multas per gentes

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Catullo

sembra il nome del gestionale dei vigili urbani, tot multe per tot gente,

invece è l’attacco struggente del grande lirico, modernissimo, come dicesse ho viaggiato attraverso persone, e popoli, multas per gentes, ma nullla, nessuno mi consola della tua morte, parliamo di Catullo, ripreso dal Foscolo (in morte del fratello),

me ne sto a prendere il sole alla villa di Catullo, Sirmione, in foto, immagino triremi romane sul Garda, e penso alle multe che danno a Bergamo, multas per gentes,

in ogni bar di Bergamo ho un informatore, le notizie sono da romanzo dell’assurdo, paradossali, mi segnalano  un bar che ha preso una multa da 1000 euro perché aveva la porta aperta (un bar con la porta aperta!);

mi segnalano un locale col permesso di fare musica sino alle h23.00, che ha ricevuto una multa alle h23.04;

la lista è lunghissima, nella gran parte si tratta di locali multati per schiamazzi, tu multi il bar perché uno fuori dal bar parla a voce troppo alta: sarebbe come multare le scuole perché fuori dalle scuole c’è gente ignorante, non finiresti più! Ti metti in via Angelo Mai e fai 2000 multe all’ora, multas per gentes…

Mi segnalano che il comune di Bergamo vuole raddoppiare gli introiti dalle multas per gentes, da 5 a 9 milioni l’anno,

quello che ti fa incazzare di queste multe è che stiamo ancora pagando come cittadini il parcheggio mai realizzato alla Fara, tu dimmi se pagheresti un disastro incompiuto, dovrebbe pagare chi ha fatto il disastro, no? Paghiamo noi cittadini, con i parchimetri, e quindi con le multe.

Un amico calabrese mi prende per il culo. Bergamo è la città con la più alta percentuale di multe pagate. Oltre il 90%. Reggio Calabria l’esatto contrario!

Sai questo cosa vuol dire? mi chiede l’amico. Facile. Perché paghi la multa? Perché non la paghi? A Reggio il 90% della gente è nella condizione del cane morto. A Bergamo solo il 10%. Il cane morto è un soggetto senza reddito, o senza proprietà, o indebitato a vita, o tutte e tre le cose insieme.

L’altra cosa che ti fa incazzare è che ti danno le multe come se fossero dei ladri, loro, i vigili, al volo te le danno. Io preferisco i vigili che vigilano entrando nei bar, bevendo anche loro, parlando con i baristi, con gli avventori, come il mitico vigile di città alta, con la sua azione vigila molto meglio dei vigili che fanno multe di rapina.

Ma adesso una sentenza che farà epoca ha dato ragione al senso comune, il bar non è responsabile degli schiamazzi fatti da gente fuori dal bar.

Intanto ricevo una telefonata, un’amica, bergamasca, donna bellissima, mi parla della sua situazione, è sola, ha un figlio di tre anni, il tizio è sparito, lei ha perso il lavoro, ha un gigantesco problema di salute, le hanno riconosciuto l’invalidità, non ha di che vivere, i servizi sociali del nostro Comune, della ricca Bergamo multas record, a questa invalida giovane madre sola bergamasca, hanno riconosciuto un assegno di sostegno di duecento ero: duecento euro l’anno!

La signora dei servizi sociali le ha detto testualmente: mi vergogno, ma è tutto quello che sono riuscita a farle avere.

Duecento euro. Una multa. Una madre invalida, senza reddito, e suo figlio, valgono come una multa per schiamazzi, un parcheggio sul marciapiede.

Allora io pagherei più volentieri la multa se sulla multa ci fosse scritto – non solo scritto! – questo multa serve a sostenere cittadini bisognosi: schiamazzi ai bambini poveri, guida in stato di ebbrezza agli invalidi,  divieti di sosta ai senza casa, et coetera, tutto documentato dal gestionale multas per gentes, grazie cittadino, con la tua multa abbiamo aiutato la tua concittadina in stato di bisogno.

(imago: Sirmione, villa di Catullo, multas per gentes)

 

non parlatemi di birra km0

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BAffoLeo

L’invito lasciava intendere la presentazione della nuova Birra Moretti Km0, la birra ufficiale dell’Expo, allo stabilimento Heineken di Comun Nuovo, il birrificio più grande d’Europa.

Immagina 20 campi da calcio, e ragionamenti in termini di milioni di ettolitri. Per andare dal parcheggio all’ingresso ti danno l’ombrello. Per la visita dello stabilimento  vieni equipaggiato da occhiali, tappi per le orecchie, scarpe antistatiche, e pettorina grande visibilità.

Così marzianizzato già non sei più tu: circondato da alte hostess, vieni pastorizzato anche tu, gettato in una sala conferenze e catechizzato a dovere da simpatici key men;

il classico trio management, col solista del marketing che ricama poesia, il pianista di produzione che martella numeri, e il contrabbassista del cda – quello vestito meglio – che si limita a borbottare qualche nota, ma con sentimento pesante.

Indovina chi  dice le seguenti frasi:

1)    la produzione è 50% Birra Moretti e 50% Heineken, che ha rilevato Birra Moretti 20 anni fa, portandola da 100 a 200 milioni di litri l’anno, non da un giorno all’altro, ma giorno per giorno, con un incremento annuo del…

2)    Per la Bottega Birra Moretti all’Expo non abbiamo chiamato un architetto: ma uno scenografo! Una meraviglia, tutta in legno e rame, molto alta, molto grossa!

