noster est

a natura nascor

in natura morior

sensus quinque anima una

ita est hominis naturalis configuratio

nullus homo naturam fugere potest

nullus senatus legem dictare potest

nulla ecclesia quidquid proibire potest

noli mutare corporis caducitas

noli abusare corporis tui fratris per tui corporis additionem

noli tradere spiritus istantis ad machinas frigidas

quid est homo nisi  brevis momentus sensorum armoniae

quid est amor quid dolor nisi passiones corporis in spiritu ardens

quid est aeternitas nisi hac coscientia de sensorum transitus

humanum est curare

humanum est morbum pugnare

humanum est naturae legem acceptare

humanum est se submittere ad voluntatem dei

humanum est nascituros pietate tenere manu amorosa

humanum est morituros pietate dimittere manu amorosa

humanum est in corporis aut animae gelu sibi mortem dare

fides ratio suprema est

fides scientia mater est

fides amoris lex est

EGO VOS SUM

(Natura madre nostra, Dio padre nostro, dalla natura nasco, in natura muoio,

5 sensi e 1 anima, così è la configurazione umana,

nessun uomo può fuggire la natura

nessun parlamento può dettare legge

nessuna chiesa può proibire qualcosa

non sovvertire la caducità del corpo

non sfruttare il corpo dei tuo fratello per arricchire il tuo

non consegnare l’attimo fuggente alle fredde macchine

che cosa è l’uomo se non un beve momento di armonia dei sensi

che cosa sono l’amore, il dolore se non passioni di un corpo in spirito ardente

che cosa è l’eternità se non questa coscienza della transitorietà dei sensi?

È umano curare, combattere la malattia, accettare la legge di natura

È umano sottomettersi alla volontà divina

E umano tenere pietosamente chi nasce con mano amorosa

E umano lasciar pietosamente andare chi muore con mano amorosa

È umano nel gelo del corpo o dell’anima darsi la morte

La fede è ragione suprema

La fede è scienza madre

La fede è legge d’amore

IO SONO VOI

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http://paolomassimotestaphotography.tumblr.com/

bobos invisible hall

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L’altra sera sono stato in un locale che non c’è, dove non c’erano un centinaio di persone, e una ventina di musicisti (con qualche nome di fama) non si sono alternati sul palco, in total free&friendly jam session.

Un seminterrato senza insegna (invisible), garage condominiale open-space in disuso, con tre grandi aree comunicanti: la zona social drink&food, la concert hall e la sala fumatori-giochi d’epoca (freccette, calcio balilla).

Probabilmente assemblato e smontato in poche ore (rave party docet), tutto spartano, naked, sedute e tavolini hand-made ex pallet, pavimento cemento, alle pareti vecchie locandine di vecchi film di culto, tipo jack volò sul nido, in original version.

Però: i caloriferi nuovi e funzionanti, le uscite di sicurezza veramente tali, il servizio bar impeccabile, l’area fumatori dotata di aspiratore.

Tutto abusivo, cioè: festa privata. Wittgenstein-deduction: il privato è abusivo. Fare festa è abusivo. Un luogo dove gira gente ma non soldi è abusivo. Però trovo assessori, dirigenti pubblici, politici, opinion leader. Tutti rigorosamente bobos.

Bobos sta per bohemienne-bourgeois, indica la grande tribù 40enni dual band, di giorno regimental, di notte underground,

un asset tipico della X generation, la progenie senza ideali e senza palle, fatalmente fottuta dalla boom generation che l’ha preceduta (e generata), i decantati sessantottini, ormai sessantottenni e dunque pensionabili, eppure incollati alle poltrone come vecchi democristiani, se non di più;

quando diciamo bobos, parliamo di quarantenni più o meno integrati/e sul lato sociale, professionale; e più o meno disintegrati/e sul versante privato, personale;

integrati ma spesso non realizzati, relegati, e “delfinati” dai senior democrisantottini di cui sopra;

disintegrati ma non distrutti, anzi, pluri-consapevoli, con l’io-diviso ma l’inconscio moltiplicato e il super-ego in modalità visibile;

con lavori, titoli, impieghi e incarichi statement; e vite dissolute, sport estremi, relazioni tormentate, passioni insanabili, aspirazioni purissime e vizi inconfessabili.

Di fatto adottano o adattano un metodo sovversivo, da centro sociale autogestito (e senza nemmeno chiedere il conributo-elemosina…) a un target “la meglio gioventù 2.0”, con vocazione next upper class e orizzonti di sostenibilità easy, bla bla car e smart city.

Lo spirito, l’humus, il pathos a ben guardare i corpi, le prossimità, le conversazioni è anarco-libertario ma con garbo, un dionisiaco in slow motion, un mood relax & enjoy che sembra la versione “less is more” del vecchio peace &love, ma senza fronzoli, senza moine, senza politica,

e senza tutte quelle formalità da locale pubblico, come se in effetti tutti i problemi d’immagine e comunicazione derivassero dall’absurdum di “spendere per divertirsi”.

Anche da nudi (intendo: spogliati del ruolo sociale, professionale) e in ebbrezza questi good fellas sono educati, gentili, puliti.

Il bar è free, ma nessuno esagera, nessuno molesta le bargirls.

C’è qualcosa di piacevole nell’aria, una leggerezza, ma anche un alone di malinconia erotica.

Un consulente aziendale (ma è un politologo prestato al marketing) mi cita Ibsen: quando noi morti ci destiamo, ci rendiamo conto di non aver mai vissuto. Buono.

Ex ragazzine liceali, ormai anta, ma tirate a lucido e perfettamente funzionanti, pezzi unici fuori produzione, belle e desiderabili, come motocross d’epoca. Ammirevoli, e pronte a ruggire.

Ti avvicini, ci parli, e ti dicono: ero incinta, sono stati i mesi più belli della mia vita, sentivo un’energia, un amore, ma poi ho perso il bambino. E le guardi le scarpe da 600 euro, eccitanti. E pensi: ecco la differenza rispetto al liceo, allora bastavano le Superga.

I maschietti american college, camicia bianca, blazer navy o giacca fashion tra il barocco e il finto-clochard, e anche qualche golfino sulle spalle, evergreen del maschio mammone no sexy.

Anche loro, ci parli, gli chiedi, ti dicono: mi sento una merda, e con gli occhi umidi ti raccontano dell’amico di una vita, che non aveva nessun problema, e invece si è suicidato.

Poi sale sul palco un duetto fantastico, lui zazzera, lei caschetto, e sparano una bomba di zucchero eseguita a regola d’arte, Lionel Ritchie e Diana Ross, il nostro amore senza fine, endless love, e scatta la regressio ad juventutem, ai primi anni Ottanta, al primo amore di tutta la generazione. Troppo.

Uscendo, un’efelide grissinesca tacco 14 e ventre rientrante, con qualche problema a salire le irte scale, mi si avvinghia al fortebraccio.

Le chiedo: che cosa resterà di questi anni Ottanta? Sulle note che provengono da sotto, mi risponde: i Pink Floyd.

 

 

la perversione dello scarpulì

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SaeveLeones

Si, lo ammetto, anche io faccio parte di quella grande categoria di pervertiti che segue le orme dei ciabattini, degli scarpulì, scarpe bellissime per i clienti, e loro in giro con le scarpe bucate.

