BaDante e CacciaGuida

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DanteCacciaguida

La prima regola del BaDante viene dal canto XVI del Paradiso, dove Dante incontra Cacciaguida, suo avo e concittadino, e così gli si rivolge: “ditemi dunque, cara mia primizia, quai fuor li vostri antichi e quai fuor li anni che vi segnaro in vostra puerizia”.

Cacciaguida, commosso, rievoca la Firenze dei suoi tempi, parla dei suoi genitori, dei suoi amici d’infanzia. E’ la chiave per iniziare a rivolgere la propria vita come un romanzo.

Come Dante con Cacciaguida, il BaDante, questa nuova  e antica figura professionale, il badante-biografo, arriva alla scrittura in seguito a una pratica e un metodo socio-assistenziale, fatto di ascolto, memoria, ricerca.

Il BaDante naturale, diffuso, dovrebbe essere il nipote, o il pronipote con aspirazioni letterarie.

Gli strumenti e le tecniche per aiutare i vecchi ricordi ad emergere in forma di racconto sono semplici e preziosi:

le vecchie foto di famiglia, i giornali dell’epoca in oggetto, le vecchie cartoline dei luoghi, e naturalmente, ove possibile, le passeggiate spazio-temporali.

Le passeggiate nel tempo consistono nel recarsi in un luogo importante per la persona che racconta, un luogo oggi probabilmente irriconoscibile, e oltrepassare insieme le barriere materiali.

All’inizio pare impossibile, la persona dice “non ricordo niente, è tutto cambiato”.

Poi si apre uno spiraglio. Lì c’era un calzolaio. Qui c’era il pavè.

Poco per volta, girandoci intorno, si rintraccia la topografia, lo spirito, la luce, i rumori, gli odori di quel giorno di molti anni fa, quando la vicenda che oggi vogliamo raccontare ebbe luogo.

Chiaramente, bisogna dare tempo al tempo. Con la pazienza, si fanno miracoli.

Nell’immagine, Cacciaguida mostra a Dante e Beatrice la Firenze dei suoi tempi, miniatura, Padova, Biblioteca del Seminario.

 

 

un nome che oggi non c’è più

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20120920-113347

Quando sono nato io, nel marzo del 45, si chiamava Curdomo,  Curno-Dorotina-Mozzo, un nome che oggi non c’è più.

I primi ricordi sono i giochi che facevamo da bambini, in cascina, nella stalla, le battaglie  armati di fionde per conquistare e difendere la Cà di Rane, un casolare che per noi era il posto di frontiera tra il nostro territorio, Mozzo, e quelli delle Fornaci di Longuelo, che erano già ragazzi di Bergamo, quella era la zona di guerra, tra il colle Lochis e il colle dei Gobbi, tra villa Masnada e villa Bagnada.

Ci davano l’uva melluna, come premio, i contadini di Mozzo… in realtà giocavamo in un posto che era stato un deposito d’armi dei tedeschi, con una serie di cunicoli scavati sotto i colli, alcuni franati, e una sera tre nostri compagni, il Tarcisio Gamba, noto fifone, e il Rota Basilio, noto sbruffone (ma anche lui fifone) e un altro che non ricordo, si erano persi nei tunnel, non li si trovava. Il prevosto, Don Assolari, da Somendenna, aveva suonato le campane – cosa che faceva sempre, anche in caso di temporali – erano arrivati i vigili del fuoco… alla fine erano saltati fuori…ma poi tutta la zona è stata chiusa, i cunicoli murati.

Un altro ricordo sono gli scherzi macabri che facevamo nascondendoci dietro le siepi del cimitero, lungo la ferrovia,  proprio lì sotto passavano in bicicletta le ragazze che tornavano dal lavoro in fabbrica alla Legler, e allora noi, all’ora del primo buio, accendevamo le torce e facevamo voci di spirit, come fossimo i morti e chiamavamo a noi una delle ragazze, fichè una sera le ragazze sono venute con i fidanzati, e ci hanno tirato fuori dai cespugli per le orecchie – con le ragazze c’era anche mia madre Angela, che lavorava alla Legler!

