il piatto in cui mangio

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a un certo punto della tua vita sai in che piatto vuoi mangiare, in che tazza vuoi bere,

come cani, si desidera la propria ciotola, primo oggetto di benessere personale:

ricorre oggi un anno esatto da che mangio nel mio piatto, una ciotola con piatto, tazza e tazzina realizzata da un architetto che ha chiuso lo studio di architettura e ha aperto un laboratorio di ceramica;

in questo laboratorio ha ritrovato le sue origini, la sua infanzia nella terra “cotta” del Salento, e soprattutto il senso perfetto del progetto che diventa oggetto.

Quello che io ho ritrovato, invece, è il senso basilare del nutrirsi: questa ciotola ruvida, essenziale, imperfetta, con la sua tazza-bicchiere, e il piatto-vassoio, e la tazzina-bicchierino, che un essere umano, e non una macchina, ha creato per me, mi ha fatto cambiare abitudini alimentari;

da almeno dieci anni mi riproponevo di mangiare sano, potevo arrivarci prima che tutto comincia dal piatto, secondo l’unico dogma che mi è rimasto (il mezzo è il messaggio)

come molti individui randagi, nel “logorio della vita moderna” mi ero abituato a nutrirmi in modo nevrotico e anonimo, mangiando roba EsseLunga in stoviglie Ikea, ma più spesso mangiando direttamente dalle confezioni polistiroliche, bevendo dalle bottiglie, dalle lattine…

Avere una mia ciotola, la mia tazza, come da bambino, è stato il primo passo di uno stradello che mi ha portato a preparare sempre il mio pasto, una specie di rito religioso, una piccola liturgia, apparecchiare, servirmi, nutrirmi, sparecchiare, lavare, riporre, tutte operazioni che avevo perduto (usavo tutti i piatti, si accatastavano nel lavello, con grande pena nel cuore poi li dovevo lavare tutti).

Quando ho avuto il mio set, pensavo alla sua funzione estetica, di oggetti bellini, destinati a fare da portafrutta, o portamatite,

invece dopo il primo uso è diventato il mio oggetto-feticcio, transfert, traghetto verso la consapevolezza alimentare: dunque non le fidanzate bio-gas, non gli amici km0, o i soci equo solidali mi hanno portato a mangiare meglio, più sano, più slow, ma è stato il piatto in cui mangio,

è stato un architetto-vasaio (cultura vasai?) che ha messo il suo lavoro, le sue mani, il suo tempo nel cuocere la terra in forma/funzione di piatto per me.

(photo: il set Ciotoleo sul tavolo Calepio Press. Qui sotto trascrizione della conversazione con Luca Pedone un anno fa  – siamo alla slow comunication! –  all’apertura del suo laboratorio ClayLab in Pignolo)

Luca Pedone: “ho fatto il liceo artistico mille anni fa, lì ho iniziato a manipolare argilla. Poi ti ricordi di essere nato in Puglia… e ogni volta che ci vai ritrovi terracotta, piatti, piattini, forni, rimani sempre affascinato, e hai questo tarlo nella testa, come faranno a campare?

Vado avanti, Università, architettura, sia mai che uno può fare l’artista, vado in Finlandia con una borsa di studio, all’Università di Helsinki ci sono tutti i dipartimenti, interior design, fotografia,  pittura, serigrafia, scultura e c’è anche ceramica, proprio accanto a interior design, e pensavo “che bella cosa”, e spiavo dalla porta del laboratorio;

provo tutti i lab ma mi tengo a distanza da ceramica, non sarò mai in grado, troppo rispetto,

torno in Italia, mi laureo, faccio l’architetto, il grafico, i siti internet, dieci anni a impaginare cataloghi e flyer,

arriva la crisi, 2008, trovo un posto da insegnante in un Istituto privato, ma per tenere lo studio lavoravo per poter lavorare, non per vivere, chiudo, insegno dal 2008 ad oggi,

comincio a sentire il bisogno di sporcarmi le mani, cinque anni fa seguo un corso di somelier, tutti e tre i livelli, e penso che si debba cominciare dalla vigna, non so,

finalmente, per caso, per fato, due anni e mezzo fa il primo corso di ceramica raku: trovo il volantino giallo in colorificio, era per me, il raku una cottura che dovevo fare al Liceo e non avevo mai fatta, così vado, il fascino della terra su di me era vero, da allora non ho staccato la mani dalla terra,

“mani nella terra e testa tra le nuvole”, non voglio arrivare a seguire solo da pensionato la mia strada: proviamo, mi dico, a trasformare la passione in lavoro, camparci, non diventare ricchi;

dopo il corso avanzato faccio il corso base, cotture antiche, inizio ad allestire un piccolo laboratorio in casa, comprando forno, tornio, inondando la casa di polvere, terra,

poi a Firenze,  Certaldo, Varese, scuole internazionali, e capisco che è una strada percorribile, all’estero si laureano in ceramica, e ne fanno un mestiere,

in Italia siamo fermi a una tradizione, non c’è evoluzione,  nella ceramica tradizionale lo scambio non c’è, c’è chiusura, io faccio un pezzo, trovo uno smalto, e mi tengo il segreto: in Italia è così, ognuno deve cominciare da capo, farsi la sua strada, non c’è trasmissione del sapere, condivisione della ricerca,

le nuove generazioni di “creativi” pensano a fare la videoart, fotografia, performance digitali, nessuno riprende le tecniche della terra,

cerco uno spazio, lo trovo, lo metto a posto, devo inventarmi muratore, piastrellista, imbianchino,

apro il laboratorio, uno spazio microscopico, in una via del borgo storico degli artigiani e degli artisti,

oltre ai pezzi che faccio io, è uno spazio per fare corsi, imparare, insegnare, scambiare esperienza,

voglio mettere il lab a disposizione di chiunque voglia cuocersi la sua terra, come una volta i fornai”.

il manifesto artigianista

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Il “Manifesto artigianista” o “dell’artigiano indipendente” è il tema-cover de l’Osservatore Elaviano n.4, fogliettone luppolaceo fresco di stampa edito dal birrificio Elav, curato e scritto da me, Leone/Calepio Press, e disegnato dallo studio Temp.

