Sulla pazzia a Bergamo, dopo aver perso in due mesi i genitori, la figlia, il figlio e la moglie, senti cosa scrive quest’uomo al fratello: per chi lavoro, per chi vivo adesso? Quest’uomo è Donizetti. Dopo vent’anni di lavoro frenetico, a cottimo, di trasferte, di solitudine, quest’uomo ha appena raggiunto tutta la felicità da sempre sognata, il successo, l’agiatezza, la fine dei debiti, l’affetto dei genitori, il grande amore, la gioia della paternità, e in un attimo perde tutto. Ha scritto migliaia di versi tragici, centinaia di arie strazianti, decine di opere liriche ma nel momento in cui si ritrova sul palcoscenico della vita si esprime come un qualsiasi lavoratore bergamasco, con poche semplici parole che pesano come pietre: per chi lavoro, per chi vivo adesso? Non c’è da stupirsi se dopo aver perso tutti, tutti gli affetti, perda anche la testa. Anche un genio come Donizetti può perdere la ragione una volta che gli si è spezzato il cuore. Donizetti evidentemente oltre ad essere un genio è anche un essere umano, cosa che non si può dire di tutti i geni. […] E così un pomeriggio a Parigi comincia letteralmente a “dare i numeri”, nel corso di una sessione di prove, con sbalzi di umore, momenti d’ira, di tetraggine, di aggressività, lui che è sempre stato estremamente affabile e cordiale, con momenti di confusione conditi di sproloqui, frasi insensate e parole balbettate, lui che è sempre stato così lucido e chiaro nel parlare. Lo rinchiudono in manicomio, finché il fratello riesce a riportarlo a Bergamo, a morire in pace, nella sua terra. […] E qui comincia la pazzia di Bergamo. Seguimi. […] Passano cinquant’anni. Finalmente a cinquant’anni dalla morte, e nel centesimo della nascita, il grande maestro viene riconosciuto e onorato dalla sua città, che dunque gli dedica il teatro, non il teatro “gioiello” di Bergamo alta, ma il vecchio teatro popolare di città bassa, già teatro Riccardi, già teatro Bolognesi. Immagina di essere nel 1897, è la serata d’inaugurazione del nuovo Teatro Donizetti, tutta la città è presente, una serata che si preannuncia storica. L’edificio viene impaginato a nuovo, con la facciata completamente rifatta, in modo da renderlo “importante”, come si dice oggi, e immediatamente riconoscibile, con i titoli delle opere più celebri incisi sotto i finestroni. E grandi lavori di decorazione degli interni, il foyer e i palchi arricchiti di stucchi, dorature, nastri, festoni e putti; la sala interamente affrescata e dotata di un grande orologio scenografico incastonato al centro dell’arcoscenico. Un intervento totale, che riguarda non solo l’edificio, ma anche lo spazio intorno. Lo spiazzo adiacente al teatro, da sempre adibito a mercato del bestiame, diventa un luogo romantico, un giardinetto romantico con al centro un laghetto romantico che circonda un isolotto romantico. Sull’isolotto si erge un grande basamento di marmo bianco, un palco-privée monumentale per le grandi statue della musa Melopea, ispiratrice della musica, e del nostro, il maestro Gaetano Donizetti. Ti sto parlando del monumento che io ho guardato tutti i giorni per ore intere, dalla mia panchina, un monumento che al di là di Donizetti e della sua musa rappresenta la situazione nella quale ogni creativo si è trovato e si identifica, un uomo e una donna, o comunque due persone, la cosiddetta coppia creativa. C’è sempre una coppia creativa all’origine di un progetto, di un’impresa. C’è il padre del progetto, solitamente il committente, l’imprenditore, il costruttore, e c’è la madre del progetto, l’architetto, il designer, il creativo. Il seme di uno, la pancia di un altro. C’è la musa che dà l’input, l’ispirazione, la storia, e c’è Donizetti che dà l’output, la musica, l’opera. Ogni volta che guardo questo monumento, questa scena d’intimità e di fecondità, dove lei balla per lui e lui scrive per lei, io penso alla Favorita, al quarto atto della Favorita, scritto dal nostro nel corso di una notte, di getto, per così dire. Ed ora, in questa notte del 1897 che si preannuncia storica, dopo aver ammirato il nuovo monumento e la nuova facciata, entriamo in teatro e prepariamoci a vedere la Favorita, non poteva che essere la Favorita l’opera scelta per la serata di inaugurazione del teatro. Dovrà essere il momento culminante di una serie di celebrazioni di tributo. Prima la traslazione delle spoglie mortali dall’anonima tomba del piccolo cimitero di Valtesse al cenotafio monumentale nella Basilica di Santa Maria Maggiore, nel cuore di Bergamo alta. Poi la festa d’inaugurazione della piazza/giardino con il grande monumento. Ed ora la messa in scena della Favorita. Ci siamo. Il grande Toscanini è stato chiamato a dirigere. Il pubblico è in fremente attesa. Il momento del ritorno, della rivincita. Lo spirito inquieto di Donizetti aleggia in sala. L’ora è giunta. Ma il sipario resta chiuso. Il pubblico inizia a rumoreggiare. Si presenta il direttore del teatro annunciando nervosamente che a causa di un’improvvisa indisposizione del maestro Toscanini l’opera sarà diretta dal maestro Pinco Pallino. La platea, i palchi, i loggioni, tutto il teatro ammutolisce. Sconcerto assoluto. Poi un brusìo crescente. In pochi istanti, come un incendio, la verità corre di bocca