Mia madre era del 14, come mio padre, Alessandro, originario di Valbrembo (macelleria Mangili). Mio padre lavorava alla Caproni, alla Caproni facendo aerei, poi dopo la guerra è stata chiusa, e allora è passato in Comune, poi alla Dalmine. Ricordo il maestro Tadini, alle elementari di Mozzo, veniva da Piazza Pontida, era un tipo, faceva anche un doppio lavoro, i mercati, vendeva articoli di cartoleria. La mattina arrivando a scuola ci dava i soldi per andare a comprargli la brioche, noi ne prendevamo tre regolarmente, lui non si accorgeva di niente, o faceva finta.

Al colle Lochis c’erano posti dove si appartavano le coppiette, noi la domenica invece di andare al catechismo andavamo a spiare le coppiette, finché una domenica siamo lì nascosti tra i cespugli quando sentiamo la voce del prevosto tuonare “la grazia del Signor colpisca quei disgraziati che dovrebbero essere al catechismo…” e dal sentiero lo vediamo sbucare armato di tutto punto, come in processione…

(ricordi d’infanzia di i Luigi Mangili – centro diurno anziani Caprotti-Zavaritt – raccolti dal BaDante Leone Belotti))

facevamo l’erba sul ciglio della strada

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Rav6

Mio padre lavorava  alla Caproni. La Caproni era una fabbrica di aerei. Il campo di prova era appena  fuori casa, sulla sponda del fiume. Sentivamo  il ruggito dei motori in decollo a tutte le ore. In famiglia  eravamo quattro fratelli. Vivevamo a Tresolzio, frazione di Brembate, eravamo mezzadri della contessa Moroni. Il fattore faceva  il bello e il cattivo tempo, e aveva anche delle pretese sulle mogli, sulle figlie dei mezzadri.

Eravamo gli ultimi. Chi aveva un pezzo di terra, già era in diritto di trattarci dal di sopra. Andavamo a fare l’erba  sul ciglio della strada, ma anche lì c’era qualcuno a dire «non è roba vostra». Tutta la mia infanzia è stata una continua umiliazione.

Mi mandavano in bottega a fare la spesa, c’era  sempre qualcosa indietro da pagare, e allora  ero sempre l’ultimo, chiunque entrasse era servito prima di me: alla fine dovevo prendere quel mi dava, non potevo scegliere il miglior taleggio, no, quello era per i signori. Questo trattamento lo ricevevi ovunque. Anche a scuola. La maestra  per prima cosa guardava come eravamo vestiti, poi decideva i posti.  Le prime file erano per i figli del podestà, del’avvocato, del fattore. Poi c’erano i figli dei commercianti e degli impiegati.  Nelle ultime file i figli degli operai e dei contadini e in fondo alla classe, nell’ultima fila, nell’ultimo banco c’ero io, il figlio del mezzadro Ravasio.

Il mio primo giorno di scuola finì prima ancora di cominciare: mia nonna mi stava accompagnando, ma suona l’allarme,  bombardamenti, tutti a casa, niente scuola.

A sei anni ero già grande, dovevo badare ai fratelli più piccoli, e se succedeva qualcosa ero io responsabile, come quella volta che dovevamo andare da Tresolzio a Locate dalla nonna, e a metà strada sentiamo un rumore che conosciamo bene, aerei, e il mio fratellino Egidio, quattro anni, poer nani, se la fa nei pantaloni, e io a pulirlo in qualche modo, nel fosso, sotto le bombe , e poi, arrivati dalla nonna, le ho dovute anche prendere…

Quando non eravamo a scuola eravamo nei campi ad aiutare, a zappare, a fare il fieno. Si andava a rubare i vecchi stracci per farci un pallone, giocavamo a piedi nudi e ci si faceva  male ai piedi, altri giochi non c’erano,  qualcuno si divertiva in primavera  a costruire arpe con i maggiolini, ma il vero sport era la fionda. Con la fionda in tasca si andava in cerca di qualche passero cui tirare o qualche lampadina, quelle poche che c’erano. Ricordo i miei primi zoccoli di legno, costruiti da mio padre lavorando un pezzo di legno, come ne “L’ albero degli zoccoli”. Per chiuderli si usava un pezzo di copertone usato di bicicletta che aveva già fatto chissà quanti chilometri  su strade di ogni tipo e poi ne avrebbe fatti altrettanti  a piedi.