Il  manifesto artigianista nasce da conversazioni con Antonio: la “sovversione pubblicitaria” è il tema del numero, la divinità guida del numero è il Dio degli inizi, il Giano bifronte, che qui diventa l’artiGiano bifronte – -e divinità guida e cover dei n. precedenti sono: 1) la dea madre, 2) Iside regina d’inferno, 3) Eco e Narciso – e qui il linguaggio utilizzato, sovvertito, è quello della pubblicità.

Divertiti, spazientiti, stufi di vedere grandi spot scor.. retti di vario tipo, col nonno che va in bici a prendere il luppolo, e l’altro nonno che butta il luppolo nel pentolone, si è pensato di  scherzare, fare il verso, così, secondo lo slogan “David è Goliardico”,  abbiamo giocato a esagerare, a fare 8 grandi spot elav, scegliendo come testimonial Elav i grandi personaggi storici del territorio,

Colleoni, Nullo, Paci Paciana, il Quarenghi, il Beltrami, Fra Galgario, Fra Calepio, la Monaca di Monza, personaggi assolutamente Elaviani, oltre che hollywoodiani, ognuno a suo modo,

con la pubblicazione dei ritratti “bg-bastards” in 2000 battute che da alcuni anni sto scrivendo  (alcuni già pubblicati nelle cover “bergamanent” di CTRLmagazine, altri inediti).

Ogni testimonielav, come ad esempio Francesco Nullo, è “brutalmente” associato a un valore del brand (l’indipendendenza) e a un prodotto (birra Indie). Facciamo come loro, ragioniamo da giganti, da scienziati del marketing e comunicazione.

Il poster centrale è dedicatato all’atlantelav, con tutti i pianeti e i satelliti dell’universo elav.

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Il legame con il prodotto, le birre, come sempre è di pura ispirazione (“questo testo è stato scritto bevendo questa birra”) ma qui diventa anche iper o meta-pubblicitario, in modo esibito: però la cosa assurda, esagerata, e più sovversiva, è che questo Osservatore dedicato all’auto-pubblicità, super ridondante e auto riferito, finalizzato alla mitologia del marchio, non riporta in alcuna pagina, neanche microbo, il marchio Elav!

In origine le indicazioni allo studio Temp erano esattamente opposte, mettiamo il marchio ovunque, anche nella filigrana, rendiamo il marchio assordante! Ma i geni devono aver pensato bene che il silenzio è il suono più assordante,  e facendo finta di niente mi hanno proposto un lay-out senza alcun marchio, e io facendo finta di niente  l’ho accettato, e così Antonio. Parafrasando il Croce, “non possiamo non dirci no logo”.

L’Osservatore Elaviano è reperibile gratuitamente agli eventi e nei pub Elav – a Bg: Osteria della Birra di piazza Mascheroni, città alta; o al Monastero di Astino, o alla sede del  birrificio, a Comun Nuovo.

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LeoneZoppo

Martedi 22 giugno, h20.15 

Avendo per  scenario città alta e colli, il campo di calcio Imiberg in  S.Lucia è il posto ideale per segnare un gol che per quanto mi riguarda passerà alla storia come l’ultimo gol del Belotti: cross dalla trequarti, tutti i grulli sul primo palo, io venendo da dietro arrivo solo allo stacco, è una palla alta, ma voglio schiacciarla con forza a terra, devo saltare più in alto che posso… e a quel punto il campo Imiberg, del quale io avevo sparlato nei miei post polemici su Imiberg e Formigoni company, si vendica, con la sua eccezionale elasticità… sento un rumore secco, uno schiocco di frusta, un male no word al ginocchio, penso che qualcuno mi abbia tirato un calcio diretto. In ogni caso spizzico il pallone, che finisce in rete, mentre io finisco a terra urlando.

Mi guardo la gamba. Al posto della rotula, al posto del ginocchio, c’è carne piatta, liscia, come fosse il dietro del ginocchio, come se qualcuno l’avesse appiattito con una martellata. La mia rotula destra è risalita a metà coscia, come una spallina sotto pelle. Compagni e avversari si fanno intorno, guardano, vedono, girano la testa, uno mi sembra abbia conati di vomito. Raddrizzo a mano la gamba, ormai inerte, e assume un aspetto meno impressionante.

Arriva il 118, una bella rossina mi consola nel viaggio, dai finestrini alti dell’ambulanza intuisco un tramonto infuocato.

Al pronto soccorso dopo qualche ora di attesa mi fanno le lastre, mi danno la diagnosi (mi è saltato di netto il tendine rotuleo, che sarebbe l’elastico che tiene il ginocchio, e probabilmente anche l’osso che lo tiene, è successo nel fare il salto, nel caricare per lo stacco aereo) un simpatico dottorino mi dice: esattamente quello che è successo a Ronaldo, il classico infortunio del grande campione, adesso ricoveriamo, domani non facciamo niente, giovedì ti operano, sabato sei a casa.

Io cagasotto rispondo: se domani non mi fate niente, vengo domani. Si, così perdi il letto, e devi rifare la coda al pronto soccorso. Va bene, ma adesso devo andare a casa. Prendo la scusa di un lavoro improrogabile che devo fare nella notte. Mi mette una steccatura rigida. La mia compagna mi accompagna a casa.