in bocca. Toscanini si è rifiutato di dirigere. Per rispetto a Donizetti, che pure non ha mai amato. Per rispetto della musica. Nel corso delle prove Toscanini si è irritato sempre più. Alla fine è esploso e ha dato forfait rigettando il suo appannaggio in faccia agli organizzatori per la “inconcepibile mediocrità” dei cantanti e degli orchestrali ingaggiati nell’occasione. La sala esplode. Subissato di fischi, il direttore si ritira. Dai loggioni volano insulti e oggetti di ogni tipo. Le persone in platea abbandonano i loro posti. La rappresentazione è annullata. Un fallimento imperdonabile. Donizetti si sveglia nella tomba, il suo fantasma si aggira sconsolato, senza pace. Doveva essere una serata di festa, di gioia, ma così non è stato. Un destino beffardo, una maledizione crudele sembra perseguitare Donizetti in questo teatro, in questa sala dove Donizetti da vivo è stato invitato una sola volta, per la messa in scena de “L’esule”. Ti sembra un caso? Questa è la sala e il pubblico che hanno acclamato il suo grande predecessore e denigratore, Vincenzo Bellini, che non perdeva occasione per manifestare il suo disprezzo per Donizetti, invidiandogli il successo internazionale. Questa sala e questo pubblico hanno decretato il trionfo della Norma, che alla Scala era stato un fiasco, e riservato a Bellini, presente in sala, un’ovazione inaudita. Allo stesso modo questa sala e questo pubblico hanno osannato Verdi, l’emergente Verdi, e sancito l’affermazione di Verdi come successore di Donizetti, capace di un più alto livello non solo musicale, ma anche etico-morale, in contrapposizione a Donizetti. Capisci? Questa sala e questo pubblico hanno sempre avuto grande rilevanza nella storia dell’opera lirica, questo è uno dei primi grandi teatri all’italiana, qui hanno allestito le loro prime tutti i grandi maestri, ma non Donizetti, che ha dovuto andare a Napoli, a Parigi per essere acclamato, e alla fine, dei quattro grandi, è stato quello che ha avuto più successo in vita, ma non nella sua città. Donizetti non ha mai avuto il piacere di lanciare una prima di successo nel teatro della sua città, come ad esempio è capitato a Rossini nella sua Pesaro. E quando finalmente hanno deciso di dargli questo tributo, cinquant’anni dopo la morte, hanno chiamato cantanti indegni per la sua Favorita. Non hanno badato a spese nei lavori di facciata, di decorazione, non hanno lesinato in dorature e passamanerie, ma hanno imperdonabilmente trascurato l’aspetto artistico, musicale, la qualità esecutiva della messa in scena. Come trovare pace? E non ti ho detto tutto. Dopo aver perso la testa in vita, Donizetti, in quel terribile 1897, la perde anche da morto. Le sue spoglie mortali sono state traslate in Santa Maria Maggiore, è vero: ma la sua testa, il cranio, è sparito. Qualcuno l’ha rubato, forse pensando di ricavarne il genio, come già successo al divino Mozart. E non è finita. Apri gli occhi, osserva con me, dalla mia panchina, il monumento che immortala Donizetti ispirato dalla musa nell’atto creativo. C’è qualcosa che devi sapere. Lo scultore che l’ha realizzato si chiama Francesco Jerace. Jerace in realtà aveva concepito e realizzato l’opera per la città di Catania, come monumento al catanese Vincenzo Bellini, il grande invidioso, il grande denigratore di Donizetti, ma ad opera finita erano sorti problemi, a Catania non intendevano pagare la cifra richiesta e così Jerace, avendo saputo che a Bergamo si era deciso di celebrare Donizetti, pensò bene di proporlo a Bergamo così com’era, limitandosi a sostituire la testa di Bellini con quella di Donizetti. Povero Gaetano. Sepolto senza la testa, immortalato nel corpo di un altro, e il suo teatro inaugurato tra i fischi e gli insulti. Capisci? Donizetti è partito povero, ed è tornato pazzo. Bergamo è rimasta meschina. Donizetti ha vissuto d’amore, è diventato pazzo per il dolore, è morto per il dolore, questa è la grande verità che la sua città avrebbe dovuto gridare al mondo, e invece Bergamo sottovoce come una serva, come una beghina ripete dicendo e non dicendo, sempre e soltanto alludendo a quella cosa lì: ma quella cosa lì è l’origine del mondo, è la vita! […] Sei mai stato al Donizetti, o in un teatro all’italiana? Hai mai assistito a un’opera lirica? La verità è che a teatro sei scomodo, non si vede molto bene e ti annoi. Non capisci i dialoghi, non riesci a seguire lo sviluppo della vicenda. Troppe voci, troppi gesti, troppi colori, troppa musica, troppo di tutto. Poi l’azione si spegne, l’orchestra tace, le luci si abbassano e sul palco resta una sola figura, immobile, raccolta. La protagonista, la primadonna. Ora canterà un’aria, la vicenda si ferma, è il momento dell’azione interiore, del sentimento. Come da lontano, percepisci una vibrazione. Una nota, un sospiro, un sussurro che diventa una melodia, un canto. Ti entra nella pelle, ti accende, ti scuote. Improvvisamente capisci tutto, senti tutto, tremi, hai le lacrime agli occhi. Sai che è finzione, sono attori, scene, costumi e vicende inverosimili. Ma i sentimenti e le passioni sono veri, ti toccano, è la tua vita che risuona in questo spazio. Ecco la magia dell’opera. […] Uscendo dal teatro Donizetti, ti ritrovi in un grande spazio