Mi occupo di comunicazione, ma se per sbaglio un cliente guarda il mio sito, si spaventa. Invece della home c’è la domus, e grazie a questo abbatti del 50% i visitatori.

Qui sopra, un file ritrovato per caso, con l’evoluzione del marchio calepio press. Guardando con distacco, mi verrebbe da dire: di male in peggio.

Per rispetto e per scusarmi verso chi mi legge nonostante questi marchi, di cui mi prendo ogni responsabilità, mi sento in dovere di scrivere i tre “rational”, quei brevi testi che si presentano al cliente per spiegare nascita e senso del marchio.

1, lo sgorbio:

fatto da me “al computer”, primi anni Novanta, su pc 286 Honeywell-Bull; me lo portavo dietro su floppy, lo piazzavo sulle cose che scrivevo come mia firma.

A un certo punto accompagnava un marchio di nome Malomodo Communicatons, antesignano di ADVzero, col quale firmavo progetti esemplari di ultra-pubblicità, o pubblicità auto-denigratoria;

sotto la stessa etichetta scrivevo e pubblicavo qui e là racconti di fantamarketing (come il progetto del cimitero elettronico, il social net dei più, che avevo battezzato YouDie, e che adesso, quindici anni dopo, vedo realizzato da quel Raffaele Sollecito ex Amanda-delitto Meredith di Perugia,

2, il charro:

fatto da Benedetto Zonca (ma su mie indicazioni) una sera nel 2007, la sera che ho deciso di creare la calepio press, scansionando un piccolo leone di plastica che faceva parte di una scatola di soldatini del 1974 sul tema colosseo, con leoni, cristiani e gladiatori,

e dunque giustamente tamarro, con un leone kitch sbranacristiani che di fatto fa a pugni con una font hercolanum, astutamente scelta per comunicare all’inconscio che calepio press è un’etichetta commerciale, dal momento che la “e” dell’hercolanum, come si vede, è il prototipo dell’euro

3, il chess:

cosiddetto in quanto chess vuol dire scacchi, non per altro, fatto dallo studio Bamboo nel 2011 (sempre su mie indicazioni…),  un cavallo con testa di leone, che dovrebbe esprimere la situazione neo-situazionista dell’azione culturale sovversiva, non rivoluzionaria,

e cioè infiltrarsi nel sistema per ribaltarlo, sovvertirlo (secondo le istruzioni “debordanti” tratte dal manifesto “arte della rivolta – la rivolta dell’’arte”)

esattamente come fa il cavallo, con la nota mossa del cavallo, che scompiglia tutto lo scacchiere,

e però con testa di leone, che scompiglia mordendo, ruggendo o graffiando, secondo mia indole, segno e nome.

Ora però c’è quasi la tentazione di ripristinare lo sgorbio. In ogni tentativo di serietà intellettuale, ma anche in ogni avventura-business, c’è sempre qualcosa di patetico, di commovente, e anche di comico.

 

ieri sera sono uscito con David Bowie, Franz Kafka, Lady Stardust e altri 4 fantasmi più vecchi

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In morte di David Bowie, ho rimesso in funzione un vecchio giradischi, e ascoltato tutta la sera quel vecchio long playing, facendo fuori una bottiglia di vodka, davanti alla mia libreria,

sulle note della signorina polvere di stelle, ho riaperto i Dubliners di Joyce, ricordi David quel racconto intitolato “polvere”?

seguendo la polvere, mi sono ritrovato tra le mani la Bibbia, il Qoelet, polvere siamo e polvere torneremo (a questo punto ci sarebbe voluta la polverina bianca), tutto è vanità, vanità delle vanità,

e poi Change, la fantastica c c c c c c change, che mi fa chiudere di scatto il capitolo polvere, e mi fa venir giù dalla libreria il mio buon Franz, vecchia Europa, Mitteleuropa, con la sua Metamorfosi, è così David, tutto cambia, tutto è change, tutto è metamorfosi, un momento sei Dio, un momento dopo sei uno scarafaggio,

ormai ubriaco, in fase allucinatoria, eccomi a passeggio per Bergamo Centro con David e Franz, e curiosamente mi rendo conto di un fatto, grazie a Franz, alla sua passione per la pavimentazione stradale

(non avrei mai potuto scrivere il Castello senza l’eco dei miei passi sul vecchio lastricato praghese),

che mi notare come in più vie urbane, Borgo Palazzo, S.Tomaso, viale Roma, cioè quelle vie che dovrebbero essere il cardine della città pedonale, il lastricato storico, che siano cubetti di porfido o pietre serene, è ricoperto da una colata nero-scarafaggio di asfalto-catrame,

è una copertura provvisoria, dico,

e da quanto, mi chiede Franz, da anni, rispondo,

e a cosa serve, mi chiede, non lo so, rispondo,

e penso: tanti discorsi sulla smart city, sulla città d’arte, e non sappiamo nemmeno valorizzare la bellezza delle vie lastricate con pietra naturale.

Cambio scena, cambio canzone,

ci ritroviamo in un privè tra l’inferno e il purgatorio (è la Domus, in piazza Dante), con me, David e Franz adesso c’è il vecchio Ovidio, con le sue Metamorfosi in due volumi BUR,

arrivano le birre, le mediocri birre Otus, e io al primo sorso penso alla birra buona, e dico: datemi una mano, ragazzi, devo trovare un filo conduttore per il prossimo numero dell’Osservatore Elaviano (che è il fogliettone di letteratura luppolacea del birrificio Elav);

qual è il tuo problema, mi ha chiesto David, e io ho spiegato: nel prossimo numero dell’Osservatore Elaviano pubblicheremo 40 racconti brevi “raccolti” durante la Yule Fest Elav di fine anno,

i “racconti raccolti” sono il frutto di una performances che si chiama PWS, pub writing session, cioè: al pub raccontami una storia e io ne farò un racconto da pubblicare al pub (queste PWS le facciamo in squadra, con i writer del magazine CTRL)

bene, questi 40 racconti sono divisi in quattro temi/colore: bianco, storie fantasy; rosso, storie di gelosia; verde, storie di gioco e di sport; nero, storie/amarcord di persone che ci hanno lasciato;

quindi mi sono rivolto a Ovidio: mi serve un tema mitologico da mettere in copertina, mettiamo sempre figure mitologiche in copertina;

scusa, mi ha detto Kafka, ma non era meglio se prima stabilivi i personaggi mitologici guida, da mettere in copertina, e in base a quelli poi stabilivi i temi delle storie?

Ma David guardandomi e sorridendo ha detto: è un italiano!

Ho capito, ha risposto Kafka, ha bevuto la sua acqua, e poi ha dichiarato: il filo conduttore che stai cercando è il filo di Arianna.

E David: io sono Teseo, il Teseo bianco

A quel punto Ovidio, gasatissimo, è schizzato in piedi con le sue Metamorfosi tra le mani: Teseo rappresenta il bianco fantasy, se volete vi racconto tutte le sue imprese, ne ha fatte di tutti i colori, e tutte di genere fantastico, e se metti insieme tutti i colori ti viene il bianco, giusto?

David ha esclamato: the famous WhiteTeseo!