Mercoledì 23 giugno

Dopo aver lavorato quasi tutta la notte per mantener fede alla mia scusa, mi sveglio nel mio letto, e mi ritrovo l’amico B. in casa, tutto sorridente, che mi dice: andiamo, e mi porge due stampelle che mi ha appena comprato. Con le stampelle, percorro 40 metri, nella mia via c’è un negozio di ortopedia, e acquisto un bel tutore rigido-regolabile. Il tizio del negozio mi taglia la steccatura e mi mette il tutore.

La sera torno al pronto soccorso. Sette ore d’attesa, alla tv ci sono gli europei under 21 e il mio omonimo Belotti fa un gol fantastico (buon sangue non mente). Mi appisolo in sedia a rotelle, alle 3 di notte mi ritrovo spinto in reparto, ricoverato in camera con un centauro immobilizzato, malridotto, con madre che lo veglia, e lo sveglia, russando più di noi due maschi feriti messi insieme (ha lavorato tre decenni in fonderia! Massimo rispetto).

Giovedì 24 giugno

Luci accese, personale delle pulizie, infermiere, termometro, puntura, prelievo, pressione, pastiglia, elettrocardiogramma, rifacimento letti, giro dei medici, nuovo giro delle infermiere: sono entrato nella catena di lavorazione ospitaliera.

Un’infermiera simpaty al mio compagno di stanza: cos’hai fatto? Incidente in moto? Dovrebbero lasciarle guidare solo ai professionisti le moto!

Tra le 11 e mezzogiorno è l’ora ideale per imboscarsi, riesco a montare su una carrozzella (c’è un racket tra i 30 ricoverati e le 3 carrozzelle disponibili) e via in zona fumatori. Faccio due parole con una specie di Jessica Rabbit in vestaglia di raso e ciabattine floreal, basta un niente tra degenti e scatta la solidarietà, e quasi le lacrime. Ma io ho sempre avuto il dono (o la disgrazia) di ascoltare le persone.  La sera mi dicono: da mezzanotte digiuno, domani ti operano.

Sul telefonino (che compie 10 anni: un Nokia scarafone con ancora registrata la prima telefonata, 24 giugno 2005!) trovo 30 sms di amici, parenti, collaboratori, rispondo a tutti grazie, non rompetemi, non venite, non chiamate, vi amo, appena esco pubblico il diario.

Venerdì

Tutto il giorno a digiuno, ogni passo che senti pensi: ci siamo, sono venuti a prendermi. Alle cinque di sera mi dicono: niente, è arrivata una bambina grave in elicottero, ti operiamo domani.

Sabato

Idem come sopra, e ancora a un certo punto arriva una bambina grave in elicottero. Però, queste bambine. Lunedì ti faremo la risonanza, l’operazione martedi, forse (se non arrivano bambine).

Domenica

Turismo ospitaliero, in pausa pranzo ho ospiti alla Marianna, dopo mangiato visita alla chiesa, una specie di Mecca Bianca, mi piace molto, mi piacciono anche le opere del Ferdi FF. Fuori dalla chiesa due parole col tossico di turno che mi dice di vedere la madonna, gli offro due euro.

In zona fumatori sento una compagna di sventura, con gamba ingessata, che racconta al telefono di come il marito le abbia sparato, e abbia sparato anche ai figli, mancandoli, però distruggendo la moquette.

Lunedì

Andiamo, mi dice l’infermiera simpaty: e dove, a ballare? No, in sala operatoria. Cazzo. In sala operatoria tutti simpatici e buona musica.  Bisogna inserire anche un cerchiaggio metallico, cioè girar del fil di ferro intorno alla rotula.

Purtroppo a un certo punto perdono qualcosa nel ginocchio, bisogna sgarugare, arriva il radiologo, seguo la ricerca in diretta dallo schermo, alla fine ce la fanno, nonostante l’inconveniente mi hanno sempre dato grande fiducia e serenità, veramente un bel team. Ma la notte la pago, dolore di bestia, conto i minuti fino all’alba, quando pietosamente mi antidolorificano.

Martedì

Ok, andiamo a fare la risonanza magnetica. Ma mi hanno già operato. Ah, ti hanno già operato? Allora niente risonanza magnetica. Passo la giornata in dormiveglia, in attesa che qualcuno mi dica qualcosa.

Quando apro gli occhi mi trovo due camici verdi, due donne, belle signore 50/60, cazzo, sembrano due primari. Ci racconti tutto, mi dicono. E io parto e racconto tutto, il trauma, i sintomi, l’operazione. Stanno mute, e mi sorridono. Cosa mi dite, allora? No, noi soprattutto ascoltiamo, siamo volontarie di un’opera pia per dare conforto ai malati soli.

Mercoledì

Mi faccio in carrozzella tutta l’hospital street fino alla Marianna, la gente ti guarda ansimare, gli unici che mi danno una spinta sono un africano all’andata e un marocchino al ritorno. Gente che sa cosa vuol dire aver bisogno di una mano.

Alla Marianna non possono dare alcolici ai degenti. Mi tocca corrompere la prima bella ragazza che vedo. In zona fumatori due parole con una compagna di sventura, bella donna maratoneta 40/50, ricoverata per una frattura semplice, ma proprio nel dimettersi è volata con le stampelle sul pavimento appena tirato a cera, e ha fatto il danno grosso.

La notte non dormo, mi piazzo a leggere nella hall del reparto, sui divanetti pelle nera tipo show room, giusto  sotto il ritratto di San Matteo Rota, e gli dedico la preghiera della rotula. A mezzanotte due genitori indiani o pakistani mi raccontano del loro bimbo di 5 anni, le due gambe spezzate sotto una macchina, prometto di andarlo a trovare la mattina.