3)    L’imbottigliatore meccanico riempie le bottiglie per lacrimazione forzata, il tappatore automatizzato esercita un’esatta forza verticale di 320 kg; alla fine del nastro trasportatore i cartoni vengono pallettizzati al ritmo orario di…

4)    Il packaging non è solo estetica: è sostanza!

5)    Programma Zero Infortuni, in collaborazione con Confindustria Bergamo, siamo passati dagli x infortuni del 2005 agli y del 2015 con un decremento dell’xy% annuo…

6)    Ma adesso vorrei presentarvi un amico che per la prima volta ci viene a trovare…

… e a quel punto si alza una figura che pare uscire direttamente dal fantasy world, dalla tv, dalle etichette: il Baffo D’Oro, il super testimonial Birra Moretti, in carne e ossa, bellissimo, due occhi a perdita dei medesimi, senza età ma probabilmente ottantenne, col suo cappello di scena, e il sorriso sornione da spot, preciso…  

A rovinare la liturgia, ecco il solito giornalista comunista con barba e brown velvet jacket che vuole fare una domanda politica: scusate, ma come fate a parlare di birra km0 se gli ingredienti vengono da ogni parte del mondo?

Risposta del violinista (in purissimo stile mirror climbing): no siccome in pratica la normativa dice che sotto i 70km puoi dire che sei km0, e noi qui siamo a 69km da Milano, ecco che comunque è giusto un messaggio… Come direbbe l’Insostenibile Elaviano: In vino veritas, in birra fabulas!

Finita la predica (queste presentazioni ricalcano sempre la struttura della messa: prima le letture, poi la predica, poi i canti e la comunione, cioè lo show e il catering) comincia lo spettacolo: visita in passerella aerea alla linea di produzione, fiumi di birra a perdita d’occhio, le bottigliette marciano compatte come antichi eserciti che si rincorrono, l’esercito Heineken in divisa verde e l’esercito Moretti in divisa marron.

Col Baffo che si lascia fotografare free, si brinda col management, tutti alegher,  maestranze e giornalisti, e lemme lemme in non scialanza ci si appropinqua ai tavoli food & beverage con le 11 referenze (solo quando le ho viste ho capito che le referenze sono i prodotti, le birre)

In realtà, non esiste nessuna Birra Moretti Km0, le due novità sono:

1) la nuova grafica delle etichette, in stile birra artigianale di qualche anno fa, carta da pacco e lettering monocolore, nell’insieme molto simile alle Lucky Strike natural,

2) le nuove birre regionali,  in 4 versioni, una mezza delusione:  Sicilia e Toscana bevibili,  Piemonte imbarazzante (sa di sciroppo concentrato per granite) e Friulana quasi disgustosa (sa di shampoo Garnier alla mela verde: ma sulla marca dello shampoo potremmo discutere, dice il giornalista guru della birra).

Come sempre, banale la Bionda e dignitosa la Rossa (secondo un amico noto birraio una delle meno peggio tra le industriali).

Impietoso risulta tuttavia l’accostamento con le prelibatezze del catering di Vittorio, risotto, pacheri, lasagne, formaggi, battuta di carne, dolci al cucchiaio, tutto 5 stelle: e ti faceva venire voglia di un buon bicchiere di vino.

Avrebbero fatto meglio a limitarsi a servire patatine, salatini, olive e cipolline, per mascherare l’insipienza della bevanda e valorizzarne quantomeno l’elemento dissetante e alcolico, come ben sapevano i baristi dell’epoca pre happy hours.

Provate tutte le referenze, pausa pissyng, e momento di coscienza critica:

aver mangiato a sbafo da Vittorio col Baffo, non ci impedisce, a costo di non essere invitati una seconda volta, di scrivere quello che abbiamo visto, provato e pensato:

Il messaggio Km0, proprio perchè  è giusto un messaggio, non è un messaggio giusto, e quasi nemmeno un messaggio.

Le birre regionali sono una mossa sbagliata, un prodotto sbagliato, un marketing sbagliato: puzzano d’inautentico fin dalla loro immagine coordinata;

Personalmente, l’unica referenza che continuerò a comprare è la Rossa, che vedrei bene in bottiglia da 66cc.

Tirar su la patta e sentirsi la coscienza a posto, una cosa sola.

All’uscita c’è il posto di blocco con le hostess. Con sorriso e muscoli tirati, ci consegnano una pesante shopping bag Moretti. Dentro, un’ampia selezione di  referenze in bottiglia. Nella mia, manca giusto la Rossa.

MorettiLeo Imago: il Multi-Reporter Calepio Press- Osservatore Elaviano – CTRL

 

 

 

io sono bortolo

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Leo1

Caro Giorgio, caro Stefano, sindaco della Città e rettore dell’Università, dicendovi “io sono Bortolo” intendo segnalarvi tutto il disagio psichico che mi causa una topica colossale propalata a vostro nome, live e on line,

mi riferisco al questionario somministrato ai cittadini attraverso il “Bg public space” sul Sentierone e sul sito omonimo,

dove per rilanciare il centro di bg si propone ai cittadini una prima domanda “cretina” come “vorresti che il centro di Bg rappresentasse l’identità dei bergamaschi?” (con risposta plebiscitaria “si” al 98%, incredibile!)

e subito dopo ecco la domanda “truffa”: “come vorresti ridenominare Largo Bortolo Belotti? a) largo della Roggia Nuova (era tale nell’800) b) largo del Convento (che non c’è più) c) largo San Bartolomeo (in omaggio… alla chiesa!).