Poi, quasi cantando, sottovoce (traduco a braccio):

Teseo parte da Atene e veleggia per Creta con la mission Minotauro Killing,

deve entrare nel Labirinto e ammazzare il mostro mezzo uomo e mezzo toro;

ma ecco che appena arrivato a Creta si innamora della rossa Arianna, figlia di Minosse King,

lei ci sta, e se la godono un po’; lei ci sta, e se la godono un po’ (ritornello)

Dopo il ritornello, ecco l’acuto in puro stile bowie: Cazzo! La mission, devo andare a compiere la mission!

così Arianna gli dà un gomitolo di filo per poter entrare e uscire dal Labirinto senza perdersi;

al che David pare perdersi nel suo mondo, e resta incantato.

E allora Ovidio prende la parola e continua la storia: Teseo va, ammazza il Minotauro, torna…

David: ma ecco Arianna sola sulla spiaggia, ed ecco arrivare un gruppo di giovani atleti in festa, tra di loro come un principe c’è il giovane Bacco… Ovidio: e siamo al verde Bacco, il giocoso Bacco, il campestre Bacco…

Franz: si, e siamo al rosso gelosia, Arianna allegra e lasciva tra le braccia di Bacco, un palestrato beone piacione fannullone, senza cervello né carattere, tutto l’opposto di te, David, il coraggioso e creativo Teseo, che te ne torni ad Atene…

Ovidio: e sei talmente depresso che ti dimentichi di issare la vela bianca, e tuo padre Egeo, vedendo dalla torre arrivare la tua nave con la vela nera, deduce che sei morto, e per la disperazione si butta in mare, in quel mare che poi da lui prenderà nome di Egeo,

Franz: e siamo al nero-memory, che è poi il nero Minotauro.

A quel punto avevo i miei 4 personaggi mitologici di copertina, Teseo, Arianna, Bacco e il Minotauro, che rappresentano la fantasia, la passione, il gioco e la morte, che sono i temi dei racconti, abbinati ai colori bianco, rosso, verde e nero.

Un attimo dopo i miei amici stavano scomparendo e io mi risvegliavo davanti alla mia libreria.

Grazie amici, non so come ringraziarvi!

Grazie David, per avermi fatto rivedere certi vecchi amici come Franz e Ovidio;

grazie Ovidio per avermi fatto conoscere i tuoi vecchissimi amici Minotauro, Teseo, Arianna e Bacco, che ricordavo vagamente;

e grazie Franz per esserti prestato ad aiutarmi a strutturare l’Osservatore Elaviano, che onore,

e grazie a Gianni Canali per questa foto fatta a fine serata (la sfilata di Arianna!)

e grazie anche agli amici in carne e ossa, per non rompermi troppo quando decido di fare serata in casa con gente che sarà anche morta, ma ha sempre tante cose interessanti da raccontare.

gente di Bergamo – troppi colpevoli

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Tre di notte. L’auto è una vecchia e anonima Fiat bianca, con il motore potenziato. Soltanto una minuscola targhetta metallica  la rivela come appartenente alla Questura.  Corre veloce oltre l’Oriocenter e l’aeroporto, sottopassa l’autostrada A4, la grande arteria, e si getta nel muro di nebbia. Al volante una donna dal viso segnato, gli occhi neri, le labbra carnose, niente trucco, capelli corti e un corpo giunonico che i jeans e il giubbino di pelle non riescono a nascondere.

Prende una strada tra i campi, supera la roggia, rallenta. Il capannone del birrificio appare dal nulla, un’astronave con gli oblò illuminati. Spegne il motore, prende la sua vecchia borsa di cuoio, gonfia di incartamenti,  scende, spinge il portone scorrevole, entra. «Ciao birraio!», si annuncia.

In cima a una scaletta che corre sopra i fermentatori, appena sotto il tetto del capannone, in salopette  e stivali, compare il birraio.

«Ciao Rosa.»

L’ispettore Rosaria Schillaci sorride, e non le capita di frequente. Molla la borsa su un tavolaccio.

«C’è qualcosa da bere?»

Il birraio scende dalla scaletta. «Sette od otto mila litri di birra dovrei averli.»

Le serve una birra scura, densa, speziata, eretica. Si guardano. Lei è meridionale,  funzionario pubblico, due lauree, una vita zingara, un sfilza di trasferimenti per “incompatibilità ambientale”. Lui è un artigiano del nord, senza titoli scolastici, radicato nella sua terra. Hanno una sola cosa in comune: l’amore per il proprio lavoro. E un certo sentimento da cani sciolti che li unisce al di là di tutte le differenze.

«Racconta.», le dice.

Lei si slaccia il giubbino, apre la borsa, ne estrae un grosso faldone. Sono diventati amici quasi per caso, e si sono subito piaciuti e ritrovati con un’intesa tutta psicologica, come due fratelli, senza la minima traccia di attrazione erotica. L’ispettore non ha famiglia né marito, e nemmeno amiche o amici. In compenso, si è fatta molti nemici. Non si fida dei colleghi, e nemmeno dei magistrati. Il birraio è uomo di poche parole, ma sa ascoltare.

L’ispettore apre il faldone, da una busta tira fuori alcune foto.

«Giulia Bonomelli, 16 anni, studentessa modello del liceo classico, famiglia molto nota, e molto agiata.»

Il birraio prende in mano la prima foto. «Ne dimostra di più. Ma… è davvero bellissima!»

«Era bellissima, è morta. Quella che stai guardando è una foto di sei mesi fa. Questa è più recente, e questa dell’anno scorso.»

Solo adesso il birraio nota che la busta dalla quale Rosa ha preso le foto ha un’etichetta con scritto “la vittima”.

«Qui è ancora una bambina», dice guardando la prima delle tre foto. Lo deduce dallo sguardo, dai lineamenti, dalle forme acerbe. Poi prende la più recente. Il sorriso solare è scomparso. Una magrezza eccessiva, da anoressia. La pelle tirata, le occhiaie.

«Qui è già vecchia. Cosa le è successo?»

«Aspetta.» risponde Rosa, e tira fuori la seconda busta, con la dicitura “indiziati”.

Sono parecchie immagini, ritratti di professionisti di successo, foto di gruppo di staff aziendali.

«Chi sono?»

L’ispettore glieli indica uno per uno, nomi e cognomi, incarichi e ruoli. Si tratta di due gruppi distinti di persone. Nel primo gruppo ci sono gli azionisti di maggioranza di tre grandi e noti marchi multinazionali: una casa di moda, una farmaceutica, una liquori e bevande. Nel secondo gruppo i responsabili comunicazione delle suddette aziende, e i creativi delle agenzie pubblicitarie che lavorano per loro. Il birraio conta 35 persone.

«Spiegami. Cosa hanno fatto?»

«Aspetta, ho bisogno di un’altra birra.»

Senza proferire parola, il birraio apre un piccolo fusto da 5 litri senza etichetta e spilla due boccali. Bevono.

«Buona. Che cos’é?»

«Non lo so nemmeno io. Non ha nome. Volevo provare alcune combinazioni. Non so nemmeno se la metterò in produzione, non riesco a capire se è finita così, o manca qualcosa…»

Rosa riprende il boccale e con un lungo sorso lo vuota.

«Direi che è finita!», dice. E mentre il birraio le rabbocca il bicchiere, prende la terza busta, che reca l’etichetta “corresponsabili”. Contiene solo due foto. La prima è la classica foto d’inizio anno scolastico, tutta la classe, alunni e docenti.