A 11 anni ho avuto le mie prime scarpe, in cartone pressato: le ho avuto per andare a lavorare lontano da casa, a Lecco, a far  bisacche, le reti metalliche  che poi vengono riempite di pietre e usate a irregimentare  il fiume. Il filo di ferro di 3 mm, il bordiù, ti tagliava le mani.

Tornando a casa  guardavo il fiume in piena, faceva  paura, e pensavo: devo farle bene, le bisacche.

La sera  mia madre mi diceva  «Fammi vedere le mani», e mi curava le ferite.

Questi lavori li facevano i ragazzi, d’inverno, all’aperto.

Finita la guerra, la Caproni decide di lasciare a casa cento operai. Tra questi, mio padre. Un dramma. Con i soldi della liquidazione, per prima cosa, andammo a pagare i debiti col negozio di alimentari. Una scena che mi ricordo come se fosse successa ieri.  Ero con mio padre, entriamo, aspettiamo, e quando non c’è nessun altro da servire  viene il nostro turno, mio padre tira fuori la grossa banconota da mille lire, sembrava un tovagliolo, gliela consegna, e la signora, che sapeva della liquidazione, nel prendere i soldi, con tono di rimprovero, sollecitava  mio padre a darle in consegna  tutta la somma, come si farebbe con un bambino. Un’umiliazione terribile. Qualche anno dopo suo figlio, sempre vestito come un damerino, mi passa davanti mentre sto andando alll’allenamento di calcio, e con arroganza  volgare lascia andare un peto al mio indirizzo. Alla mia protesta, risponde: «Io mangio il prosciutto, mica la mortadella  come voi altri». Senza pensarci, gli sono addosso e gli dò una lezione. Dovevamo avere 14 o 15 anni. Io lavoravo già a Milano, e cominciavo a capire e a non tollerare più certe  cose di quel nostro modo di vita da paolot, tutto chiesa, casa e orecchie basse.

Ho sempre avuto la passione per il ballo, una passione iniziata nel dopoguerra, quando lavoravo a Milano, avevo sedici anni, e insieme ad altri compaesani ci fermavamo a dormire dal lunedì al venerdi in una stanza che il titolare della ditta ci aveva dato in uso. Il Giovedì sera si usciva, un’esperienza del tutto nuova per me, andare a divertirsi. Si andava al bar a vedere  in televisione “Lascia o raddoppia”, era quello il divertimento. Poi abbiamo cominciato ad andare al Polverone, lo chiamavano così, era uno stanzone sotto la Stazione Centrale addobbato a sala da ballo, frequentato da operai e cameriere.  Quando tornavo al paese e dicevo ai miei amici di essere andato a ballare quelli si scambiavano occhiate d’intesa e mi prendevano in giro, erano convinti che raccontassi balle per farmi bello, non potevano capire che a trenta chilometri di distanza, a Milano, certe cose erano normali, c’era  il lavoro e la miseria, ma anche un assaggio di una merce che al paese non sapevano nemmeno cosa fosse, la libertà…

Una sera  conosco una ragazza, cominciamo a ballare insieme, mi sembra di vivere in un film, poi usciamo, la accompagno  a casa in tram, fin sotto il portone dove vive e lavora come cameriera,  e lei mi dice: «Vuoi salire a bere una tazza di the? Questa sera  i signori non ci sono».

E io, paolot, con in testa il divieto più forte della voglia di stare da solo con una ragazza , che le rispondo: «Allora sarà per un’altra  volta». Ci ho poi pensato per settimane, per mesi. Più vista. E un mio compagno di lavoro, uno di Milano, quando gliel’ho raccontata,  mi ha detto: «Adesso sai cosa vuol dire pirla».

Qualche anno dopo, salito su un treno, sono andato in Svizzera come edile. Lavoro, lavoro, e ancora  lavoro: ma in Italia c’era  Liliana, la mia fidanzata. Ci siamo sposati nel 60, e subito a lavorare in Svizzera, ma insieme, lei aveva trovato lavoro nella ristorazione, si viveva con altre cinque coppie di italiani in una casa per emigrati. Facevamo i turni per usare la cucina, ma avevamo la nostra stanza e la sera studiavamo insieme il tedesco.