scenico, il Sentierone, un palcoscenico che in una cornice di portici racchiude la Bergamo Moderna, la city, le banche, il tribunale, i tavolini dei caffè, le vetrine dei negozi. Se alzi gli occhi oltre la scena, vedrai un fondale fantastico, il profilo di Città Alta, con i palazzi, i campanili, le torri che svettano sulle mura venete. Tra i portici-scenografia del Sentierone e le quinte-fondale delle Mura Venete va in scena un altro genere di spettacolo, il reality della vita moderna, il via-vai Bergamo Alta-Bergamo Bassa. Capisci? Quando esci dall’edificio-teatro ti ritrovi nella città-teatro. E rileggi l’identità e la fisionomia urbana: la città stessa è un super-teatro fuori scala, in dimensione urbanistica. Sono passati più di cent’anni, la città alta ha cambiato carattere, la città bassa ha cambiato immagine, l’opera lirica ha cambiato funzione. Potrei raccontarti molte altre storie traumatiche, a proposito di questo teatro e di questo spazio. Non c’è solo lo spirito di Donizetti da placare, sul Sentierone. E penso alla follia di Santa Grata che si aggira con in grembo la testa di Sant’Alessandro grondante sangue, perché è così che nasce il Sentierone. E sento le grida che arrivano da via Torquato Tasso, col furioso che da secoli chiede: perché avete voluto infilare la mia statua sotto il Palazzo delle Ragione, vi sembra spiritoso? E sento la voce del Colleoni, dalla roggia che passa qui sotto, da lui realizzata: io volevo farlo abbattere, ma non ho fatto in tempo. Si, il vecchio Bart voleva far abbattere il Palazzo della Ragione per offrire più visibilità ai suoi Collioni, alla sua cappella e sfondare, dare prospettiva nuova alla piazza, profondità, un’unica piazza dalla Mai alla Mia, dalla biblioteca alla basilica, e invece la piazza è rimasta com’era, asfittica, con la Ragione in mezzo ai Collioni, però è stata ribattezzata, e astutamente, prima si chiamava piazza nuova, dopo è diventata piazza vecchia. Capisci? […] Per chi lavoro, per chi vivo adesso? Da vent’anni passo le notti con gli antichi maestri, palpeggiando vecchi tomi che vanno a pezzi, in polvere. Sulla pazzia a Bergamo sono al settimo volume. Per l’ottava volta nel corso della sua storia il Donizetti sarà rifatto e inaugurato a nuovo. Il genius-loci ha i nervi a fior di pelle.
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se vuoi capire qualcuno, metti le sue scarpe
Se vuoi capire qualcuno, devi camminare nelle sue scarpe, dice un proverbio indiano. Così, per capire le donne – ed essendo il mio compleanno, ed essendo ubriaco – ho messo io il bel sandalo scollato tacco dodici. E ho capito un paio di cose.
La prima, subito: sui tacchi non puoi startene accasciato, insaccato, essere un’ameba, essere invisibile. Devi per forza di cose (di tacchi) stare sempre in erezione, polpacci e cosce in tiro, schiena dritta, spalle alte, testa alta. Camminare è impegnativo, ma ti viene più facile parlare con gente che non conosci, e anche ballare.
La seconda, a fine serata, forse più importante: ho capito che quando tu donna cominci a fare i capricci, e diventi intrattabile, e mi guardi come uno sfigato perché non ho parcheggiato davanti al locale, in realtà, non è perché sei una stronza, ma è perché ti fanno male, malissimo, i piedi.
Amore per le istituzioni
(Discorsi a margine di un evento sportivo, qui sopra Leone e Giovanni, photo by Francesca Musarò)
“Apri un nuovo pannello, salva con altro nome, aggiungi ai contatti, invita…”
“Sembrano utilities, funzioni, strumenti, e invece è la nostra vita, il nostro essere persone in un mondo che in ogni istante, ad ogni schermata, ci chiede di cambiare mentalità, valori e sentimenti”.
“Solo alla fine della giornata, al cesso, ci rendiamo conto di essere periferiche biologiche dei motori di ricerca, così come l’operaio nostro padre era il terminale umano della catena di montaggio. Ma la sua era un’alienazione fisica, meccanica. La nostra è un’alienazione permanente, psicologica, 24h, 365 gg/anno. Riavvia il programma, cambia canale, profilo, lavoro, vita”.
“In questo panorama ipercinetico, avere un punto fermo è diventato il bisogno più grande. L’hanno capito anche i giganti del mercato, l’inversione di tendenza è cominciata, e Fiorello da alcuni mesi ripete lo slogan “Io non cambio” per una grande compagnia telefonica”.
Questo slogan, “Io non cambio”, è stato ripreso – ma diciamo pure copiato – dal sito/manifesto del maglificio sportivo Rosti. La filosofia “io non cambio / quello che ho dentro / lo sento a pelle” non nasce come progetto commerciale, ma come espressione autentica del carattere radicale, dello spirito antagonista che anima le ragazze e i ragazzi di questo laboratorio artigianale-hi tech. Perché quello che i grandi brand si sforzano di ottenere con grandi mezzi, e cioè la coesione, lo spirito di gruppo internamente, ed esternamente la fedeltà, l’amore dei clienti, queste piccole imprese creative (ma visceralmente creative) ce l’hanno nel sangue, gli viene naturale, sono fatti così, e piacciono così.
Sabato scorso (10 giugno) all’interno del villaggio operaio di Crespi d’Adda, si è corsa la prima edizione della Trambai Rosti, gara per bici e gente fixed, cioè con biciclette a scatto fisso, senza cambio, e senza freni.