Nel dubbio, basta imboccare la domanda successiva: vorresti che venisse evidenziato il tracciato della roggia tramite pavimentazione e cartelli digitali, qr code, realtà aumentata?

A questo punto mi viene da urlare: “io sono Bortolo!”

A parte il fatto che le rogge, eventualmente, vorrei vederle riportate alla realtà normale, alla luce, laddove sensato,

la topica è questa: per rafforzare l’identità della città si propone di eliminare il buon Bortolo Belotti, cioè l’unico personaggio bergamasco cui è intitolata una via nell’area in oggetto, tra Petrarca, Verdi, Tasso, Roma, Vittorio Emanuele, Dante e Cavour?

Ti dico in 5 righe chi era Bortolo Belotti, e cosa rappresenta:

1) un grande avvocato, uno storico insigne, un poeta raffinato, uno studioso di fama, un parlamentare scomodo;  2) uno dei fondatori del partito liberale, un antifascista vero, arrestato dal regime, mandato al confino, morto in esilio; 3) autore della monumentale Storia di Bergamo e dei Bergamaschi; 4) è stato uno dei pochissimi intellettuali bergamaschi del novecento di statura nazionale; 5) uno dei pochissimi esempi di intellettuale di successo che ha avuto il coraggio civile di dire no al fascismo, e non come uomo di sinistra, ma come liberale, erede della tradizione di giustizia e libertà.

Ma chi se ne frega della storia, e chi se frega dei bergamaschi, tutti bortoli: chiamiamola via della roggia nuova, o del convento vecchio, che hanno un suono più turistico, più appeal, più app, più start up.

Così, mentre si annuncia di volerla valorizzare, si uccide la memoria e l’identità della città, e per far questo si cerca di usare – e si abbindolare – i bravi cittadini che partecipano al sondaggio.

Ma la domanda vera sarebbe da rivolgere a Giorgio e Stefano: perché? Perché volete eliminare Bortolo Belotti? Perchè volete il mio consenso per cancellare dalla toponomastica, e quindi dimenticare, un’icona della società civile locale, cosa che solitamente fanno le truppe d’occupazione?

Caro Giorgio, caro Stefano, vi assicuro che il 100% degli elettori al posto della realtà aumentata preferisce tenersi stretta la realtà storica, e la memoria di un grande studioso super partes che porta un nome e un cognome tipicamente Bergamo, cosa di cui io non mi vergogno.

O mi state dicendo che è proprio questo il motivo per cui si vuole farlo sparire, perché Bortolo Belotti, nella visione internazionale della città, suona troppo bergamasco, provinciale?

Così fosse, avremmo davvero un problema di provincialismo.

(PhotoAkam: Leone Belotti vestito da Bortolo)

Isis in Libia e Qatar a Milano

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MilanoQatarTi spaventa di più l’Isis in Libia o il Qatar a Milano?

Il Qatar si è appena comprato il nuovo cuore di Milano, da oggi la più grande e ricca area urbana di proprietà araba in Europa, i 15 edifici più grandi, più moderni, 2 miliardi di euro,

se avessi un figlio, o dei bambini, gli chiederei: temi di più l’Isis in Libia, o il Qatar a Milano, l’occupazione di Milano da parte del Qatar?

Che sia questa la “risposta” all’occupazione della Libia da parte dell’Isis? Perchè la nostra principale forma di propaganda, il tg, che ci terrorizza con l’Isis in Libia, ci presenta il Qatar a Milano come una buona notizia, luminosa?

Non ti sei mai chiesto perchè il proletariato islamico e il proletariato occidentale dovrebbero scannarsi mentre i rispettivi padroni vanno d’amore e d’accordo e si condividono a suon di petrodollari città, mondiali, luxury brand, squadre di calcio e gran premi?

Che il Qatar e l’Isis siano due facce della stessa medaglia, versioni islamiche di una guerra sociale che ci fa comodo ammantare di etichette religiose, culturali?

Che l’europa mediterranea stia diventando il teatro della iper-guerra nord-sud?

Cosa deve pensare, scrivere, dire un intellettuale erede dell’intelligenza storica del canone occidentale, in questa situazione? Prender parte all’ipocrisia storica e fare il gioco del padronato multinazionale, o rivendicare la tradizione illuminista, marxista, strutturalista, e interpretare la realtà utilizzando il buon vecchio  materialismo storico?

Se avessi dei bambini, gli direi:  oltre all’abbigliamento vintage, prova a indossare anche l’abito mentale vintage, corri il rischio di capire cosa sta succedendo.

siamo sempre su un ponte

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fiume auto 1 copia

Sono venuta al mondo e cresciuta in un piccolo centro come tanti. I miei nonni erano minatori-contadini, mio padre Gioioso di nome e di fatto, mia madre invece un generale dagli occhi neri, bellissimi.  La valle, la fabbrica, la scuola, la famiglia, il fiume, gli inverni lunghi.  A 15 anni pensavo: tutto qui?

Un giorno attraverso il fiume, entro nella grande fabbrica, chiedo di parlare con la titolare, che era, ed è, una donna. Le chiedo di sponsorizzare la squadra di pallavolo femminile in cui giocavo. Mi dice di si. La mia prima azione marketing.