Giovedì

Il bambino paki ha un sorriso gigantesco. Più che altro è lui a tirar su di morale noialtri adulti occidentali. A mezzogiorno mi dicono: possiamo dimetterti, devi solo  parlare con la fisioterapista poi puoi andare. Il mio compagno di stanza in questi otto giorni ha fatto 3 operazioni, adesso riesce a stare sulla sedia a rotelle. Sua sorella e sua madre mitiche.

Arriva la fisioterapista e parliamo per dieci minuti del libro che ho sul comodino, lei l’ha letto e trovato molto bello. E il ginocchio? Ne parleremo alla visita di controllo. Poi mi dimettono.

La mia compagna viene a prendermi. Ho davanti due mesi immobile, tre di stampelle, un anno di riabilitazione. Ci voleva una cosa così per mettere finalmente a prova la forza di volontà. Prima di andare a casa, ci fermiamo a Bg birra a berne una molto luppolata. Cazzo, veramente buona, che cos’è? Mi dicono il nome di una birra che non mi era mai piaciuta. Le cose cambiano con le esperienze (e con le astinenze!).

(ph: il Belotti dopo 7h di pronto soccorso)

eros e tempo

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CharlotteOK

L’età non conta. Il sesso, come l’amore, non ha età.

Quando il buon Parise sostenne nel suo celebre saggio che il sesso è praticabile solo dai venti ai trent’anni, si riferiva alla ginnastica.

Qui parliamo di sesso vero, di orgasmi veri, apocalittici, di persone mortali, mosse da una concezione umanista della vita, non scimmiesca.

Le persone, i corpi delle persone, come le moto, o le case, quando sono nuove funzionano bene, ma non significano nient’alto che la propria funzione. Col tempo, con i segni del tempo, con i difetti, acquistano pregnanza, senso, carattere, umanità. Più rughe, più cicatrici, più segni sulla pelle.

Il corpo è un testo, una donna che ti guarda negli occhi mentre si sfila le mutande, quello è un libro aperto. Allora l’ansia di possesso diventa desiderio di condivisione.

Non so che farmene di una ragazzina acqua e sapone, casa e palestra. L’idea di scambiarci effusioni, kilowattora e umori circolanti non mi eccita. Io cerco la coscienza del corpo, il pudore della decadenza.

Voglio stringere decenni, non natiche sode. Voglio carezzare  seni cadenti, sudati, non mammelle rifatte, fredde, morte, da museo. Desidero entrare in altri mondi, vivere altre vite, percepire il passato altrui. Preferisco indossare camicie lise, maglie lasche, scarpe sformate, roba usata.

Non si tratta di fingere che il tempo si sia fermato, non parlo di ristrutturazioni che riportano all’antico splendore (che bestemmie ignoranti produce il nostro tempo!). Parlo del vero senso della bellezza e dell’eros, che è nel tempo incarnato, nell’edificio in rovina, nei segni profondi, che urlano d’amore, che più hanno vissuto e più bramano vita, brandelli di vita,  fotogrammi sbiaditi che valgono più di intere cineteche digitali.

In realtà la bellezza carnale, l’erotismo reale, fiorisce sul viso e nel corpo di una persona solo dopo che questa persona è consapevole di tutti i suoi anni. Gli sguardi, le parole: sto parlando del paradiso della conoscenza. L’unica zona erogena che conosco.

(dalla rubrica “Il maschio alfa” by Leone, leggi tutto su CTRL magazine. In photo: Charlotte Rampling) 

una storia ben architettata

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crespi workshop ark + photo/writing – Gamec / 19 giugno 2015 h16.00

L’architetto è interessato allo spazio architettonico come scenario di comunicazione umana;  e ha sempre bisogno di immagini, e di testi, per raccontare il “progetto”.

Un architetto sa immaginare relazioni umane nello spazio costruito (interni/esterni) deve cioè essere in grado di comporre foto-romanzi

Abbiamo a disposizione uno scenario (villaggio operaio crespi d’adda) per creare piccoli racconti testo e immagine, fotoromanzi, ideati e realizzati da coppie creative (fotografo e modello) composte da architetti.

il fotoromanzo nasce come riduzione cinematografica, versione cartacea, stampata, di scene clou di grandi film, di fatto è il film del film, il film povero, per chi non poteva permettersi il biglietto del cinema,

nella nostra testa, sia a livello di aspettativa che di ricordo, conservazione delle esperienze, degli incontri, noi ragioniamo in termini di fotoromanzo, di cinematografia compressa, noi ricordiamo o immaginiamo scene da fotoromanzo, dove un personaggio in uno spazio dice, pensa o ascolta una frase, un contenuto di comunicazione,

ricordiamo qualcuno che dice qualcosa, immaginiamo qualcuno che fa qualcosa,

il fotoromanzo è un format elementare, sintetico, chiaro, e l’unione dei due strumenti base di comunicazione, parola e immagine;

la base del fotoromanzo sono personaggi o anche uno solo che si rivolge all’altro, al lettore; questo personaggio agisce/appare in tre tagli (primo piano, mezzobusto, figura intera) e si colloca in spazi molto normali e urbani: casa, lavoro, per strada, al ristorante/bar, in auto.