Il birraio osserva e nota che i volti di tre ragazzi e tre ragazze sono stati cerchiati in rosso, ed anche una docente.

«Non c’era bisogno di segnarli» dice. Sia i tre maschi che le tre femmine hanno qualcosa che li fa spiccare dai loro compagni.

«Perchè?»

«Sono più scafati. Più maturi. I loro compagni sono ancora bambini, questi sono già adulti. Fanno sesso, forse hanno già provato le droghe, o forse sono semplicemente molto più figli di papà dei loro compagni»

«Bravo.»

«E la profe?»

«Non è una professoressa qualsiasi. La psicologa della scuola.»

«Va bene, adesso raccontami la storia.»

Rosa annuisce.

«Si, ancora una cosa, poi ti espongo la mia ricostruzione»

Nel faldone c’è un’ultima busta. “La famiglia”. Una sola foto. Sul ponte di una vecchia barca a vela, la famiglia Bonomelli.

«Questa è Nora, la madre, bella e altera, ex modella, lo stesso viso della figlia Giulia, come vedi; il fratello più piccolo, Federico, biondo e impassibile, come il padre Giangiacomo, commercialista di primissimo livello, con denuncia dei redditi superiore al milione, e una lista infinita di partecipazioni azionarie e proprietà immobiliare. Collezionista di auto sportive d’epoca, buon tennista.»

Il birraio posa la foto sul tavolo. Dice: «bella famiglia.»

«Già. La storia per un certo verso è molto semplice, per un altro molto complessa. Giulia è stata violentata e uccisa, e non da una sola persona, ma da più soggetti, e i colpevoli sono da identificare nel gruppo degli indiziati e dei corresponsabili.»

«Violentata e uccisa?»

«Si, ma non è così semplice.»

«Abbiamo tutta la notte.»

«La storia inizia nella primavera dello scorso anno, quando il gruppo Jeunesse rileva dal gruppo BonTon il marchio Louisel.»

Sul tavolo ora ricompaiono le foto degli uomini della casa di moda: azionisti di maggioranza, stilista, art director, fotografo e copy writer dell’agenzia pubblicitaria.

«Il marchio Louisel è sempre stato la griffe di punta delle adolescenti acqua e sapone, per bene, con qualcosa di antico, della nonna, maglieria pastello, gonne a quadri, un po’ british, collegiale, insomma la divisa delle ragazzine bene.»

«Tu vestivi Louisel?»

«Io sono cresciuta in orfanatrofio, amico mio, e vestivo solo Caritas!»

«Che fa sempre tendenza!»

Ridono insieme, brindano. Anche il birraio è cresciuto in orfanatrofio.

«E allora?»

«E allora a un certo punto il gruppo Jeunesse decide di acquisire Louisel per fare un’operazione commerciale molto “coraggiosa”, così almeno hanno scritto le più famose giornaliste di moda.»

«E cioè?»

«Hanno presentato una nuova collezione, ma soprattutto una campagna pubblicitaria pervasiva al limite della denuncia per oltraggio al pudore. Le ragazzine bene che da due generazioni incarnavano la griffe Louisel sono diventate da un giorno all’altro, nei poster e negli spot, nelle pagine dei magazine di moda femminili, delle dark lady, delle femme fatale supersexy, supermagre, in ambienti superlusso, bui e fumosi, circondate da alcolici, gioielli, in pose lascive, lunghe gambe larghe, sguardi spenti o persi nel vuoto da tossicodipendenti…»

«Ho presente, anche io sono rimasto colpito da quelle immagini. Il prodotto reclamizzato era il sesso, o forse anche la depressione…»

«Hai ragione. Ma ha avuto un grande successo. Fatturato triplicato, e tutta la stampa a osannare questi tizi come fossero dei geni.»

«E cosa c’entra la nostra ragazzina?»

«La nostra ragazzina ha fatto parte del casting della nuova campagna.»

«Ah! Dunque era lei su quei manifesti…»

«No, lei faceva parte del cast, è apparsa nei servizi sui settimanali, ma di contorno, in secondo piano, non ha avuto la parte della protagonista, e non appare nelle foto scelte per le pagine pubblicitarie sui grandi quotidiani e sulle affissioni che hanno tappezzato l’Italia la scorsa primavera.»

«E come ha fatto una ragazzina di 15 anni a entrare in quell’ambiente?»

«La madre, è stata la madre a mandarla all’agenzia di modelle, una delle più grandi, la stessa per cui lei ha lavorato negli anni novanta, prima di sposarsi.»

Ora guardano insieme la foto di famiglia, osservano la linea perfetta della figura, il seno evidentemente rifatto, ma alla perfezione, così come le labbra.

«La madre», commenta il birraio, e poi ripete «la madre», con la voce spenta, priva di tono, che pure dice tutto, come una campana a morto.

«Già, la madre» riprende l’ispettore «la madre che, dopo che Giulia non è stata scelta come guest model della campagna, ha fatto alla figlia una scenata, culminata con “te lo dico io perchè non ti hanno scelto, non gliene frega un cazzo se tu sei la prima della classe in greco e latino, e non gliene frega un cazzo se non sai fare la faccia da troietta, te l’avrebbero insegnato, e te l’avrei insegnato io: il motivo per cui ti hanno scartata è questo! e solo questo!” e intanto le prendeva, e le strizzava con forza, con rabbia, le cosce, la pancia. Questo almeno a dare retta al racconto della governante. Da quel momento, Giulia ha iniziato a diventare anoressica. La psicologa della scuola invece sostiene che Giulia ha smesso di mangiare in seguito al “trauma” che le è capitato poco dopo. Ma c’è anche una terza spiegazione. Che viene dalla segretaria del padre, la quale mi ha riferito un fatto che ribalta tutto. Pare sia stato il padre a… »

Il cicalio di una suoneria interrompe il  resoconto dell’ispettore.

«Scusa un minuto, anzi: seguimi», dice il birraio.

«Sissignore!»

«Prendi uno di questi sacchi, e fai quello che faccio io.»

Salgono su una passerella, e svuotano lentamente, a pioggia, il sacco di luppolo nell’ammostatore. Poi il birraio compie una serie di gesti, manovra una serie di leve.

«A posto.», dice, e tornano al bancone di mescita.

«Il padre» dice il birraio, mentre spilla altre due birre.

«Il padre è stato avvertito da qualcuno dell’agenzia che sua figlia rischiava di diventare una lolita da copertina, ovvero che lui rischiava di aver problemi di reputazione, dal momento che metà dei suoi clienti sono istituti religiosi.»

«E quindi ha fatto due telefonate e la figlia è stata scartata.»

«Esatto. Ma adesso veniamo al “trauma”, per usare le parole della psicologa. Gita scolastica. Cinque giorni a Berlino.»

«A Berlino?»

«Si, con la scusa del festival del cinema. E qui tiriamo fuori la seconda multinazionale, quella degli alcolici.»

«Penso di aver capito… »

«Anche qui, grandi studi, indagini di mercato, progetto d’immagine geniale, social marketing, eccetera eccetera, ed ecco che questa bevanda, e i vari long drink e shoot dedicati, diventa il nuovo culto dei teen-ager, delle ragazze soprattutto, per l’ebbrezza facile.»

Il birraio adesso prende la foto di classe, osserva i volti dei ragazzini contrassegnati dal cerchio rosso.

Dice: «Un’orgia in gita scolastica.»