Tornando a casa, sul vecchio ponte pedonale, mi sento più grande di cinque anni. Quindici anni dopo, tenendo corsi di specializzazione ai neolaureati, parlo del marketing come di un ponte tra le imprese e il mercato.

Momenti nei quali si prende una strada. Dopo gli anni di “studio forsennato”, tornata da Harvard avevo due scelte: la strada maestra, cioè lavorare per una grande società di consulenza internazionale, oppure la “porta stretta”, cioè aprire una mia piccola società di consulenza, con grandi ambizioni, nella mia città.

Perchè qualcuno mi aveva detto:  la vera impresa è tornare a casa, realizzare la propria idea d’impresa nel tuo territorio, nella tua città. Multiconsult nasce a Bergamo, nel 1994 da questa sfida, con questo obiettivo: portare il mondo a Bergamo, e Bergamo nel mondo.

Quando parliamo di import-export, di marketing e comunicazione, parliamo di dentro e fuori, di cose che abbiamo dentro da sempre, di cose che prendiamo/apprendiamo da fuori e di cose che vogliamo o non vogliamo portare fuori, condividere.

L’integrità, il valore, la capacità, e anche la tradizione, da un lato, e dall’altro l’apertura, la malleabilità, la disponibilità al nuovo, al diverso, all’altro: perchè ogni nuovo cliente è sempre diverso dall’altro.

Questa sfida riguarda ognuno come persona, riguarda le aziende, riguarda un’intera comunità. Siamo sistemi complessi, che convivono all’interno di eco-sistemi più ampi, e tutta la complessità è nel trovare l’equilbrio con semplicità, e nel mantenerlo.  In questi 20 anni non ho fatto altro che lavorare su questo tema, anche le iniziative, i progetti speciali inseguono questo concept.

Il progetto “dimore e design”, una provocazion ai designer – che effetto fa la tua leggerissima sedia design in policarbonato in un salone marmi, stucchi arazzi e ori barocchi –  per offrire al pubblico uno stimolo, un input sul tema dentro/fuori, tradizione/innovazione.

Potrei parlare ore di reti d’impresa, in teoria un’idea fantastica, che fino ad oggi non funziona. Potrei parlare di marketing urbano, della capitale della cultura, dell’Expo, dell’Accademia Carrara, del Donizetti. Della città d’arte e della città vera, ostica, chiusa, bellissima, la nostra non è una città per turisti qualsiasi.

Il marketing è il passatore,  il traghettatore. Siamo sempre su un ponte, e io mi vedo, mi rispecchio sia negli occhi allegri delle mie figlie, che nello sguardo fermo di mia madre.

Oggi la mia società di consulenza marketing compie 20 anni: costellati di grandi successi, qualche sconfitta importante, e alcune perdite dolorose. Non intendo finanziarie, ma umane. Viene la voglia, il desiderio di seguire un richiamo all’origine (al futuro?) del marketing: la realtà.

“Tu non fai marketing” mi ha detto un giorno un funzionario di un’associazione di categoria: “c’è qualcosa nell’aria, e tu lo fai diventare un progetto”

Ma il complimento più bello, mi è stato fatto dall grande avvocato delle grandi aziende:  “ho visto tanti business plan delle grandi società di consulenza, però è la prima volta che trovo un business plan che è piacevole da leggere, e si capisce cose c’è scritto!”.

Parlavo di perdite importanti, e mi riferisco a persone, persone con le quali ho condiviso tratti importanti di strada, e che a un certo punto – è la realtà! – prendono un’altra strada, un altro cammino. Penso soprattutto a Francesco, la persona che negli ultimi dieci anni è stata al mio fianco ogni giorno seguendo la nascita e la crescita (nella realtà!) dell’area comunicazione.

Franz ha creato uno stile, un metodo, uno standard di qualità nella comunicazione, con l’attenzione quotidiana, a volte maniacale, al dettaglio, al millimetro.  Dieci anni ogni giorno con me, poi te ne sei andato dopo un mese d’ospedale, senza nemmeno avere quarant’anni.

Non so se è una bestemmia, o una preghiera, ma spero tanto valga anche per te, Franz, la nostra reputazione, tu lo sai, è la cosa che mi ha sempre più gratificato, per cui chi ha lavorato in Multiconsult è molto ben considerato quando entra in una nuova realtà.

(tratto da “Nata prima la gallina”, di Giovanna Ricuperati, “libretto da visita” pubblicato da Multi-Consult in occasione dei 20 anni di attività. Immagine: foto di Virgilio Fidanza, fiume Serio.)

non parlatemi di cultura

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Giovenale

ormai quando sento qualcuno parlare di cultura, di promuovere la cultura, mi parte automatico il warning “ipocrisia!”, lo stesso che scatta con “io non sono razzista”;

chi dice di voler fare cultura, solitamente è solo in cerca di un abito per coprire la propria scandalosa ignoranza, inadeguata alla ricchezza materiale,

vuole cioè comprare cultura, l’etichetta di cultura, non fare, produrre cultura;

un dispendio virtuoso, gratificante, per lavarsi la coscienza, e forse nemmeno per lavarsela, ma per imbellettarla, profumarla, deodorarla, perchè questa etichetta di cultura da sempre serve benissimo anche come copertura strumentale di altri traffici politici, commerciali, edilizi,

per rilanciare l’economia, vogliono sostenere il turismo, e per sostenere il turismo, oltre al food (e siamo alla frutta) occorrono le bandierine della cultura (dessert): gli eventi culturali, e gli spazi culturali, come se la cultura fosse qualcosa da rinchiudere in uno spazio!