Dai paddock osservavo queste tribù riunite di bergamo-bresciani fluviali (con il maglificio Rosti c’erano gli amici del birrificio Balanders’, dell’abbigliamento Prestorik, ed altri). Una specie di nazione indie, unita e distinta (e distinguibile) dalle diverse “fissazioni”: punk-tatoo, neo barbudos, bio-vegan, sport-fixed, grunge-metal, peace&love, new canapa, hop addicted, web nerd, e anche common people consapevole, out of fashion. E pensavo: questo consorzio umano apparentemente svagato, residuale, disimpegnato, è in realtà un panel sociale di nuova tendenza, la nazione indie. Persone che non frequentano i centri commerciali, non acquistano prodotti delle multinazionali, non seguono le mode, ma sono attenzionati dai guru della comunicazione, perché detengono la merce vera, l’energia vitale, interessi e passioni vere, e gusti propri, definiti, radicati.
E dunque: marchi indipendenti di artigiani creativi, un evento sportivo underground, una location proto-industriale (Crespi è un caso perfetto di villaggio operaio fine Ottocento rimasto esattamente così com’era, per questo è sito Unesco-patrimonio dell’umanità) ma soprattutto un clima sociale freedoom&sharing.
Benedetto, del maglificio Rosti, mi indica i big: Luis Porto, arrivato in mattinata dal Brasile; Mark Ryan, dalla Nuova Zelanda – gente che da cinque anni pratica questo genere di gare; poi due ex professionisti della Androni giocattoli, Ratto e Chicchi. Con la divisa Rosti, Luca Salvadeo, un over 55 reduce da un brutto infortunio, capace di arrivare settimo alla Milano-Sanremo in sella a una fixed (e mi mostra un video dove lo vedi alzare i piedi dai pedali, in un discesone).
La prima gara è quella riservata al pedale vintage, con biciclette e tenute inizio Novecento, sembrano usciti da un film muto, con braghe alla zuava e baffoni a manubrio.
Il mio ufficio stampa è una panca a distanza di braccio dalle spine Balanders’. Ascolto chiunque abbia una fissazione da raccontare.
Matteo è l’editore di CTRL magazine: “La mia fissazione, fin dall’asilo nido, è prendere il volo. Volevo volare, essere un uccello. Mi sentivo in gabbia. Poi un giorno sono uscito dal guscio, ho preso il volo… è stato allora che ho cominciato a darmi delle arie”.
Valeria è il sindaco di Capriate, S.Gervasio e Crespi (una di quelle unificazioni amministrative che risalgono ai tempi del duce), le chiedo qual è la sua idea fissa. Mi dice: “Come sindaco la mia fissazione è una piazza che riunisca le tre comunità. Una scommessa urbanistica, e sociale, perché se a Capriate vogliono una cosa, a S. Gervasio vogliono il contrario, e a Crespi hanno le loro idee… La piazza avrebbe il senso di un’armonia, il superamento dei campanilismi, non so quando la faremo, perché questa piazza deve sorgere prima di tutto nell’anima dei cittadini, è a questo che lavoriamo”.
“Volevo andare al mare, ma l’altro giorno avevo la prima unione civile, non potevo non esserci, adesso sono in viaggio di nozze a Cuba, mi mandano le foto delle spiagge bianche con scritto “un bacio grande dai tuoi sposini”. Quando li ho sposati ho citato Topler: “Il cambiamento non è soltanto necessario alla vita, è la vita”
Le dico: scusa sindaco, ma stiamo andando fuori tema. Ridendo, mi dice: “Io non cambio, devono prendermi così, sono fatta così!”.
Alfredo è l’assessore alla mobilità e all’ordine pubblico: “La mia fissazione più forte è avere in macchina almeno 20 cd per ogni stato d’animo, per ogni tipo di strada, perché io giro molto in macchina, e la musica mi accompagna da sempre, sono un divoratore di musica, e compro ancora i cd, devo avere qualcosa come 3000 cd”.
“Qui da ragazzo avevamo fatto un centro sociale, si chiamava Fratelli Marx, qui hanno suonato gruppi poi diventati famosi, Africa Unite, Sud Sound System, Casino Royale”
“Io vengo da una gioventù fatta di radio libere, ti parlo di West Radio, facevo una trasmissione di musica italiana, ritmo tribale; ma prima ancora Radio Isola, a Bottanuco, il segnale arrivava si e no a 6 chilometri… Il programma si chiamava “My way”, e la sigla era la versione di Sid Viciuos…”
Gli chiedo quanti anni ha, parliamo da cinque minuti e mi sembra di conoscerlo da sempre, come fosse un mio ex compagno di classe.
“Sono del 1966, cresciuto nel post punk, Clash, Talking Heads, The Cure, i Police. Primi anni Ottanta, andavamo al Plastic a Milano, non potevi andare vestito normale, io non avevo i soldi per vestirmi da punkettone… ricordo una sera, mi infilo i mutandoni di mio papà del lavoro, la maglia di lana a maniche lunghe, e gli anfibi: e mi hanno fatto entrare”.
“Ma la mia vera fissazione è andare, partire, vedere il mondo, una voglia di conoscere il mondo che i ragazzi di oggi non hanno, perché se lo trovano sul telefonino”.
“Sono appena stato in Serbia per lavoro, in Voivdina, gente stupenda, una cosa profonda, rapporti umani, vita vera, mi veniva di piangere”.