«Peggio, uno stupro di gruppo. Certo erano tutti ubriachi, forse anche fatti di cocaina. Giulia praticamente collassata, al pronto soccorso l’hanno letteralmente richiamata dalla morte,  è rimasta in coma due giorni.»

«Erano questi sei?»

«Si, avevano deciso di fare un festino privato in camera delle tre ragazze.»

«E come si è saputo dello stupro?»

«Aspetta. Una settimana dopo il ritorno dalla gita Giulia ha cominciato a vomitare. Era incinta. La madre si è infuriata, e più la madre si infuriava – riferisce la governante – più Giulia le negava quel che lei pretendeva di sapere, cioè come fossero andate le cose, chi fosse il padre. La madre dava per scontato che l’accaduto fosse colpa di Giulia, della sua sprovvedutezza in fatto di contraccezione.»

«Quindi non ha raccontato alla madre quello che era successo?»

«No: ha fatto ben altro. Ha preso carta e penna, e ha scritto tre lettere, ai genitori dei suoi tre compagni di scuola, dove raccontava di essere stata fatta ubriacare e poi violentata dai loro figli, aiutati dalle due amiche, che lei era incinta, che aveva intenzione di tenere il figlio, e che chiedeva il versamento di un assegno mensile alle tre famiglie per i prossimi diciotto anni. Aveva intenzione di andare a vivere da sola, secondo la governante, e le aveva persino chiesto la disponibilità a passare alle sue dipendenze!»

«Cristo!»

«I tre padri di famiglia, due avvocati e un architetto, sono andati a parlare col padre di Giulia: che è anche il loro commercialista.»

Il birraio alza gli occhi. Il grande orologio da stazione indica le cinque.

«Scusami Rosa, dobbiamo fare una pausa. Mezz’ora. Fai un pisolino da soldato.»

Si alza, e se ne va a curare le sue birre.

Rosa si allunga sulla panca, s’infila la borsa sotto la testa come un cuscino, e chiude gli occhi.

Da tre settimane questa ragazzina che non ha mai conosciuto, se non su un tavolo d’obitorio, la accompagna in ogni momento della giornata. Ha dedicato a questa indagine “risorse ingiustificate”, come ha detto il suo superiore. Ha parlato con tutti i ragazzi, con i professori, con i genitori, la governante, la segretaria del padre, l’amante del padre, l’amante della madre. Ha letto tutti i diari di Giulia, ha scaricato, stampato  e letto tutta la memoria del computer e del telefonino di Giulia, tutti i messaggi, le pagine facebook di tutti i ragazzi.

E sempre quel volto solare, da principessa, davanti agli occhi. Si addormenta profondamente, e si risveglia improvvisamente. Davanti a lei il birraio sta ridendo.

«Rosa! Russi come un orso!»

«Colpa delle tue birre.»

«Sono le sei. Caffettino al bar qui dietro?»

«Sarà meglio.»

Escono dal capannone, s’incamminano tagliando per i campi, raggiungono il piccolo paese, alcune vecchiette entrano in chiesa, davanti al bar ci sono un paio di furgoni da muratori. Entrano. Dietro il banco c’è un cinese. Sorseggiano senza mettere lo zucchero. Si guardano. Il birraio dice: «Fa schifo al punto giusto», e Rosa è d’accordo.

Escono dal bar, tornano al capannone. Attorno a loro i campi sono gelati e immersi nella nebbia.  Da qualche parte un cane abbaia stancamente.

«L’ha trovata la governante, un sabato mattina di tre settimane fa, quando è rientrata a casa dopo essere stata a fare le spese. La madre era al centro estetico. Il padre al circolo del tennis, o almeno avrebbe dovuto, in realtà era con l’amante al lago. Il fratello a scuola. Giulia da qualche giorno era a casa in malattia. Quando la governante l’ha trovata aveva un cuscino sul viso, un flacone di Morfeinol vuoto sul comodino, e una bottiglia di vodka vuota sotto il letto.»

Il birraio si ferma. Guarda l’amica.

«So cosa stai pensando. Anche il medico, quando la governante gli ha detto che l’aveva trovata col cuscino sul viso, si è posto la domanda. E quindi ci ha chiamato, e l’indagine è partita da lì, e il magistrato ha disposto l’autopsia. Appena arrivati i referti autoptici, l’indagine è finita, o meglio avrebbe dovuto essere finita, ma io l’ho portata avanti, ma adesso devo proprio chiuderla, “non un’ora di più” mi ha minacciato ieri sera il grande capo, “o ti devo sospendere”. E adesso sono qui a parlarne con te.»

«Rientriamo», dice il birraio. Davanti al capannone adesso ci sono le auto dei ragazzi che attaccano il primo turno.

«Andiamo in ufficio. E cosa ha detto l’autopsia?»

«La morte è da ascriversi al cocktail di medicinali e alcolici, su un fisico debilitato da uno stato ormai cronico di anoressia. Nessuno le ha premuto il cuscino sul viso, se non lei stessa. Sul suo diario ha scritto: oggi è previsto il parto. Come avrai già immaginato, dopo la sua iniziativa di scrivere ai nonni del bambino, Giulia fu affidata a un grande strizzacervelli, da 1000 euro l’ora. Poi mandata in una clinica in Inghilterra ad abortire. Poi di nuovo lo strizzacervelli. E a settembre di nuovo a scuola.»

«Come niente fosse?»

«Come niente fosse. Lo scandalo avrebbe travolto quattro famiglie, quattro onorati studi professionali della città bene, e probabilmente anche la scuola. Così, pensando “anche al bene della ragazza”, hanno deciso di mettere tutto a tacere… e per non dare adito a pettegolezzi, hanno deciso che Giulia avrebbe dovuto continuare a frequentare la scuola.»

«Ma…»

«L’hanno stritolata. Immagina le giornate di questa ragazzina, dover stare in quella classe, tornare poi a casa da quella madre. I tre ragazzi e le due ragazze sono stati esemplari, loro sì, non hanno ceduto di un millimetro, hanno sempre dichiarato all’unisono la stessa versione, ovvero che era stata Giulia quella che li aveva portati a bere fino a perdere il controllo, che era stata Giulia a voler fare sesso con tutti, e che a quel punto le due ragazze erano crollate a dormire, e di fatto non potevano dire di aver visto come fosse andato il rapporto sessuale. Come elemento a sostegno della loro versione, hanno portato l’abbigliamento che Giulia sfoggiava quella sera: il completino sexy Louisel, proprio quello della famosa pubblicità. Hanno negato di aver costretto Giulia a bere, e di averla tenuta ferma mentre i ragazzi la violentavano.»

«E tu non hai prove, ma sei certa che mentano.»

«Esatto. Non ho le prove. Come non ho le prove, anche se le ho, per considerare questo suicidio come un omicidio, e per attribuirne la responsabilità a tutti soggetti che abbiamo visto, le multinazionali che prosperano veicolando falsi miti, i compagni di scuola, la famiglia. Io li ritengo colpevoli di omicidio, tutti»

«Hai ragione.»

«Quando Giulia è tornata dalla clinica dove è stata mandata ad abortire in gran segreto, la madre ha cominciato a darle una serie di psicofarmaci della peggior specie, prodotti di cui lei abusa da dieci anni.»

«E con ciò arriviamo alla multinazionale farmaceutica.»

«Si.»