in realtà la cultura è una scusa per costruire strade, aprire cantieri: per questo si è tramato per ottenere il titolo di capitale della cultura, per mettere le mani sui finanziamenti europei – 90 milioni di euro – da destinare a infrastrutture ricettive, cioè strade e parcheggi;

ma quasi peggio dei “profittatori” della cultura, sono gli “amanti” della cultura, che si lasciano abbindolare dai profittatori, e a loro servono come “utili idioti”,

gli “amanti” della cultura in realtà spesso sono dei necrofili, e l’unica forma di cultura che sono capaci di concepire è la cultura morta, codificata, e soprattutto il suo tempio, il cimitero, il mausoleo della cultura: il museo, dove la cultura riposa in pace,

così per l’arte (ristrutturiamo la pinacoteca!), così per le lettere (ristrutturiamo la biblioteca!) così per la musica (ristrutturiamo il teatro!) e in tutto questo ristrutturare – e spendere soldi pubblici – chiaramente chi lavora sono le imprese edili, e chi mangia sono i burocrati, non certo gli operai della cultura, gli artisti, o il pubblico, e alla fine della spesa infatti non abbiamo creato cultura, non abbiamo realizzato un solo prodotto culturale, ma solo degli edifici vuoti, con scritto sopra “cultura”; vuoti, o frequentati per esibizionismo sociale.

Parlare di milioni di euro in cultura da salotto, in cultura morta, in un’epoca di fame, nella quale i veri artisti sono per strada, o totalmente asserviti, mi fa diventare ignorante.

Chi fa davvero cultura, non se ne riempie la bocca, e meno ancora la pancia,

chi fa cultura passa le giornate, le notti, la giovinezza, gli anni, la vita inseguendo un progetto, producendo opere, ricerche, libri, quadri, composizioni musicali; e quasi mai viene interpellato, coinvolto, sostenuto da chi proclama di voler far cultura;

e se riesce a campare di quello che fa, l’artista in questa città, è grazie a commesse che arrivano da fuori, da operatori nazionali, o internazionali,

nella propria città, e specialmente in questa città, chi fa cultura è quasi sempre ignorato, ostacolato, calunniato, per poi essere usato da morto, 20 o 200 anni dopo il fatto, da quegli stessi bottegai e affaristi che l’hanno lasciato crepare di fame, o di solitudine;

soltanto dopo che tutto il mondo ha riconosciuto un talento, un artista, arriva il titolo su l’Eco di Bergamo: e non per riconoscerlo come artista, ma per rivendicarlo come bergamasco!

dei grandi bergamaschi del passato, oggi mostruosamente esibiti per fare turismo, compositori, pittori, architetti, Donizetti, Fra Galgario, Quarenghi, Beltrami, non ce n’è uno che in vita abbia lavorato o sia stato riconosciuto a Bergamo, ma tutti hanno sempre dovuto fuggire da Bergamo;

questa mancanza di consapevolezza culturale “in tempo reale”, la vedi soprattutto in un dato che dovrebbe far riflettere:

abbiamo avuto e abbiamo molti grandi pittori, architetti, musicisti, scienziati, ma nella storia della letteratura italiana dell’800 e del 900 non esiste un solo grande scrittore bergamasco, e nemmeno medio, e nemmeno minore,

dammi una città qualsiasi, Parma, Ferrara, Como, Pescara, e ti farò dei nomi: ogni città, ogni provincia italiana tra 800 e 900 ha espresso narratori in grado di produrre opere entrate nel “repertorio” nazionale o anche internazionale, narratori della propria città, della propria gente, romanzieri del territorio, se così si può dire,

e invece non esiste e non è mai esistito uno solo scrittore di Bergamo o della provincia di Bergamo, è questa la verità,

è questo su cui si deve riflettere, quando ancora ci si chiede come mai non siamo riusciti a ottenere il titolo di capitale della cultura:

come mai non c’è, non c’è mai stato uno scrittore di Bergamo, che sia stato capace di scrivere un romanzo decente su questa città, su questo tipo umano che è il bergamasco?

forse mancanza di talenti, di genio? O piuttosto mancanza di humus, di terreno sul quale attecchire, cioè di lettori, di mecenati, di intellighenzia nelle elite socio-culturali?

non parlatemi di cultura quando spendete 10 o 20 milioni in edilizia, o in altre manovre:

tu oggi mi spendi 10 o 20 milioni di euro per strani lavori decennali di ristrutturazione di musei e teatri, e tra 10 anni la cultura, il patrimonio culturale, e il valore culturale della città nel mondo non sarà cresciuto di una pagina;

parlatemi di cultura quando fate un vero premio artistico, un vero premio letterario, o musicale, o d’arte, e mi viene in mente chiaramente il premio Bergamo, che ai suoi tempi ha prodotto opere e artisti di valore internazionale (per la serie… “il fascismo ha fatto anche tante belle cose”)

fatemi un premio letterario per un romanzo intitolato “Bergamo”, e non con la pubblicazione come premio, ma con 50.000 euro in premio, e altrettanti in marketing editoriale, e in questo modo stai investendo in cultura, in un autore e in un’opera.