il fotoromanzo è ovunque ci sia una descrizione in immagini e parole, ma la parola fotoromanzo è tabù: un servizio di moda è un fotoromanzo senza storia, i blog sono fotoromanzi senza carta,  i giornali on line sono fotoromanzi-verità,

il primo libro stampato, la cosiddetta bibbia dei poveri, testo e immagine fianco a fianco, era già un fotoromanzo; le immaginette (icone+vite dei santi) sono moduli base di fotoromanzo;

il fotoromanzo è tabù in quanto aborrito sia dai romanzieri che dai fotografi, che nel binomio temono l’impoverimento della potenza espressiva del singolo linguaggio, parola o immagine:  in realtà questo atteggiamento indica mancanza di umiltà e di sintonia con il lettore/fruitore,

il fotoromanzo è un linguaggio semplice, ma non è facile fare le cose semplici, è richiesta capacità di mediazione, incontro tra le differenze,

per superare il tabù, la paura del kitch (che spesso è una paura del pop e del proletariato)  possiamo chiamarlo photo-graphic novel, e definire come photo-writing l’attività del fotoromanziere, o meglio ancora propongo di chiamarlo psico/fotoromanzo,

lo psico fotoromanzo è quello che ci facciamo in testa prima, durante e dopo le nostre esperienze esistenziali quotidiane (al bar, per strada, parlando con qualcuno, pensando)

testo e immagine possono avere tanti rapporti quanto quelli che si possono avere tra due amanti; rifiuto, corteggiamento, conquista, sottomissione, fuga, ribaltamento, amplesso, compenetrazione, alienazione,  distacco,

lo psico fotoromanzo è sempre una storia  erotica, quale che sia il tema, con un’aspettativa, uno sviluppo, un climax e uno scioglimento, in questo percorso testo e immagine prendono senso:  una storia con una durata fisiologica minima e massima, che ricalca, compressa in scatti, lo svolgimento di un film,

a Crespi vogliamo realizzare un fotoromanzo corto, che è come un corto cinematografico,

parliamo di16 pagine, con un minimo di 8 scatti e un massimo di 32, impaginati in una gabbia molto semplice, che prevede immagini doppia pagina, a pagina intera, a mezza pagina, e ad ogni immagine una dida-testo di 100-300 battute, per un totale di 1500/3000

per questo esercizio di photo-writing prevediamo un titolo seriale:

una storia architettatagenere: psico fotoromanzo corto (16 pag, 8-32 immagini),

formato: pocket (misura della pag: A5 >15×20)

ambientazione: villaggio operaio di crespi, in funzione di location, scenografia o foto-modello spaziale/architettonico > il paesaggio/ambiente come personaggio che reagisce con il personaggio umano  > il personaggio umano: è il narratore,  questo narratore modello cammina, si ferma, guarda, indica, tocca e di fatto pensa e/o racconta una storia

taglio dell’immagine: verticale (a tutta pagina) orizzontale (a mezza pag, o doppia pagina)

lettering: solo dida al piede, no nuvolette, 100/300 caratteri, testo tot 2/3000 caratteri

qui sotto 4 format “variazioni sul villaggio”, 4 “personal village”, 1 tema libero, 1 archi-testo.

VARIAZIONI VILLAGE

1) il villaggio operaio – viaggio nell’architettura paternalista

modus: testo di critica sociale/storia dell’architettura relativo al concept “villaggio operaio” – genere docu/fotoromanzo – è il format basic, referenziale, dove il villaggio operaio rappresenta sé stesso ed è tema del racconto.

2) il villaggio turistico – racconto di una vacanza organizzata

modus: controcanto al villaggio operaio (luogo di produzione, epoca industriale) il villaggio turistico (luogo di consumo, società dello spettacolo) è il racconto di una vacanza organizzata, delle attività e dei momenti del villaggio turistico raccontati per contrasto o metafora con gli ambienti fotografati

3) il villaggio/outlet centro commerciale – cronaca di un giorno di shopping.

protagonista è la merce, ritualità dell’esperienza shopping, interpretazione dei luoghi/funzione (parcheggio outlet > cimitero villaggio;  insegne/totem adv > chiesa; area vendita > opificio; galleria commerciale > viale centrale)

4) il borgo feudale, curtense, la comunità chiusa, autosufficiente, il villaggio agricolo sostenibile, antesignano del km0 > signore, castello, chiesa, contado, racconto delle relazioni economiche e umane all’interno di un sistema feudale chiuso/gerarchico > in opposizione al villaggio globale aperto/demagogico.

PERSONAL VILLAGE

5) storia di mio nonno/a

modus: scrivere la storia del proprio nonno/a in 2/3000 battute

quindi dividere il testo in 10/30 blocchi e scattare altrettante immagini usando lo scenario Crespi come  foto-modello architettonico nel quale la persona “racconta” la storia del nonno, calata nelle ambientazioni/quinte dello scenario (chiesa > nascita/matrimonio;  scuole – infanzia/apprendimento; opificio > lavoro; case d’abitazione > famiglia; cimitero > morte, mancanza, memoria) > in alternativa, ricerca nell’archivio storico del villaggio, ricostruzione di una storia anonima o ripresa di una storia nota (es: storia del fondatore, storia dell’omicidio/suicidio di Bambina Minelli, etc)

6) il mio paese – descrizione di come era il mio paese

racconto del proprio paese d’origine, racconto topografico e sociologico, usando il villaggio operaio come scenografia simbolica, luoghi e funzioni.

7) la mia casa – ti racconto cosa significa la mia casa, un villaggio fatto di stanze, racconto d’architettura d’interni privata/contemporanea fatto in esterni d’epoca industry

8) Il mio inconscio – la mia psiche è un villaggio d’altri tempi, valori, paure, ricordi, aspettative, sogni, pulsioni ambientate negli spazi/funzioni archeo-industriali

TEMA LIBERO

9) storia libera storia libera d’amore, di vita, di viaggio, psicologica, surreale, etc: racconto breve (2/3000 battute) illustrato/pensato/letto/proiettato nel contesto Crespi

ARCHI-TESTO

10) archi-testo – scelta di un brano 2/3000 battute da un grande maestro, teorico, architetto (o collage citazioni da più autori) e sua versione/scansione foto romanzata.