Poi una notte lei sta male, perde sangue, io nemmeno avevo capito che fosse incinta, per come eravamo stati cresciuti ed educati su certe cose c’era  un pudore e un riserbo totale. All’ospedale, insieme al dolore per l’interruzione della gravidanza,  mi aspettava  un’umiliazione decisiva: un dottore tedesco, in camice bianco e occhiali d’oro, che con disprezzo  mi dice: «italiani, siete come gli zingari».

(tratto da Giovan Battista Ravasio,  “L’erba sul ciglio della strada”, ©2006 edizioni Calepio Press)

una su mille

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badante Alighieri

Essere una donna, nell’Ottocento, e cambiare la storia d’Italia con un azzardo, un capolavoro di controspionaggio in territorio nemico, e in seguito essere protagonista eroica nella battaglia decisiva, a Calatafimini, ed essere quasi completamente dimenticata, questo può capitare a un’ultradonna naturale in Italia.

I fatti storici sono semplici e accertati, anche se poco divulgati: 1861, i mille garibaldini sono radunati, e pronti a imbarcarsi, ma Garibaldi aspetta un cablogramma dalla Sicilia. Vuole rinviare la spedizione. Le ultime notizie riferiscono di 24 fregate schierate davanti al porto di Palermo, con i cannoni pronti ad accoglierli.

Pisacane, i fratelli Bandiera, già troppi tentativi sono falliti nel sangue, per eccesso di ottimismo sul sostegno popolare contro le truppe borboniche. In Sicilia Garibaldi aveva mandato i suoi infiltrati-informatori-sobillatori, guidati da Rosolino Pilo.

Con loro una donna, mora, alta, forte, energica, formosa, giovane: Rose Marie Montmasson, la donna, la moglie di Francesco Crispi, il futuro primo ministro dell’Italia colonialista, che vuole la spedizione ad ogni costo.

Rose e Crispi si erano conosciuti a Torino, lui giovane agitatore radicale, intelligente, passionale, che Cavour faceva entrare e uscire di galera come un travel cheque di politica interna, lei lavandaia delle carceri, figlia di padre ignoto, originaria della Savoia, sveglia, focosa. Amore a prima vista.

Nei dieci anni successivi, vissuti pericolosamente insieme, sfuggendo alle polizie di mezza Italia lei lo segue ovunque, mantenendolo, proteggendolo, procurandogli tutto, diventando il suo agente segreto. E in segreto si sposano a Malta, tirando giù dal letto un sacerdote, come Renzo e Lucia, col foglio di via in una mano, e l’atto di matrimonio nell’altra.

In quel 1861, Rose, inviata da Crispi, con un intervento lampo in Sicilia cambia la storia d’Italia: o riesce con le sue armi ad avere effettivamente l’appoggio dei capi popolo e degli ufficiali borbonici, o riesce, con le stesse armi, a convincere i suoi compagni a mandare un telegramma falso a Garibaldi. Si propende per la seconda ipotesi.

Il telegramma convince Garibaldi, che ordina di salpare. Lei intanto lascia la Sicilia, e raggiunge in navigazione notturna la Sardegna, dove la spedizione farà scalo.

A Quartu, durante le operazioni di rifornimento, travestita da maschietto, a insaputa dello stesso Crispi, si imbarca con un sotterfugio, per poi rivelarsi prima dello sbarco a Marsala, e indossare abiti femminili,  l’unica donna tra i mille, una su mille.

A Calatafimini, nel caos della battaglia si prodiga nel portare in salvo i feriti, nel tenere la mano ai morenti, nell’incoraggiare i combattenti, e a un certo punto, rimasta quasi nuda per essersi stracciata le gonne per fare bende, raccoglie la bandiera tricolore a terra, e si copre con quella: è  come un segnale per la carica che respinge le truppe borboniche, numericamente superiori, e ribalta l’esito della battaglia.

E’ il trionfo, i garibaldini e i siciliani la chiamano Rosalia, come la santa, la spedizione dei mille in pochi mesi realizza il sogno inseguito da anni, l’unità d’Italia.