Siamo al tramonto, è il momento della finale, venti giri partendo con l’ultima luce, e arrivo al buio. Davanti ai concorrenti, fa da moto-apripista Maurizio, sparato con una Vespa che deve averne viste. Vince Chicchi con distacco, e doppiando parecchi concorrenti.
Magari un giorno questa gara diventerà un must, sarà sponsorizzata dalla Heineken, trasmessa su Sky, e ci vorrà il pass. Ma ieri, alla prima edizione, organizzata friendly e in beneficenza, con l’altoparlante che diceva “manifestazione organizzata dal barrificio Rosti”, sembrava davvero di essere in un paese libero.
Alla fine quello che conta è il clima sociale. Mentre parlavo con l’assessore blues, ci fanno vedere la foto di me con il sindaco rock. Per la prima volta nella mia vita, provo amore per le istituzioni.
santa maria sedativa
Ieri sul Sentierone al Festival dell’Ambiente di Bergamo acquistata marijuana light (thc < 3) in libera vendita. 17 euro in promozione, 5 grammi, cartine in omaggio. Buona. Il commerciante mi dice: per il suo contenuto inferiore al limite di legge, è perfettamente legale, tuttavia potrebbero sequestrarla per esaminarla. Quindi?
Meglio evitare, se siete persone riservate, di andare in giro a fumarla vistosamente, perché l’aroma è quello. Nei primi tempi ci saranno dei controlli, ma possiamo abbastanza realisticamente prevedere che nel giro di x mesi/anni, tutti fumeranno tutto ovunque.
ti piace studiare?
dieci giri veloci e a casa
Ieri sera, dopo tre ore in un’aula del km rosso a sentir parlare esperti marketing sul tema della creazione del valore, mi ritrovo sparato in A4, direzione Milano, in un bolide rosso.
“Dove ti porto adesso vedi lo spirito autentico della cosa” mi dice l’amico al volante. “La gente è stanca delle manifestazioni ufficiali”.
Uscita Lambrate, parcheggiamo su un’aiuola, entriamo nel Parco Lambro. Dall’oscurità arrivano voci concitate. Come zombie, da ogni direzione singoli, coppie, gruppetti di persone convergono verso una zona là in fondo.
Poi lampi di luci intermittenti, come lucciole. Fari di biciclette. Intravediamo l’assembramento. Scavalchiamo un fosso. Da un albero ci cade addosso una ragazzina con una macchina fotografica più grande di lei. Parla francese, ci chiede qualcosa.
Passa un’ambulanza a sirene spente, si ferma poco avanti, dove la gente si sta radunando. In mezzo alla stradina, 30 o 40 ciclisti sono pronti alla partenza. Un tipaccio che fa da direttore di gara sta gridando le istruzioni in stile bastardo: “Ricordatevi che siamo al limite, fate attenzione alle buche e niente spallate. Dieci giri, poi la premiazione al volo e tutti a casa, chiaro? Pronti? Via!”
Si chiamano Criterium, ma sono competizioni scriteriate, improvvisate, semiclandestine, con una particolarità: si usano biciclette a scatto fisso, e senza freni. Per rallentare eserciti sui pedali una forza opposta, cercando di pedalare all’indietro. Come un freno motore. Oppure sollevi il retrotreno con un colpo di reni, così riesci a bloccare i pedali, e la ruota, e fai la curve derapando, o rallenti bruciando la gomma sull’asfalto.
Niente segnaletica, niente recinzioni, niente di niente. Solo una corsa incosciente in un percorso ad anello nelle stradine del parco. I concorrenti sono di ogni tipo: professionisti o ex della strada e della mountain bike, dilettanti, iron man, cani sciolti. L’amico mi indica alcuni corridori noti, con le bici senza insegne. Incontriamo due amici che lavorano nel settore delle gare ciclistiche tra Bergamo e Milano. Poi mi presenta altre persone, e anche i soci di un birrificio delle valli bresciane. Di me l’amico dice: “Lui è lo scrittore”. Come se dicesse “lui è basista”. Sembra che dobbiamo organizzare un colpo.
La gara dura una ventina di minuti. Passano in gruppo, velocissimi, incollati l’uno all’altro, un’unica massa rutilante, che sposta l’aria. Sfiorano gli alberi, ogni curva c’è il rischio caduta di gruppo.
In cielo, c’è la luna rossa. Il Lambro manda i suoi miasmi. Un cane con una luce verde sul collare. Sirene della polizia.
“Hai visto abbastanza?” mi chiede l’amico.
Torniamo in A4, direzione Bergamo. Dopo aver ascoltato a volume bomba “vivo da re” e “sultans of swing” mi riporta dove mi ha preso, a Km rosso. Mi dice: “Vogliamo organizzarne una a Crespi d’Adda”.
luoghi contro-significativi di Bergamo
Sotto il Palazzo della Ragione, l’icona della Follia, Torquato Tasso.
Su di lui, il letterato bipolare, che con la liberata-conquistata porta all’esaurimento il concept furioso-innamorato, sappiamo tutto.
Il Palazzo della Ragione si chiamava Palazzo Vecchio – ed effettivamente è il più vecchio palazzo del comune d’Italia (1183) – e Piazza Vecchia si chiamava Piazza Nuova, mentre Piazza Vecchia era l’attuale Mercato-Scarpe. In seguito, quando Piazza Nuova ha preso il nome di Piazza Vecchia, la denominazione Piazza Nuova è passata a indicare l’attuale Piazza Mascheroni. Questo per stare nell’ambito della Ragione.
I pazzi sono loro, ci dice chiaramente il nostro Torquato.