Ti scandalizzano i 50.000 euro? Per un calciatore, o un avvocato, o anche per un’automobile andrebbero bene, ma per uno scrittore, per un romanzo…

Tu vai avanti a fare premi-elemosina, e avrai i pittori della domenica, e gli scrittori del giovedì. Tu metti soldi veri, e avrai gli scrittori veri, e i romanzi veri. Volgare, banale, reale.

Tu metti un premio da 50.000 euro e ti garantisco che i 100 migliori writers bergamaschi si mettono a lavorare con grande carica, e altrettanti writer vengono da ogni parte del mondo, e si trasferiscono a vivere a Bergamo a loro spese: e già così aumenti, crei il valore, l’appeal, l’ambiente, la koine, il fermento culturale della città.

Entro dieci anni, nel corso di dieci edizioni, su mille romanzi prodotti dal premio ne potrebbe uscire uno che ti ripaga di tutto: e intanto hai prodotto almeno 10 buoni romanzi, e lanciato 10 buoni scrittori, alcuni dei quali ripagheranno l’investimento, sia con le vendite, che portando turisti. E hai speso 1 milione in 10 anni. In cultura.

Parlo di un premio letterario, perchè è il mio interesse, io sono uno scrittore, ma la stessa proposta te la faccio sul premio d’arte contemporanea, sul film, sull’opera musicale.

Se quelli che dovrebbero, vorrebbero, potrebbero essere i mecenati della città, invece di pensare alla cultura come a una spesa inutile, di prestigio, la concepissero come una qualsiasi altra industria, produzione-distribuzione-vendita, a quel punto, nel loro affarismo, potrebbero anche “arrivarci su”, e capire che un bel romanzo di successo, tradotto e letto in tutto il mondo, è il miglior investimento pubblicitario che una città possa fare.

Come puoi pensare seriamente di proporti come città d’arte, di cultura, se non esiste un solo libro, un solo romanzo che faccia di questa città un luogo letterario, degno di stare nell’immaginario collettivo? Ma nemmeno una guida turistica ben fatta, esiste, a pensarci bene.

ma quale expo

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expoImage

A pagina 1 del faldone-masterplan presentato 3 anni fa dall’Italia al BIE (Bureau International d’Exposition) per candidarsi a ospitare Expo 2015 è scritto:

L’obiettivo principale di Expo Milano 2015 è dimostrare che è possibile – oggi, in questo mondo – garantire la sicurezza e la qualità alimentare e lo sviluppo sostenibile per l’intera umanità.

Ma se oggi vai sul sito di Expo quello che trovi in home page è:

Un’occasione unica per il tuo business! Partecipa alle gare, diventa Partner, Sponsor…

Le news sono: l’Indonesia ha firmato il contratto! Il sultanato di Brunei ha firmato il contratto per avere un padiglione in esclusiva!

Nessuna traccia dell’obiettivo principale, nutrire il pianeta, e nessuna traccia della guerra culturale e quindi economica che quell’obiettivo, se preso sul serio, dovrebbe scatenare, e cioè lo scontro tra culture, tra tecnologie: da una parte la transgenetica e le multinazionali, che promettono polpette facili, dall’altra gli eco-equo, che promettono un mondo sostenibile, naturale, solidale.

Sembra quasi che il “big problem” sia stato superato dalla “big solution”: il made in Italy!

La soluzione italiana come sempre è geniale, e trasforma il peggio del peggio nel meglio del meglio: con un tocco di magia, il food industriale sarà spacciato per naturale, buono, divino grazie alla firma “made in Italy”.

Nei fatti: i falchi della gdo, il falchi della grande industria, il falchi del sistema media/pubblicità, i falchi-burocrati di stato e di categoria, tutti questi falchi si sono fatti un sol boccone delle colombe del bio, del sostenibile, del km0, della democrazia alimentare,

e a questo punto cercano di mettere in scena un sistema omogeneo e virtuoso, come un super spot, come una riproposizione sistemica della mitologia barilla del mulino bianco,

che è la tipica operazione made in italy di valore aggiunto,

e di fatto una mistificazione integrale, per cui il biscotto ti viene proposto come fosse quello della nonna, cotto nel camino, con farina del proprio sacco, del proprio campo, mentre sappiamo benissimo che è prodotto in fabbriche dislocate ovunque da macchinari infernali manovrati da computer e alimentati automaticamente con ingredienti provenienti da tutto il mondo in container caricati su navi diesel e poi caricati su tir diesel e quindi scaricati in silos di plastica e poi di nuovo su tir diesel e infine, dopo essere stati confezionati sottovuoto, di nuovo su tir diesel fino al supermercato dove tu li compri, perchè ti ricordano tua nonna.

Questo è giocare sporco.

Mi viene da ridere quando qualcuno strilla alla pubblicità ingannevole. La pubblicità è ingannevole per definizione. Più è corretta, più è ingannevole.

Expo oggi svela palesemente le reali intenzioni e aspettative: rilancio del made in italy, puntando sul food. Una cosa che deve fare paura.

Nel settore moda, il made in Italy in 30 anni ha perfezionato la morte del settore tessile, della produzione artigiana, delle capacità sartoriali. Prima del made in italy, avevamo un esercito di sartine. Dopo il made in Italy, ci ritroviamo con un esercito di pr (un esercito sconfitto, tra l’altro).