Crispi entra in parlamento, diventa un uomo di successo, sia come avvocato, che come parlamentare, è potente, facoltoso.

A Firenze, capitale d’Italia negli anni precedenti Porta Pia, i due coniugi vanno a vivere in un palazzo nobile, ma mentre Crispi diventa sempre più uomo di governo, Rose si ritrova sperduta nelle troppe stanze del palazzo: abituata ad agire, a fuggire, a stare in un tugurio, non sopporta le formalità, il lusso, il parlare forbito.

Crispi la accusa di non essere in grado di dargli un figlio. Tra i due si scava un abisso: lei lo ha seguito ovunque, rischiando la vita, le fucilate, gli arresti, patendo la fame, il freddo, ma non è in grado di seguirlo nella scalata sociale.

Crispi vuole accanto a sé un altro genere di donna, adesso. Ha conosciuto una nobildonna meridionale, Lina Barbagallo, figlia di un grande latifondista già procuratore del re a Palermo, di una bellezza più raffinata, e con una dote degna di un capo di stato.

Umiliata, non più amata, Rose si ritira a vivere da sola, a Roma, in una stanza di un quartiere popolare, come una concubina scaricata, un’amante invecchiata, lei, che era sua moglie, e non aveva perso lo spirito giovane, anarchico, libertario, a differenza di lui, sempre più uomo di stato.

Crispi ormai vive con la Barbagallo, diventa padre, la sposa. La regina Margherita rifiuta loro l’invito a un pranzo ufficiale, e lo accusa di bigamia. Crispi fa sapere al re testualmente: se l’invito non arriva entro un’ora, domani mattina in Italia ci sarà la Repubblica. L’invito arrivò, ma non gli evitò lo scandalo, e il processo per bigamia.

In tribunale, avvocato di sé stesso, sostiene che il matrimonio maltese non ha alcun valore, in quanto celebrato da un gesuita che era stato scomunicato a divinis perché repubblicano e socialista. Vince, il matrimonio con Rose è dichiarato nullo.

E’ l’inizio della sua ascesa, che lo porta a diventare uno dei massimi esempi di trasformismo politico (da radicale repubblicano a monarchico colonialista): Crispi è l’uomo forte che preparò la strada a Mussolini.

Rose intanto vive in miseria assoluta, alcolizzata, ripudiata, dimenticata da tutti, ma non dai reduci garibaldini, che organizzano una colletta nazionale per aiutarla.

Ancora nei primi anni del Novecento, è riferito un suo incontro con un reduce che lei ha salvato da morte certa, il quale, riconoscendola, l’abbraccia in lacrime e crolla in ginocchio dinanzi a lei, chiamandola come la chiamavano allora, Santa Rosalia.

Accorre gente, qualcuno inizia a inveire contro Crispi, ma lei, ormai anziana, li fa tacere, e lasciandoli increduli, dice: dovesse avere bisogno, saprei ancora amarlo e consolarlo, e si allontana sorridendo.

Morì sola e povera, fu sepolta nel cimitero del Verano, nei loculi destinati dal comune ai poveri, e ignorata dalla storiografia ufficiale, evidentemente succube del diktat di Crispi, che voleva cancellare ogni traccia della sua esistenza, riuscendovi in modo ammirevole.

Sono passati 150 anni, e oggi abbiamo un Ministero delle pari opportunità che in occasione delle celebrazioni commemorative dell’Unità d’Italia, ha promosso la pubblicazione di “Italiane”, un pachiderma in 3 volumi, un’opera ufficiale, di grande prestigio e rigore, quasi 200 biografie delle grandi donne che hanno unito l’Italia.

Non mancano le solite contesse e  poetesse di regime: chi manca completamente è Rose Marie Montmasson, la donna capace di convincere Garibaldi  a partire con un falso telegramma, capace di travestirsi da uomo per imbarcarsi con i Mille e capace poi di spogliarsi nuda sotto le fucilate per fare bende con le sue gonne, e capace infine, ridotta in miseria e solitudine, di dire saprei ancora consolarlo del grande statista temuto e odiato da tutti.