«…»

«Lo so, amico mio, è una storia triste.»

«Molto triste.»

«E il mio capo ha ragione, non posso sbattere in galera questa gente, anche se mi piacerebbe moltissimo.»

«Anche i genitori?»

«Soprattutto i genitori.»

«Cosa vuoi fare, allora?»

«Non c’è niente che possa fare. Devo chiudere quel faldone, e “andare a catturare un po’ di ladri di rame nei cantieri”, come mi consigliano i colleghi, “per il mio bene”. Ma mi sento addosso questa ragazzina che mi chiede: tutto qui?»

Dal campanile del paesino, arriva il rintocco delle campane.

«Le sette», dice il birraio.

«Ora che vada», dice l’ispettore, e raccoglie le foto nelle buste, le buste nel faldone, e i faldone nella borsa.

Il birraio la guarda.

«Rosa, mi dai un passaggio in città?»

«Certo.»

Poco dopo sono sull’asse interurbano. La nebbia si è diradata. Il traffico è già intenso.

«Dove è sepolta?»

«Al Monumentale.»

«Passiamo a darle un saluto?»

«Si.»

Prima di entrare si fermano a comprare dei fiori al chiosco. Il fiorista si sfrega le mani per il freddo.

Mentre si incamminano lungo i vialetti tra i cipressi, Rosa prende l’amico sottobraccio.

«La cosa più triste è stata la messa, c’era tutta la città, tutta la scuola, tutti i notabili, la cattedrale era piena come alla messa di Natale, tutti riuniti per ucciderla tutti insieme per la seconda volta.»

«Perchè dici questo?»

«Ti porterò la registrazione dell’omelia. Per fortuna, come al solito, non avevo con me l’arma d’ordinanza, perchè credo che avrei potuto sparargli, direttamente dal banco al pulpito…»

Improvvisamente è scossa da un accesso di pianto. Il birraio la sostiene. Lei cerca di sdrammatizzare, e ai singhiozzi trattenuti subentra  la risata: «Un prete a dieci metri dovrei riuscire a centrarlo!»

Davanti a loro c’è una lapide molto semplice. Sono passate due settimane dal funerale. I fiori sono ormai marci. Il birraio osserva i fiori che hanno portato, un piccolo mazzo di fiori di campo. In un attimo abbranca la massa di fiori marci e li porta nel bidone. Poi sistema il mazzo. Sulla lapide c’è la stessa foto, solo il volto, di Giulia non ancora anoressica, nel suo massimo splendore di principessina.

«Che cosa ha detto nella predica? Perchè gli avresti sparato?», chiede il birraio.

Rosa adesso si è ripresa. Con un cenno gli fa capire che possono andare. O forse non la va di raccontare davanti alla sua tomba quello che ha detto il prete al suo funerale.

Si allontanano.

«Un’omelia capolavoro. Tutta la città in lacrime. Un genio. Praticamente ha dato la colpa al Signore, che l’ha chiamata a sé. Il destino degli angeli!»

«Poveretto, magari non sapeva niente, ed era in buona fede.»

«In buona fede? Lo sai quanto avranno pagato per avere quel funerale? Lo sai che in caso di  suicidio l’obolo si moltiplica per dieci?»

«Tu sei anticlericale. Magari riesci a farti trasferire anche stavolta per “incompatibilità ambientale” con la curia.»

«Potrebbe succedere.»

Risalgono in macchina.

«Quindi non ne farai niente?»

«E cosa si può farne? Magari in pensione mi metterò a scrivere, e diventerò una giallista di successo. Ecco cosa posso farne di questa storia, un romanzo!»

Il birraio scuote la testa poco convinto.

«Troppi colpevoli», dice.

FINE

messaggio di fine anno di papa Leone XIV

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Un anno intensissimo, volato via.

Ringrazio prima di tutti il Signore, per avermi rotto un ginocchio: l’esperienza della disabilità mi ha dato umiltà, pazienza, mi ha costretto a chiedere aiuto, mi ha fatto capire che abbiamo sempre bisogno di stampelle, e che noi stessi siamo stampelle.

Dico grazie agli editori che quest’anno hanno pubblicato miei lavori e agli imprenditori e ai manager che mi hanno “dato lavoro”: Andrea, Angelo, Antonio, Bob, Corinna, Fausto, Filippo, Giovanna, Giovanni, Matteo, Tullio.

E grazie a collaboratori, colleghi, creativi, commerciali con i quali ho lavorato per avermi sopportato e stimolato (e a volte scarrozzato!): Alice, Benedetto, Consuelo, Daniela, Elisa, Emmanuela, Federica, Federico, Faustino, Francesca, Gianni, Guido, Iris, Luigi, Nicola, Valeria, Tiziana.

Chiedo scusa a coloro che ho deluso (Gloria, Marco, più quelli che non so) per non aver saputo rispondere pienamente alla richiesta creativa.

Chiedo perdono a chi ho trascurato, dimenticato o ignorato; a chi ho offeso, insultato o ferito con le mie parole e i miei post.

Grazie infine a tutti gli amici, ai familiari, alle persone incontrate un giorno e a quelle frequentate ogni giorno; grazie ai lettori di questo blog, grazie a chi mi parla, a chi mi vede, a chi mi sorride e a chi mi sfotte.

Per il nuovo anno, l’invito che rivolgo agli operatori della comunicazione è questo:

salviamo la piccola, nobile e meschina città di Bergamo dalla sua secolare tendenza alla chiusura, tiriamo fuori e offriamo il calore nascosto sotto la cenere!

Un augurio, un abbraccio, mille baci!

Leone

 

montelungo fiato corto

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montelungo

Se questa è la riqualificazione urbana, dalla caserma al casermone, no grazie, mi tengo le aree dismesse.

Parliamo di un’area strategica completamente travisata, di un’opportunità che ha generato un mostro.

La Montelungo doveva essere il cuore del “passante verde”, ne parliamo da anni, un vero progetto urbanistico, non edilizio, per dare volto e funzione nuova alla città, in grado di unire città alta e bassa, Carrara e Sentierone, borghi orientali e occidentali, realizzabile aprendo porte, recinzioni, abbattendo muri…

Gori parlava di “rammendo” urbano, ed effettivamente qui si trattava di “cucire” e confezionare il parco-passante verde (S.Agostino/Carrara > orti S.Tomaso > parco Suardi > parco/cascina urbana Montelungo > parco Marenzi e Caprotti > Sentierone) per cui tu cittadino o turista potresti attraversare e vivere Bergamo Bassa a piedi seguendo un vero percorso-giardino d’arte, dalla Carrara al Sentierone, facendo tappa in S.Spirito e S.Bartolomeo ad ammirare i capolavori del Lotto (e non solo);

Il punto nevralgico, la ex-Montelungo, come tutti ripetiamo da anni, è da aprire, abbattere, piantumare, riqualificare come cascina urbana, non ri-edificare in mega-volumetria “casermone” ex Germania Est;

il progetto doveva essere un progetto di apertura, con soluzioni esemplari, bio-architettura, sostenibilità, mercato agricolo urbano, e invece qui abbiamo un progetto chiuso, una colata di cemento circondariale, del tutto fuori luogo e fuori tempo;

l’unico vero intervento – se proprio si vuole aprire un cantiere – sarebbe interrare il tratto di strada che oggi separa il Parco Suardi dall’area Montelungo (o in alternativa by passarla con strutture aeree pedonali);

doveva essere il polmone verde di città bassa, il tratto d’unione in grado di connettere e rivitalizzare l’area Carrara e il centro Piacentiniano,  e di unire i borghi s.caterina – palazzo – pignolo  con i borghi s.alessandro-leonardo, e non solo,

doveva essere il ring cultura/città bassa connesso al ring mura/città alta, il percorso sopra e sotto le mura venete,

insieme, dovevano essere i due polmoni della città d’arte sostenibile;

invece, nel polmone verde di città bassa si vuole costruire un ecomostro,

mentre il polmone verde di città alta, il parco fara-rocca, l’acropoli della città, è stato devastato, contaminato e poi abbandonato come una discarica da 8 anni (e a spese dei cittadini!).