(photo da  http://www.fotocommunity.it/fotografa/giovanna-s/1064469 )

 

Baleri non è ieri

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Baleri Ho conosciuto Enrico Baleri un pomeriggio d’estate dei primi anni Ottanta, nella sua cascina bianca di via dell’Allegrezza sui colli di Bergamo: allora, mi dice subito, tu vuoi scrivere, sì, bene, ascolta, Philippe ha disegnato questo tavolo che io produrrò, tu invece adesso mi scrivi un testo su questo tavolo, ti siedi a questo tavolo e scrivi un testo sul tavolo, un testo poetico a proposito del tavolo, se ti piace l’idea, e se vuoi sapere qualcosa sul tavolo chiedi a Philippe, tu lo parli il francese, no?

Il Philippe in questione era Philippe Starck quando ancora non era Philippe Starck. Io ero il direttore, fondatore e redattore unico del giornalino del liceo Bergamo bene. Avevo dieci in italiano, e sedici anni. Una ragazzina nell’intervallo mi aveva detto che suo padre, Enrico Baleri, aveva letto i miei articoli e voleva conoscermi.  Adesso avevo davanti questo re vichingo che mi diceva: dai, scrivi, fammi vedere cosa sai fare, a me serve un copywriter che scriva di design, ma non il solito copywriter, vuoi qualcosa da bere, un caffè?

Baleri fa così, ti chiama e butta lì la palla. Baleri in realtà vuole giocare. Il suo marchio è un gallo rosso, il suo slogan “mobili in festa”. Che tu sia un geometra neo-diplomato di 20 anni o un archistar mondiale di 80 anni per lui non cambia, ti tratta allo stesso modo,  butta lì la palla, e ti mette comunque in moto. Baleri vi chiederà sempre tutto e subito, e vi tratterà, anche duramente, come se voi foste dei geni creativi, e parecchi, in questo modo, lo sono diventati davvero.

Imprenditore, designer, catalizzatore, motivatore, comunicatore, affabulatore, ha fatto ricerca, cultura, impresa, business, ha creato gruppi, società, aziende, fondazioni, ha formato designer, architetti, grafici, critici, imprenditori, ha lavorato con fotografi, musicisti, artisti, intellettuali, accademici, industriali, registi, artigiani, tecnici, informatici, soprintendenti, direttori marketing, stilisti, ricercatori, teologi, chimici, vetrai, filosofi.  Ha creato oggetti, eventi, messaggi, e tutto questo sempre con qualcuno, soci, amici, nemici, grandi maestri, giovani promesse.

Chiunque sia entrato in contatto con Baleri sa che ci sono due Baleri. Uno è il Baleri bianco, giovanile e swing, socratico e affabulatore,  l’altro è il Baleri nero, asperrimo e crudele, ferale e ieratico. Il Baleri bianco lavora sull’amore che l’allievo nutre per il maestro. Il Baleri nero invece si basa sull’odio, sul desiderio che il figlio ha di uccidere il padre, il padrone, il patrigno, l’orco, il tiranno. Il risultato non cambia.

Quando Baleri è tetro, quando Baleri è gelido, in configurazione severità e rigore, è un re shakesperiano, fa davvero paura, ci sono nel mondo decine di segretarie e di designer che hanno superato le loro paure ancestrali superando la paura del Baleri nero. Quando ti ritrovi col Baleri nero in una stanza interamente bianca con i tavoli di vetro e le sedie grigie hai anche il terrore di aver sbagliato il colore delle scarpe.

Sono passati più di 30 anni dal nostro primo incontro. Ha un piede ingessato,  e lo sguardo indignato dell’Achille vulnerato. E’ successo giocando a golf, ammette. Come non pensare a MrBean che inciampa nella buca?

Baleri ti mette di buonumore anche involontariamente. C’è sempre in Baleri una riemersione del comico e del goliardico, anche in pieno registro tragico o drammatico, anche quando recita la parte del demolitore critico o dell’imprenditore furioso, c’è sotto il Baleri bianco, quello che vuole giocare con tutti, che preme e spinge, e fa scherzi.

Se guardi bene, Baleri ha sempre un piede ingessato, la pancia che gorgoglia, qualcosa di suo che non gli va giù, un problema, un’ansia, un handicap di cui lui è consapevole, e per il quale ti chiede con forza d’intervenire. In questo domandare Baleri rivela la sua umanità. Baleri chiede idee, chiede il nuovo e chiede l’eterno.  Con la forza, la caratura di queste richieste, gli è un poi gioco chiedere soldi per realizzarle.

Baleri è un uomo capace di infiammare insieme chi progetta e chi produce, soggetti che solitamente non comunicano, e riesce a fare questo perché ha una visione integrata delle due fasi, e questa visione gli viene dall’aver vissuto in ogni modo la terza fase, quella di chi vende. E dopo che il Baleri bianco ti ha fecondato, arriva il Baleri nero, quello che sa trovare i difetti, e ti costringe a rimediare, a ricreare, per passare dal progetto perfetto sulla carta al prodotto perfetto nei negozi.

Collaborazioni, incontri e scontri con Baleri a proposito di idee, progetti, diritti o soldi, sono sempre e comunque inquadrati dalla legge unica Baleri, e la legge Baleri è questa: nessuno ha rapporti sereni e continuativi con Baleri, ma tutti con Baleri hanno prima o poi innamoramenti intensi. Non si escludono separazioni brusche, né innamoramenti successivi, questo anche ripetutamente, nel tempo, come certi amori, certe attrazioni/repulsioni tecnicamente sporadiche, in realtà eterne.