Il cane a 6 zampe e le 7 sorelle
Tutti i creativi che hanno studiato design sanno che il cane a sei zampe dell’Agip rappresenta un nuovo animale mitologico, l’automobilista, dotato di 6 arti (2 gambe + 4 ruote).
Quasi nessuno invece (parlo sempre delle nuove generazioni) ha mai visto o sentito parlare del gatto a tre zampe, marchio in disuso dell’AgipGas (oggi ENIgasGPL), che per Mattei rappresentava, più del petrolio, il futuro italiano.
A questo punto chiedo: sai chi era Mattei, no? Chi? E allora cerco di spiegare in poche parole a questi “giovani” chi era Enrico Mattei, e cosa significano in realtà il cagnaccio/benzina e il gattino/gpl.
Enrico Mattei è stato l’unico uomo al mondo che osò sfidare le “sette sorelle”: e fu lui a definire così il cartello delle sette grandi compagnie petrolifere americane. Ex partigiano, creatore dell’Eni, del petrolio e del metano italiano e dell’alleanza con i paesi del terzo mondo per liberare l’Italia, e non solo, dal monopolio delle 7 sorelle, capì in anticipo sui tempi l’importanza della comunicazione e dell’immagine aziendale.
Per prima cosa, nel dopoguerra, creò l’ufficio pubblicitario dell’ENI, e fece pubblicare sulla rivista Domus un bando di concorso per la creazione del marchio, con una dotazione di 10 milioni di lire (oggi sarebbero c.ca 150.000 Euro) e una giuria composta da nomi come Giò Ponti, Mario Sironi e Mino Maccari.
Così nacque e fu scelto il famoso cane a sei zampe (poi ristilizzato e accorciato nel 1972 da Bob Noorda, creatore dell’immagine coordinata Agip-Eni). Parallelamente al petrolio italiano, Mattei scoprì, industrializzò il gas naturale, convinto che quello fosse il futuro energetico (in anticipo di qualche decennio).
Nei primi anni Sessanta, ospite a Tribuna Politica, Mattei raccontò quella che ai tempi divenne nota come la “parabola del gattino di Mattei”:
“Invece di dare subito delle cifre o dei dati, preferisco cominciare raccontando un episodio personale. Una ventina d’anni fa ero un buon cacciatore. E andavo a caccia nelle montagne vicino a Varzi. Avevo due cani, un bracco tedesco e un setter. E, incominciando all’alba e finendo a sera, gli uomini e i cani erano stanchissimi, morti. Ritornando in questa casa dei contadini dove ci riunivamo la sera, la prima cosa che veniva fatta, davamo da mangiare ai cani. E veniva preparato un grande catino di zuppa per questi cani. E io mi stavo togliendo uno stivale e vedevo questi due cani che erano dentro con la testa nel catino e seguitavano a mangiare con voracità. Era una zuppa che forse bastava per cinque cani, non per due. E, in quel momento, in un angolo sentii un miagolio. E vidi arrivare un gattino grande così. Uno di quei gattini dei contadini, magro, affamato, debole. Aveva una gran paura, si vedeva perché vedeva i cani, però aveva anche una gran fame. E si avvicinò piano piano, miagolando, guardando i cani. E siccome i cani erano immersi con la testa nel catino, il gattino seguitava ad avanzare. Arrivò sotto il catino, guardò ancora i cani, fece un miagolio e appoggiò uno zampino all’orlo del catino. Il bracco tedesco gli diede un colpo, lanciando questo gattino a tre o quattro metri di distanza, con la spina dorsale rotta. Il gattino visse qualche minuto e morì. Questo episodio mi fece molta impressione e l’ho sempre ricordato, specialmente in questi anni.
Ecco: noi siamo stati il gattino per i primi anni, avendo contro una massa di interessi paurosa. Contro di noi si è sollevata una polemica terribile. E abbiamo seguitato a lavorare, a rafforzarci, cercando di non farci colpire, il tentativo era o di soffocarci o di lasciarci deboli. Pian piano ci siamo rafforzati, lavorando con tenacia. E oggi il Gruppo Eni è una grossa forza. È una grande impresa. Una grande impresa che può guardare al futuro con tranquillità e che può fronteggiare vittoriosamente la grande coalizione dei colossi petroliferi.”
Sino ad allora le 7 sorelle depredavano d’amore e d’accordo tra di loro il petrolio in ogni parte del mondo. Paesi tecnologicamente incapaci di estrarre il petrolio non potevano che cedere alle condizioni americane. Ma Mattei, contando sulla tecnologia italiana (siamo sempre stati forti nel settore ingegneria, tubi e giunti, da Leonardo in poi) pensò bene, invece di limitarsi a dare la nostra tecnologia agli americani, di proporsi come società petrolifera italiana, offrendo ai paesi poveri il 75% del profitto derivante dal petrolio estratto (le 7 sorelle arrivavano la massimo al 50%).
«Voi mi avete chiesto di farvi una raffineria ed io vi offro una industria petrolchimica. Ma vi offro anche un mercato per l’eccedente della vostra produzione e vi offro soprattutto la parità, la cogestione, la formazione di una élite tecnologica perché non siate il ricevitore passivo di una iniziativa straniera, ma siate soggetto, non oggetto, di economia».