Questi due polmoni, cruciali per dare aria, respiro, connessione di percorsi pedonali città alta-bassa, cultura e turismo, sono e saranno soffocati da colate di cemento.

Fiato corto. Manca l’aria.

Prendiamo atto di questo: la giunta degli architetti, la città degli architetti, molti dei quali paesaggisti, a cui si chiedeva di aprire la città con un parco/cascina/percorso, ha indetto un concorso-archistar per costruire un carcere di cemento.

La cui unica evidente utilità potrebbe essere richiuderci dentro tutti quelli che l’hanno concepito, e buttare via la chiave.

 

le parole che fanno sito

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026rosti-2016-comp

Io non cambio,

non mi adeguo, non condivido, non tradisco,

non mi illudo, non rinuncio, non smetto, non mi arrendo,

non mi fermo, non prometto, non chiedo, non aspetto,

non nascondo quello che ho dentro.

025rosti-2016-comp

Quello che ho dentro,

quella forza inespressa, quella tensione che cresce, quella voce che urla,

una voglia esplosiva, uno scatto rabbioso,un mondo che brucia,

un vento di libertà, quello che ho dentro lo sento a pelle.

024rosti-2016-comp

 Lo sento a pelle,

l’animale che mi porto dentro, scalpita, suda, spinge,

sui pedali, in sella, su strada, in pista, nei boschi, in montagna,

in scalata, in gruppo, in volata, nella polvere,

in fuga da me, per tornare in me,

perchè io non cambio. ( > da capo) 

Nota: questi 3 mood/poems sono l’anima testo/immagine del nuovo sito Rosti, maglificio sportivo di qualità.

Il tema di questa lezione di web writing è come si scrivono i testi per i nuovi siti web, quelli con grandi immagini e grandi parole che, come la locandina di un film, devono dire tutto, farti sognare ed entrare in sala.

Per ottenere questo, mediamente usiamo non una, ma 3 locandine, perché il nostro cinema-sito è sempre un multisala;

questi 3 film devono dire tutto del marchio, dell’azienda, del prodotto, e il nostro compito è dargli voce, esprimere a parole, essere lo sceneggiatore del film, il paroliere della canzone;

a volte ti chiedono di partire dalle parole, poi si realizzano le immagini; altre volte, come nel caso in esempio, ricevi i 3 mood, le 3 immagini guida già fatte e la richiesta è unicamente di copy writing: head lines, subheadlines e body copy (cioè titoli, sottotitoli e brevi testi).

L’operazione, la concettualizzazione pre-creativa da fare, è: che cosa dobbiamo dire, quali sono i punti di forza del marchio/prodotto?

Nel caso in esempio, il maglificio sportivo Rosti, vogliamo dire 3 cose:

1) che è un marchio connotato da una forte passione/identità;

2) che ha sviluppato una grande qualità/tecnologia;

3) che ha raggiunto una leadership di prodotto/immagine.

Il bravo copy scriverebbe le 3 head più o meno così: la nostra identità nasce dalla passione… la nostra qualità è il risultato della tecnologia… la nostra immagine è immediatamente riconoscibile….

Tutto giusto, Rosti è uno dei marchi di punta del vero made in Italy, di qualità, fatto con passione e creatività: il nostro problema è che tutte queste parole ormai sono vuote, consumate, per l’abuso che ne hanno fatto le grandi griffe.

Il cattivo copy perciò cerca un altro linguaggio, realmente sintonizzato sui 3 mood.  Dobbiamo esprimere le 3 immagini/valori con altre parole, non razionali, ma emotive, dobbiamo dire i 3 stati d’animo costitutivi delle 3 dimensioni dell’universo Rosti:

come claim di identità/passione, scegliamo: io non cambio

come claim qualità/tecnologia, scegliamo: quello che ho dentro

come claim prodotto/immagine, scegliamo:lo sento a pelle

io non cambio / quello che ho dentro /lo sento a pelle

queste 3 head lines (che devono essere in connessione e poter funzionare random) sono sostenute da 3 body copy costituite in realtà da 33 sub-headlines, autonome e modulari (che potranno essere utilizzate in X mesi come altrettanti temi/post per il lancio social marketing di tutta la gamma).

Scrivere i testi di un sito, come si vede, significa scrivere una canzone, nel senso rinascimentale del termine, in 3 o più stanze/accordi, con meccanismi di ripresa, versi d’attacco, di chiusura, e di modulazione.

Con questa “canzone”, tagliata e intonata sul mood immagini/prodotto, il marchio potrà fare la campagna, il sito, il social marketing.

Per arrivare alla “canzone”, alla narrazione che associata alle immagini diventa l’anima del brand,  abbiamo dunque svolte 2 lavorazioni:

1 di razionalizzazione, isolando i temi/valori di comunicazione, studiando prodotto, target, mercato, parlando con l’imprenditore, mettendosi dalla parte del marchio;

2 di liberazione emozionale, ricercando&sviluppando un linguaggio/tono e una narrazione concreta, diretta, in grado di far sentire/vivere i temi/valori, mettendosi dalla parte del fruitore, dell’utilizzatore, e dunque occorre usare il prodotto, farlo proprio, pedalare. Anche il pubblicitario, come l’attore o lo scrittore deve immedesimarsi nel personaggio, nel prodotto realmente adoperato, e dunque non esitare su questo punto, farsi dare prodotti e tempo per testarli, per entrare davvero nella psiche e nella tribù del marchio;

Il caso in esempio, bisogna dire, è il tipico lavoro ideale: un marchio in ascesa, un prodotto di qualità, un’immagine aggressiva, che rompe gli schemi.

Chi avrebbe il coraggio di usare come modelliuna ragazzo e una ragazza iper-tatuati, e questo per mostrare prodotti di maglieria? Qualsiasi art o fotografo sano di mente ti direbbe: questi sono pazzi (e parliamo di Giovanni Alborghetti, ad Rosti, sia nel senso di “titolare” che di art director e designer, e di Benedetto Zonca, che cura la comunicazione, il sito, gli shoot).

E non solo i modelli sono tatuati, ma addirittura esibiscono i tatuaggi, più che la maglieria: ma è proprio questo quello che colpisce e attira. Questa compresenza di segni grafici, skin tatoo + knitwear graphic design, in realtà ti sta dicendo che il prodotto è la tua seconda pelle, è come un tatuaggio, epidermico + autentico, come le sensazioni a pelle. E così arriviamo allo slogan “lo sento a pelle”.