Chissà quale di questi episodi, di queste capacità, è risultata imperdonabile alla sensibilità delle nostre intellettuali che hanno selezionato le 200 “Italiane” che hanno contribuito all’identità nazionale. Forse una lavandaia, senza cultura né famiglia, in una pubblicazione prestigiosa, come a una riunione di gala, potrebbe creare qualche imbarazzo.

Donne come Rose Montmasson, ultradonne naturali una su mille, capaci di imprese eroiche ogni giorno, che escono dalla trincea per combattere, che sfidano i giganti, che rischiano e a volte perdono tutto, ma non la dignità, io ne conosco. Donne che hanno cuore, cervello e fegato, con una spruzzata di follia, e quindi un coraggio totale.

In televisione, sui giornali e nelle pubblicità non te le fanno mai vedere, e nemmeno nei libri di storia. Ti fanno vedere solo degli esseri repellenti che credono di essere delle super donne, e forse questa è una fortuna, almeno restano ancora spazi di verità da esplorare in proprio.

Importante non dimenticarsi mai che la superdonna costruita di regime, per quanto si possa lodevolmente impegnare, è sempre e solo una povera creatura di fronte a una vera ultradonna naturale.

(la storia di Rose Montmasson è stata scritta da anonimo presumibilmente nei primi del 900, ritrovata e integrata nel 2011 da Leone Belotti per blog bamboostudio – fotografia di Michele Stroppa >   https://it-it.facebook.com/michele.stroppa )

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La letteratura giovanile invecchia come la moda. La letteratura senile è il vero terreno di formazione per un aspirante scrittore. Fatti raccontare dal nonno la sua vita, trascrivi le sue parole, fanne un romanzo.  Ogni uomo, come ha vissuto una vita, ha una storia da raccontare.   Impara a raccontare le storie degli altri, le storie vere, se vuoi fare lo scrittore. Ecco l’idea. La scrittura come valore socio-assistenziale.

BaDante è nuova figura professionale, il badante-biografo, dotato di competenze assistenziali e spirito dantesco, in grado di accudire nel presente,  accompagnare nel passato e proiettare nel futuro l’utente-autore che abbia deciso di rivolgere la propria vita come un romanzo.

BaDante offre servizi integrati assistenziali-editoriali per la produzione, la pubblicazione e la diffusione della letteratura senile attraverso:

1) la tutela e la valorizzazione, nella cura della persona (igiene, vestizione, cucina, passeggiate) del dialogo, del racconto e della memoria orale.

2) la ricerca, il recupero e la digitalizzazione dei reperti autografi e cartacei (epistolari, documenti, cartoline, fotografie).

3) l’elaborazione assistita (registrazione, trascrizione, editing) di memorie personali, professionali, familiari e opere di fantasia.

4) la pubblicazione on-line e in volume di raccolte e opere prime.

Il/la baDante-ghost writer, e il senex autore, diventano co-autori, insieme salvano e trasmettono il più importante patrimonio: la memoria. Anche e soprattutto se questa memoria è danneggiata. Monet ha dipinto le Ninfee da cieco . Beethoven ha composto la Nona da sordo. E il nonno può benissimo scrivere la storia di famiglia con l’Alzheimer.

O qualcuno ha  paura di quello che potrebbe scrivere?

Pare che la prima preoccupazione riguardo agli anziani sia quella di imbottirli di medicinali per avere esami del sangue perfetti, non bere, non fumare, non mangiare, non prendere freddo, non strapazzarsi, non agitarsi, quasi che un integralismo salutista sia la risposta alle prospettive della vecchiaia, di modo che siano pronti a partecipare alle Olimpiadi, al momento della dipartita.  Dare un senso al proprio tempo, lasciare un segno del proprio passaggio, una storia per i nipoti, questo mi pare meglio di giornate scandite dagli antibiotici, che, come dice la parola, sono contro la vita, a differenza della biografia, che la trasmette ai posteri.

l’ombra di colui

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dante-2

La vera mission di un creativo, oggi, è creare posti di lavoro. L’idea BaDante mi è apparsa un giorno mentre osservavo la frutta che la badante aveva portato al nonno… l’ombra di colui, il padre della lingua, mi suggeriva questo: che cos’altro è la Divina Commedia se non il diario di un BaDante che accompagna un grande vecchio (Virgilio) nel meraviglioso viaggio nella memoria?