(photo, al centro, Enrico Baleri) 

Toga Nera vs Mulino Bianco

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Cercasi principe del foro per fottere in modo esemplare una multinazionale con un sillogismo; il sillogismo è questo:

a)    tutti noi, signor giudice, abbiamo ben presente la normativa”sanitaria” per cui è vietata nelle scuole e negli asili la somministrazione di alimenti fatti in casa;

b)    tutti noi, signor giudice, vediamo questi spot dove il buon Banderas è testimonial di una grande multinazionale di prodotti da forno che vengono spacciati come fatti in casa, come una volta;

c)    pertanto, signor giudice, chiediamo che sia vietato somministrare nelle scuole i prodotti di suddetta marca, in quanto fatti in casa, come una volta;

in subordine, se ammessi come non veritieri, che sia vietata la trasmissione di suddetti spot.

Al signor Banderas, che nella dichiarazione finale testimonia che la sua merendina è sempre soffice, ribatteremo: dura lex, sed lex!

multas per gentes

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Catullo

sembra il nome del gestionale dei vigili urbani, tot multe per tot gente,

invece è l’attacco struggente del grande lirico, modernissimo, come dicesse ho viaggiato attraverso persone, e popoli, multas per gentes, ma nullla, nessuno mi consola della tua morte, parliamo di Catullo, ripreso dal Foscolo (in morte del fratello),

me ne sto a prendere il sole alla villa di Catullo, Sirmione, in foto, immagino triremi romane sul Garda, e penso alle multe che danno a Bergamo, multas per gentes,

in ogni bar di Bergamo ho un informatore, le notizie sono da romanzo dell’assurdo, paradossali, mi segnalano  un bar che ha preso una multa da 1000 euro perché aveva la porta aperta (un bar con la porta aperta!);

mi segnalano un locale col permesso di fare musica sino alle h23.00, che ha ricevuto una multa alle h23.04;

la lista è lunghissima, nella gran parte si tratta di locali multati per schiamazzi, tu multi il bar perché uno fuori dal bar parla a voce troppo alta: sarebbe come multare le scuole perché fuori dalle scuole c’è gente ignorante, non finiresti più! Ti metti in via Angelo Mai e fai 2000 multe all’ora, multas per gentes…

Mi segnalano che il comune di Bergamo vuole raddoppiare gli introiti dalle multas per gentes, da 5 a 9 milioni l’anno,

quello che ti fa incazzare di queste multe è che stiamo ancora pagando come cittadini il parcheggio mai realizzato alla Fara, tu dimmi se pagheresti un disastro incompiuto, dovrebbe pagare chi ha fatto il disastro, no? Paghiamo noi cittadini, con i parchimetri, e quindi con le multe.

Un amico calabrese mi prende per il culo. Bergamo è la città con la più alta percentuale di multe pagate. Oltre il 90%. Reggio Calabria l’esatto contrario!

Sai questo cosa vuol dire? mi chiede l’amico. Facile. Perché paghi la multa? Perché non la paghi? A Reggio il 90% della gente è nella condizione del cane morto. A Bergamo solo il 10%. Il cane morto è un soggetto senza reddito, o senza proprietà, o indebitato a vita, o tutte e tre le cose insieme.

L’altra cosa che ti fa incazzare è che ti danno le multe come se fossero dei ladri, loro, i vigili, al volo te le danno. Io preferisco i vigili che vigilano entrando nei bar, bevendo anche loro, parlando con i baristi, con gli avventori, come il mitico vigile di città alta, con la sua azione vigila molto meglio dei vigili che fanno multe di rapina.

Ma adesso una sentenza che farà epoca ha dato ragione al senso comune, il bar non è responsabile degli schiamazzi fatti da gente fuori dal bar.

Intanto ricevo una telefonata, un’amica, bergamasca, donna bellissima, mi parla della sua situazione, è sola, ha un figlio di tre anni, il tizio è sparito, lei ha perso il lavoro, ha un gigantesco problema di salute, le hanno riconosciuto l’invalidità, non ha di che vivere, i servizi sociali del nostro Comune, della ricca Bergamo multas record, a questa invalida giovane madre sola bergamasca, hanno riconosciuto un assegno di sostegno di duecento ero: duecento euro l’anno!

La signora dei servizi sociali le ha detto testualmente: mi vergogno, ma è tutto quello che sono riuscita a farle avere.

Duecento euro. Una multa. Una madre invalida, senza reddito, e suo figlio, valgono come una multa per schiamazzi, un parcheggio sul marciapiede.

Allora io pagherei più volentieri la multa se sulla multa ci fosse scritto – non solo scritto! – questo multa serve a sostenere cittadini bisognosi: schiamazzi ai bambini poveri, guida in stato di ebbrezza agli invalidi,  divieti di sosta ai senza casa, et coetera, tutto documentato dal gestionale multas per gentes, grazie cittadino, con la tua multa abbiamo aiutato la tua concittadina in stato di bisogno.

(imago: Sirmione, villa di Catullo, multas per gentes)

 

Ricuperati credits

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GiovannaRicuperatiGiovanna Ricuperati parlerà oggi all’Assemblea di Confindustria Bergamo della strategia RISE (Renaissance of Industry for a Sustainable Europe). Qui sotto, il ritratto “prima impressione” da me scritto un anno fa, dopo averla conosciuta.