Lo stesso sta per avvenire nel food. Prima dei dop, prima della gdo, prima del packaging, quando tutto era sfuso e non esistevano né marchi né marche, avevamo un esercito di panettieri, pasticceri, eccetera eccetera: oggi abbiamo solo un esercito di aspiranti master chef. Le zone coltivate si sono ridotte, non siamo nemmeno autosufficienti: e annunciamo di voler nutrire il pianeta!

In realtà, non ci ha mai creduto nessuno, a quella dichiarazione d’intenti.

Questo abbassamento dell’afflato, della mission, dal poetico “nutrire il mondo” al più prosaico “conquistare il mercato”, lo vedi soprattutto nella vicenda expo-bergamo,

la pre-annunciata expo-tech da tenersi al KmRosso, iniziativa in questi giorni messa in forse dalla mancanza di fondi, e con ogni probabilità destinata a non svolgersi.

L’expo-Bg al KmRosso avrebbe come tema le tecnologie industriali, macchine per la conservazione, il congelamento, la pressurizzazione dei prodotti alimentari, e il loro confezionamento in polistirolo, cellophane, plastica.

Tutte queste tecnologie sono pensate esclusivamente in una logica di profitto da grande distribuzione: proporle in un ambito “expo-nutrire il pianeta” significherebbe svelare la mistificazione in corso,

difficile improvvisare questa favola per cui la tecnologia dell’industria alimentare dei paesi sviluppati potrebbe risolvere il problema della fame dei paesi poveri, molto più facilmente potrebbe invece diffondersi la verità, e cioè che l’industria alimentare di fatto affama i paesi poveri a partire dalla base di ogni tecnologia, le sementi, la terra e l’acqua.

Questo è il messaggio, il dibattito che le colombe dovrebbero diffondere all’expo, ma il problema delle colombe, tragicamente, è nel loro essere colombe (vuoi fare la guerra alle multinazionali, e sei pacifista?!)

Mentre noi non abbiamo il coraggio di combattere questa guerra di idee, nel sud del mondo scoppiano guerre di ogni tipo.

Insieme al dossier-masterplan Expo2015, 3 anni fa, ti presentavano il dossier sulla fame nel mondo, con la lista dei 100 paesi in guerra con il problema della fame (che sono tutti paesi dell’africa, dell’asia o del sud america):

al n.100 il paese che se la passa peggio, il Congo,

ma la cosa inquietante è leggere oggi il nome del paese al n.1 del ranking, l’unico ad aver risolto il problema della fame: la Siria. 

atalantae veritas non deferentia sed differentia exit

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AtalantaSpad

Oggi tutti parlano di Percassi che rilancia 50,60 milioni per seat-pagine gialle, e noi invece parleremo di dea-compagine nerazzurra, in stile BgPost, più approfondimento che attualità, a partire dall’attualità.

Dobbiamo farlo noi perchè i media glocali sull’argomento dea sono molto deferenti, dal primo all’ultimo (solo BergamoNews, e il mitico Passirani, hanno osato sollevare dubbi e critiche sull’atalanta percassi style).

Per il resto, l’unica differenza tra l’EcoBg e il BgPost ultimo arrivato è questa: come l’eco non ti dirà mai la verità sugli affari della curia e del vescovo, così il BgPost  non ti dirà mai la verità sull’atalanta e percassi, il padrone della testata,

non farà mai luce su quelle zone d’ombra della presidenza percassi, di cui tifosi e addetti ai lavori parlano sottovoce, da anni, diffusamente e ovunque, tranne che sui media,

esattamente come si fa con le zone d’ombra che riguardano la curia.

Citerò tre zone d’ombra, tre “misteri” atalantini degli ultimi anni, con l’invito ad andare oltre la mentalità poliziesca che deduce il mandante del delitto dalle prove associandole probabilisticamente ai moventi a partire dall’interpretazione delle coincidenze: la prima è sospetta, la seconda un indizio, la terza una prova.

In realtà, come vedremo, la spiegazione profonda dei luoghi oscuri atalantini non viene dalla giustizia sportiva, ma dall’interpretazione psicanalitica.

Primo luogo oscuro: al tempo in cui il presidente Ruggeri cadde in coma, si cominciò a vociferare di Percassi come acquirente della società, si parlò di una o più cene Percassi-Doni o Percassi e senatori, e si sparlò in seguito dello scarso rendimento della squadra nel finale di campionato, con la retrocessione in serie b, che a parere di tutti poteva essere evitata.

(Movente: l’atalanta in serie a sarebbe costata a Percassi 20milioni di euro. Pochi mesi dopo, retrocessa in b, Percassi la pagò la metà, 10 milioni).

Sospetto: i calciatori, in accordo con la futura proprietà, hanno portato la squadra in b per svalutarla.

Secondo luogo oscuro: lo scandalo,  l’anno successivo, delle partite truccate da Doni e soci, per il quale l’intera tifoseria si mobilitò come a difendere un martire ingiustamente accusato, fino a essere smentiti dalla confessione finale di Doni, che si assunse ogni responsabilità (scagionando in tal modo la società) e meritandosi così 3 anni di squalifica (… e 3 anni a stipendio pieno, e parliamo di milioni di euro).

Movente: fosse stata dimostrato il coinvolgimento della società nella truffa sportiva (come è successo in passato a diverse squadre anche più blasonate della dea) l’atalanta come minimo sarebbe stata retrocessa in terza serie (e parliamo di un danno, in questo caso,  di decine di milioni di euro…)

Sospetto: Doni ha coperto la società, che gli ha pagato il silenzio.