Con questo discorso Mattei “conquista” la Libia, il Marocco, la Tunisia, l’Egitto e l’Iran. Nello stesso anno nasce l’Opec, il cartello dei paesi esportatori di petrolio. Le 7 corelle cominciano a innervosirsi, il Foreign Office prepara un dossier dove viene indicato come un sovversivo e un destabilizzatore, molto pericoloso per gli interessi americani. Ma in quello stesso periodo Mattei era riuscito ad avere l’appoggio del nuovo presidente “illuminato” americano, J.F. Kennedy, che lo invitò negli USA. Pensava, a differenza del suo gattino, di aver convinto i cagnacci a lasciargli prendere un pochino di zuppa.
A fine 1962 Enrico Mattei, alla vigilia dell’incontro alla Casa Bianca con Kennedy, fu ucciso da una bomba piazzata sul suo aereo. Il caso venne archiviato come “incidente”, ma molti storici sanno che l’attentato fu organizzato materialmente dalla mafia, e commissionato dalla Cia. Pochi mesi dopo, toccò a Kennedy. I poteri forti, i petrodollari e gli interessi di consorterie parassitarie stroncarono così due figure portatrici di innovazione, meritocrazia, e di una visione globale, di un pensiero di libertà, autonomia e progresso.
Questa triste storia si ripete ancora oggi in Italia in ogni ambito: nelle aziende, nelle istituzioni, nei concorsi pubblici, e perfino nelle manifestazioni sportive. Il gattino continua ad essere fatto fuori senza tanti riguardi. Lo sviluppo equilibrato, l’innovazione… i discorsi di oggi su sostenibilità e risorse naturali avrebbero potuto essere anticipati di 50 anni, evitando il disastro ambientale e sociale nel quale stiamo affondando. Per questo, quando mi capita sotto tiro il giovane creativo infervorato dal cane a sei zampe, gli faccio una testa così parlandogli di Mattei, di Kennedy, del Vietnam, del 68, delle compagnie petrolifere, delle multinazionali, della democrazia apparente…
Ricordatevi di Mattei e della parabola del gattino, quando vedete il cane a sei zampe. La creatività non è solo fare un bel logo, ma idee per cambiare il mondo. Il coraggio non è solo nel gesto grafico, ma nella coscienza politica, storica, culturale. Il coraggio è quello del gattino.
(immagine di cover tratta dalla graphic novel dedicata a Enrico Mattei, di F.Niccolini e S.Cortesi, edizioni il Becco Giallo; qui sotto il gattino a tre zampe)
dopo un mese su whatsapp
Da un mese, compiuti cinquant’anni, vivo su WhatsApp,
come molti, ho con la tecnologia un rapporto schizofrenico, passo anni da retrogrado, come un eremita nel deserto, poi quando il Signore me lo chiede torno in città, e resto fulminato,
il mese scorso ho perso il mio vecchio telefonino di 15 anni fa, niente foto, niente internet, così mi sono rassegnato a entrare nel mondo smart, e il giorno dopo ero già nel tunnel di WhatsApp. Oggi posso condividere alcune considerazioni:
a) dopo un mese su whatsapp sei un’altra persona, con una solitudine diversa, fatta da una moltitudine di virtualità, che ti priva dell’unica risorsa della solitudine classica, te stesso;
b) il vecchio dogma Mc. Luhan – il mezzo è il messaggio – è ancora “buono”, e spiega senso e successo di whatsapp: trovarti davanti questa lista di faccine, con delle mezze frasette, solo da toccare, ti porta a comunicare con messaggi fatti di mezze frasette e faccine, di fatto un balbettare con smorfie sorrisi o sghignazzi. Passi delle mezz’ore a scambiarti emoticon, icone, segni da cavernicoli, e infine la quantità e qualità di informazione che trasmetti e ricevi in questa mezz’ora è infinitamente minore di quella che passa in una comunicazione reale, faccia a faccia, con sguardi, toni, aura, contatto. In realtà sei sempre lì da solo davanti a questa tavoletta a chiederti cosa intendeva, cosa rispondere, problemi che in dialogo reale non hai, perché il tono, lo sguardo, la voce di un essere umano ti fa capire subito cosa sta dicendo il tuo interlocutore, a differenza degli emoticon, che di fatto diventano i tuoi sentimenti, i tuoi messaggi, il tuo mezzo di comunicazione.
c) la tesi che ero curioso di sperimentare è questa: le tecnologie e le opportunità di connessione e comunicazione sempre e con chiunque assorbono il nostro carico di ansia, o lo alimentano? Per quanto mi riguarda, decisamente la seconda. Ho anche più ansia rispetto all’oggetto: il vecchio scatolino mi dava il senso di avere in mano una bomba a mano, questa tavoletta da scriba, luminosa, sottile, fragile, da sfiorare, mi incute soggezione, emana un alone sacrale, non so mai da che parte prenderla.
Stasera, dopo un mese di dipendenza, sempre lì a guardare sto tabernacolo, aspettando un suo segno – che per l’appunto è il tipo di rapporto che si ha con la divinità – ho capito di dovermi disintossicare, come si fa con qualsiasi droga.
Il vero problema è rendersi conto che l’iper-comunicazione come qualsiasi droga o forma di vita religiosa ti promette la felicità, ma di fatto ti crea dipendenza. Dipendi da quei bip, è il bip che vuoi: puoi fare a meno di tutti i tuoi amici, in realtà, ma non puoi fare a meno di whatsapp. E del web, di fb, etc.