Allo stesso modo, il testo “io non cambio”, non solo trasgredisce la prima regola del copy writing (mai usare la parola “non” e le negazioni in genere)  ma addirittura la “ribalta” (sempre e solo negazioni).

La “sovversione” tocca e dissacra anche una delle parole-culto di questi anni, quando insieme a non cambio e non mi adeguo dice non condivido,  

che suona come una bestemmia, nell’epoca del dominio della “condivisione”.

Oggi negli uffici, nelle riunioni, in politica – dagli assessori agli educatori ai manager – è tutto un “condividere”.

Dire non condivido è un segnale di controtendenza rivolto alle nuove generazioni, indottrinate alla condivisione, ma anche un richiamo vintage alla memoria collettiva delle generazioni precedenti,  quando si proclamava l’immaginazione al potere, e nelle assemblee l’espressione “non condivido”, oggi in disuso, era una delle più usate: “non condivido la posizione della compagna del collettivo…”

Questo per dire, cari ragazzi, che la generazione oggi al  potere, ci è arrivata a forza di “non condivido”.

Allo stesso modo, un marchio che vuole connotarsi, dopo aver ascoltato tutti i dossier psico-socio-statistico-marketing relativi a prodotto, target e mercato, deve avere la forza di dire “non condivido”, e dire qualcosa di diverso, ma realmente autentico…

Ph. by www.marchesi.net ; https://www.facebook.com/giovanni.marchesi.9

vedi il sito in oggetto qui: http://www.rosti.it/new/

 

insight alla quarta birra

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Alla quarta birra, dopo tre flash-back, ho avuto un insight,

cioè una madeleine, un’epifania, un’apparizione,

è successo quando all’ultimo sorso della quarta birra, ormai innamorato perso di questa quarta birra, ho recuperato la bottiglia e guardato l’etichetta: in quel momento è apparso lo spettro di John Terrible annunciandomi: “ti sei innamorato di una birra di merda”.

Su queste parole, scattava l’insight, che in un colpo solo (dottrina della grazia divina) mi permetteva di reimpossessarmi di un trauma giovanile, superarlo, e aprirmi a nuove possibilità gustative.

Le cose sono andate così:

ieri sera, alle ore c.ca 20.00 mi recavo in località Bg-Birra, e senza badare a spese, data la mia situazione psico-emotiva, acquistavo:

una MukkaMannara Mukeller da 75cc, da Porto Sant’Elpidio –Macerata;

una Space Man Brewfist da 33cc, da Codogno –Lodi;

una My Antonia del Borgo da 33cc, da Borgorose- Rieti;

una Mein Grunes Schneider Weisse da 50cc, da Kelheim-Deutschland;

devo riportare per onore di cronaca i consigli di Fra’ Daniele, che insieme al fratello Monaco Zein tiene con scrupolo religioso il banco di mescita:

sulla MukkaMannara: capisco; sulla Space Man: ci sta; sulla My Antonia: ci vuole; sulla Mein Grunes, da me scelta solo perchè costava poco (pensando di usarla per cucinare): potrebbe essere la tua weisse.

Ignaro di quel che sarebbe accaduto, non ho dato troppa importanza a queste parole.

Rintanatomi nei miei appartamenti in spirito Dostoievskj – memorie del sottosuolo, cominciavo a scolarmi le referenze in ordine d’acquisto lasciando libero corso alla regressione neurologica:

con la MukkaMannara precipitavo in stato d’ebbrezza patetica, e di nuovo come allora (primo flash-back) mi innamoravo di Sharon Stone e rivivevo la prima volta che l’ho vista, al cinema Astra, in S.Orsola, io pubescente, lei già donna, diciannovenne, un cerbiatto, io in platea, lei sullo schermo, deuteragonista nel film fantastico Total Recall- Atto di forza, protagonista Arnold Schwarzenegger;

con la Space Man ritrovavo le amare certezze del mondo IPA e guardando l’etichetta mi risvegliavo nel fumetto l’Eternauta (secondo flash-back), anni 80-90, Skorpio e Lanciostory, capolavoro assoluto, la totale solitudine dell’uomo contemporaneo;

a quel punto ero ormai in modalità Superciuk-Alan Ford, e la terza birra “di aulità”, My Antonia, non l’ho bevuta, l’ho usata per sbaglio per fare un risotto alla birra con una cipolla, una zucchina e un pezzo di costata della Dimocar in offerta che avevo in frigo,

il risotto alla Superciuk è venuto bene, fin troppo saporito;

così m’è venuta sete, e distrattamente ho versato la Mein Grunen, la birra-merda da cucina, l’ho versata in due bicchieri, perchè in uno non ci stava, e mi sono poi perso a leggere il Deuteronomio in piedi davanti alla libreria, finché senza pensarci ho bevuto il primo sorso, e mi sono innamorato al primo sorso;

entrato in estasi, ho scolato il bicchiere, e mi ha preso un desiderio fortissimo di berne ancora,

mi ero dimenticato del secondo bicchiere, e quando dieci minuti dopo l’ho visto che mi guardava, dicendomi “bevimi”, eccomi ebbro di felicità,  invaso da una gioia infantile-superciuk;

solo dopo averla davvero finita mi sono posto il problema: che birra era?

Così ho recuperato la bottiglia, era la Weisse tedesca, industriale, rifilatami da Fra’ Daniele a un prezzo basso rispetto alle altre, le artigianali italiane luppolatissime con etichetta fichissima e prezzo da Amarone.

Ho guardato l’etichetta: un’etichetta banale, brutta, vecchia, quasi da discount, tradizionale, ma con disegnate in aggiunta delle brutte cime di luppolo, di un brutto verde.  è stato a quel punto che mi è apparso Jhon Terrible. Ti sei innamorato di una birra di merda.

Nella mia ignoranza avevo sempre considerato quel marchio anonimo (Schneider Weisse) e la tipologia in generale (Weisse) come birre di merda, da sfigati, buone giusto per innaffiare cene tirolesi.

E invece questa avversione nascondeva un trauma, un ricordo dimenticato (terzo flash-back): all’età di sedici anni, con un compagno di scuola, il mio primo viaggio in moto, in Baviera.

Una sera, a Monaco, prendiamo una sbronza colossale, ci aggiriamo la notte ubriachi in periferia in cerca di un campeggio, lo troviamo, entriamo, montiamo la tenda, dormiamo;

ci svegliano voci inquietanti, apriamo la tenda, è giorno, due SS con la divisa Polizei ci stanno fissando, e così pure la comitiva di turisti alle loro spalle: ci troviamo, noi e la tenda, nelle aiuole tra le baracche del campo di concentramento di Dachau, da noi scambiato per un campeggio-ostello.

Questo episodio tragicomico nascondeva un particolare rimosso, che era sparito dalla mia coscienza: ecco l’oggetto dell’insight, la rivelazione, l’eureka: per la prima volta ho rivisto il prima, la sbronza, quel pub di Monaco, e quella birra: la Weisse, proprio la Schneider Weisse, ci eravamo ubriacati a Weisse, nasceva da lì la mia avversione per la Weisse.

Alla fine, aveva ragione Fra’ Daniele: ho trovato (ritrovato) la mia Weisse.

Morale, anche nell’itinerario religioso verso la birra, appena credi di aver raggiunto una certa saccenza, ecco che il Signore ti umilia, aprendoti nuovi orizzonti di gioia dietro porte che avevi chiuso.