Il sorriso di una contadina di cuore lieto, proprio quello, è la chiave del suo successo, e ti parlo di una donna di potere, che ha un sorriso d’altri tempi, pudico e solare, che risulta così nuovo, e invece è probabilmente genetico, è il sorriso di sua nonna, che sarà stata davvero una contadina, capisci,

quel sorriso che la nonna portava nei campi, o in fabbrica, lei lo sfoggia nell’Italia postindustriale, nell’epoca del made in Italy: con quel sorriso ce la immaginiamo adolescente acqua e sapone, la vediamo ventenne ad Harvard con il golfino giallo Benetton, poi in azienda con il tailleur d’ordinanza, magari Marras, e oggi in Confindustria ingioiellata Tiffany, e sempre l’effetto di questo sorriso supera gli status,

sono Benetton, Marras e Tiffany a prendere valore da lei, da quel sorriso, non il contrario, capisci, oggi il massimo valore culturale aggiunto, il più ricercato, è il sorriso dell’ignoranza perduta,

è un sorriso che rintracciamo sui volti di donne d’altra etnia, donne del sud del mondo, mentre portano l’acqua, la vita, e ci piace, ci conquista, ci ricorda quello delle nostre nonne, ci dice carattere, e anima, freschezza, e fierezza; e di fatto è un sorriso elementare, spontaneo come fiori di campo,

capisci, con quel sorriso, la nostra donna potrebbe anche essere una grande attrice, sempre che non stia già recitando, e vorrebbe dire che è davvero brava.

(Imago: Giovanna Ricuperati. Photo by Ezio Manciucca)

 

10 piccoli interventi per Bergamo

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BGaltaNorthSided

(pagina di appunti ritrovata dalla donna delle pulizie nei corridoi di Palazzo Frizzoni, si invita il consigliere o l’assessore che l’avesse perduta a reclamarne la paternità)

Egregi colleghi, ecco la lista dei 10 piccoli interventi per Bergamo da realizzare con minima spesa e massima resa per fare più bella e accessibile la ns. città:

1)    Bg automobile, appena arrivi a Bergamo dall’autostrada, il brutto traliccio nero dell’orologio, questione annosa, cosa ci vuole per toglierlo? Anche lo sponsor si è tolto, dalla vergogna. Monito alla dismissione dell’inquinamento pubblicitario (pannelli, totem, etc)

2)    Bg automobile, soluzione del pastrocchio viabilistico autostrada/asse interurbano con l’apertura di una nuova uscita autostradale Bergamo Bassa (aeroporto, oriocenter, stadio, valli) mentre l’attuale rimarrebbe come uscita Bergamo Alta (ospedale, città alta, colli)

3)    Bg ciclabile, portiamo le Bigi pubbliche in città alta, sulle mura e sui colli.

4)    Bg ciclabile, dalla stazione di Bergamo la ciclabile della Val Seriana dista duecento inaccessibili metri: sfido chiunque non conosca la città a trovare l’inizio della pista in via David, eppure nell’area ex magazzini generali non manca certo lo spazio per completare la connessione. Questo è solo l’esempio di molti tratti di ciclabili non connesse tra di loro.

5)    Bg pedonale, sistemiamo definitivamente il Sentierone per le manifestazioni fieristiche: attualmente brutti tendoni di plastica o brutte bancarelle-bungalow: invece, pensiamo a come utilizzare, ampliare, estendere, proteggere, rendere funzionale il sistema dei portici piacentiniani, portici in realtà mai usati per quello che sono: è sotto i portici che si crea la vita di una città, guardiamo altre città, pensiamo a bancarelle sotto i portici, a tende che coprano i marciapiedi, in modo da rendere sensato il sistema piacentiniano, o altrimenti abbattiamolo!  Ma evitiamo i tendoni di plastica che trasformano il Sentierone in un “non luogo” qualsiasi.

6)    Bg pedonale, connettiamo l’area musei-gallerie d’arte Carrara-Gamec con il Sentierone, realizzando con interventi minimali il “passante verde” ciclo-pedonale: dal cortile Gamec ingresso diretto al parco Suardi (un cancello da aprire!) dal Parco Suardi alla Monte Lungo (un sovrappasso pedonale) e da questa attraverso i Parchi Marenzi e Caprotti siamo in Via Tasso-Sentierone-Piazza Pontida.

7)    Bg alta, le Mura Venete: imprescindibile  realizzare, cioè aprire, l’anello pedonale completo ai piedi delle mura. Attualmente il percorso sul versante nord c’è già, c’è sempre stato (anche se pochissime persone l’hanno mai percorso (da Colle Aperto giù dal colle fino a porta S.Lorenzo,  e seguendo le mura fino a sotto lo spalto di S.Agostino) mentre sul versante che affaccia a meridione, si tratta di aprire un percorso tra le porte S.Agostino e S.Giacomo (dove inizia via Tre Armi che riporta a Colle Aperto)

8)    Bg alta, la Rocca: aprire l’anello pedonale super-panoramico circum-rocca, un sentiero che corre ai piedi Rocca,  sopra il parco Moroni e l’ex Parco Faunistico (da quanti anni in abbandono dopo la frana/scandalo del maledetto Locatelli parking? Già ormai l’area è diventata un vero e proprio terzo paesaggio) con accessi dalla Fara, dal Pozzo Bianco, da via delle Rocca e dal convento di San Francesco (scaletta del condannato, accesso diretto Mercato Fieno-Rocca)

9)    Bg alta, eco-logistica della consegna merci: oggi le vie medievali e piazza Vecchia sono occupate da grossi furgoni (spesso diesel!)  che squalificano l’aria, lo spazio e l’esperienza “città d’arte”. Definiamo un’area d’interscambio logistica e logica (es. zona Baioni, o vecchio Ospedale) dove tutte le consegne per città alta siano raccolte da una flotta di veicoli ad hoc, piccoli, elettrici, non inquinanti, non invadenti, che siano vettori di qualità urbana, e non deturpatori del centro storico.

10) Bg alta, Seminario, apertura al pubblico passaggio dell’area nevralgica del Seminario, il colle di S.Giovanni: due cancelli da aprire, e via Arena si connette a Colle Aperto e Piazza Mascheroni, creando la possibilità di percorsi (oggi limitati alla Corsarola avanti e indietro) e migliorando la vivibilità della città.

Imago: Bergamo Alta vista da Nord, con sentiero e parco sotto le mura.