Da domani, prenderò una serie di misure per disintossicarmi, tornerò alla forma di vita religiosa catto-militare, francescana, regolata. Per ritrovare quella “solitudine in rapporto con sé stessi” che il mondo smart non prevede, adotterò 4 regole, cioè 4 divieti di utilizzo di ogni mezzo di connessione (oltre a quelli ovvi causa lavoro, riunioni, incontri, cinema, intimità): 1) durante la preparazione e il consumo dei pasti; 2) quando ti dedichi alla tua igiene e benessere personale (relax, ora di depressione quotidiana, sport, stanza da bagno); 3) quando guardi un film o leggi un libro, perché se sei in un film o in un libro e intanto whatsappi o altro, fai male entrambe le cose; 4) quando dormi, e magari sogni.
Alla fine WhatsApp è una forma di vita religiosa, devozionale, basata su delle immaginette che promettono miracoli, come i santini che le nostre nonne tenevano ovunque, o le foto dei morti di famiglia incorniciate e disposte su altarini o bacheche in salotto, con le quali dialogavano/pregavano quotidianamente.
Ma loro avevano meno ansia legata al bisogno di risposta, e forse anche più consapevolezza riguardo al “mistero” etereo del rivolgersi a esseri che sono altrove, e che noi facciamo rivivere nel nostro spirito.
(imago: elaborazione friendly by C.Rocchi)
Se le Mura Venete potessero parlare
Se la cosa fosse avvenuta spontaneamente, l’accetteremmo; la lingua è una cosa viva, niente è immutabile. Ma che la cosa sia frutto di una scelta dall’alto, che venga imposta, e con motivazioni così basse, e linguaggio non pertinente (una scelta “stilistica”, la definisce un portavoce istituzionale) ci deprime profondamente.
Cambiare “leggermente” nome alle Mura Venete di Bergamo, creando un falso come le “Mura Veneziane”, che fa subito souvenir, con la motivazione di attirare turisti (considerati come allocchi), mi sembra un’operazione non dignitosa, che non crea valore, ma al contrario squalifica sia il messaggio che l’emittente.
Parliamo del monumento simbolo della città. Vogliamo tutelarlo, promuoverlo valorizzarlo. Noi siamo sognatori. Pensiamo al tracciato pedonale sotto le mura, e immaginiamo i bastioni panoramici come una terrazza dell’umanità, senza auto né asfalto.
E intanto ci sono persone al servizio della città che sui monumenti e sulla nostra identità fanno scelte di marketing adatte a merendine senza valore, cui trovare un naming appetibile. Noi non siamo tra i cacciatori di titoli e medaglie, non riusciamo a entusiasmarci per questa rincorsa al riconoscimento di “patrimonio dell’umanità”, ma se sei convinto che sia un patrimonio dell’umanità, come puoi pensare di cambiargli nome? Come puoi pensare di ristrutturare i parapetti con cemento armato, ed effetto “muretto in stile”.
Non possiamo sentir parlare di scelta “stilistica”. Le Mura Venete sono vere. Le Mura Veneziane suonano false a chilometri di distanza, puzzano di dolciastro come certi profumi. Il fatto è che le Mura Veneziane non esistono. Venezia non ha mura. Sono le Mura di Bergamo, non di Venezia. Bergamo è una città di pietra, non d’acqua.
Questo appello è lanciato dalle Mura a tutti coloro che amano questa città di pietra, e ascoltano i sussurri delle pietre, e i silenzi, e le urla.
Ma il Comune vuole attirare turisti a forza di like, segue la politica dei like, di google, e del SEO. Bene, se il Comune capisce solo i like, diciamoglielo con i like. Preferiamo tenerci le Mura Venete. Condivide, et impera!
(qui sotto, riporto un estratto da WALL STRETT 1588, by Max Rebelot:
…e allora perché non far luce sul più gigantesco abuso edilizio mai realizzato a Bergamo,demoliti centinaia di edifici orti vigne cascine monumenti chiese per rinchiudere la città in un enorme inutile muro, succedeva nel 1561,
da preventivo dovevano costare 40.000 ducati ma a fine lavori siamo arrivati al milione, era il 1588, si inaugurava il Viale delle Mura (in english: “wall street”)
mega opera completamente inutile, perché nel frattempo l’invenzione delle armi da sparo le rendeva militarmente superate, mentre il nuovo assetto geopolitico uscito dalla battaglia di Lepanto segnava la fine del ruolo di Bergamo come caposaldo di terraferma della Repubblica Veneta,
il suo vero valore è quello di opera concettuale, la città delle mura, la città dei muratori, la città murata, città chiusa, con i muri in testa,
all’alba della civiltà dei motori il circuito delle Mura ospitava gran premi di auto e moto, poi il soap box rally,
adesso sarebbe ora di chiuderle al traffico, e dare l’esempio della città pedonale,
ecco da cosa ci possono proteggere oggi le mura: dalle auto! Dall’idea superata di libertà come abitacolo mobile privato. Oggi abbiamo capito che la libertà è uscire da quell’abitacolo, gioia di vivere con gli altri, e condividere aria e terra, anima e corpo.
Vogliamo scale mobili, ascensori, piste ciclabili, vie ferrate, trenini elettrici,
per cominciare rimettiamo a posto i parchi e le aree archeologiche di città alta devastate per realizzare parcheggi da ignoranza atavica + grasso benessere, mix micidiale, da sempre dna delle nostre elites sociali e politiche
poi per godersi veramente il fascino storico-paesaggistico delle mura, ed entrare nello spirito del luogo, ci vorrebbe un servizio di risalita slow-motion, a dorso di mulo
e per la discesa uno scivolo d’acqua diretto, mozzafiato, panoramico, spettacolare, un fast rafting tra la piscina del Seminario e quella dell’Italcementi, e glielo facciamo inaugurare insieme, a esperti, artisti e assessori..