Terzo luogo oscuro: oltre a Doni, in questi anni l’atalanta ha sempre tenuto a stipendio anche l’altro illustre lungo-squalificato, Masiello (già capitano del Bari, e da un punto di vista etico-tifoso ancor più colpevole di Doni, che faceva gol “organizzati”: Masiello fece il celebre autogol “pagato”, nel derby Bari-Lecce).

Ai tempi dello scandalo, dopo la confessione di Doni e Masiello (venuta dopo il carcere)  Percassi annunciò di volersi rivalere su questi “dipendenti fraudolenti” e anzi allo scopo avrebbe istituito un codice etico. Passati due anni, scaduti (e onorati) i contratti di Doni e Masiello, è arrivato nelle scorse settimane il codice etico (non retroattivo…).

Nel codice etico si condanna fermamente ogni forma di comportamento sportivamente scorretto e si vieta a ogni dipendente non solo qualsiasi pratica di scommessa sportiva, slot o gioco d’azzardo, ma anche la partecipazione a iniziative sovversive, reati contro l’ambiente, attentati terroristici,

e addirittura è vietata  “la pratica di mutilazioni degli organi genitali femminili” (sconcertante. non resta che deridere. articolo che interpretato estensivamente porterebbe al divieto di fidanzate con labbra e seno rifatto, considerando la chirurgia estetica una pratica primitiva di  deformazione degli organi genitali eseguita in sudditanza di credenze superstiziose…).

Ebbene, incredibilmente il giorno dopo la pubblicazione a mezzo stampa di questo codice iper-etico (e di fatto quasi comico) nato da due anni di riflessioni sul tema dell’etica “a tutto campo”, la società atalanta ha la faccia tosta di rinnovare il contratto a Masiello, per altri due anni. Come a dire: il vizio dell’autogol.

Vaga giustificazione addotta dai commentatori: Masiello ha pagato i suoi errori, può essere reintegrato.

Allora, allargando il quadro, la morale che esce dallo scandalo calcio scommesse è chiara: chi viene beccato e condannato e squalificato, non viene estromesso dalle squadre, ma anzi sostenuto “nella pena” e prontamente ripreso nella famiglia (come anche il caso del capitano della Lazio, e altri)

l’inquietante parallelismo è quello con i mafiosi in carcere: se non parlano e non si pentono,  limitandosi ad ammettere le proprie responsabilità, sono uomini d’onore; se  parlano e diventano collaboratori di giustizia sono infami, e vengono ostracizzati per sempre,

(come il caso dell’unico calciatore italiano che ingenuamente raccolse l’appello del presidente della federcalcio a tutti i calciatori a denunciare le truffe sportive di cui si era a conoscenza… chiamato addirittura a fare una comparsata in nazionale come esempio etico, l’anno dopo non trovò nessuna squadra disposta a ingaggiarlo, nemmeno in serie b o c, ed emigrò a giocare all’estero)

ampliando la prospettiva, guardando in casa d’altri, si vede che i luoghi oscuri atalantini sono simili ai luoghi oscuri di quasi tutto il calcio italiano,

quella che risulta unica ed esemplare è la sfacciataggine, l’enormità dell’ipocrisia per cui oggi promulghi un codice etico che il giorno dopo sei il primo a calpestare rinnovando il contratto a un calciatore simbolo della frode sportiva (l’autogol nel derby!)

due news che s’ammazzano a vicenda,  che probabilmente un grande club, con uffici stampa e comunicazione più sgamati, avrebbe evitato di esibire o far coincidere.

Lo psicanalista non ha dubbi: quest’ultimo caso non è da considerare come un luogo oscuro, ma piuttosto un mettersi a nudo, una palese autodenuncia di chi in realtà inconsciamente desidera essere smascherato, non reggendo più l’ipocrisia cui è costretto.

E così conclude l’amico psicanalista: ogni menzogna ne richiede ulteriori, alla fine intorno a un peccato originario sorge un castello di menzogne, nel quale si resta imprigionati, o dal quale si esce pazzi, secondo la sindrome del grande dittatore.

Al di là di quello che si pubblica sui media, quello che tutti pensano realmente è evidente.

“Secondo te” mi ha detto un vecchio magut, ex commandos “se Percassi becca un dipendente a rubare rame nei cantieri, lo lascia a casa a stipendio pieno?

Tutte cose che un vero giornalista dovrebbe sapere, e un vero giornale pubblicare.

Sarà molto difficile anche per il BgPost spiegare perchè l’atalanta abbia pagato per tre anni un attaccante squalificato per i suoi “gol facilitati” da avversari prepagati, invece di chiedergli i danni!

E ancora più difficile spiegare perchè il giorno dopo la promulgazione fanfarata del codice etico la società abbia rinnovato il contratto a un difensore squalificato due anni per aver fatto “autogol” su commissione, come da accordi con gli scommettitori!

A rigore, la società stessa dovrebbe licenziare sè stessa per non aver rispettato il suo stesso codice etico.

Molti avrebbero preferito un codice etico non fatto di parole, ma di fatti che parlano: e dunque non vedere Doni stipendiato, e nemmeno il contratto di Masiello rinnovato.

E c’è anche chi – un genere superiore di uomo d’onore, quello che veramente vive nel primato dell’etica – avrebbe preferito che la società si prendesse comunque ogni responsabilità, come facevano i grandi condottieri, i samurai, e le dee-amazzoni,

e dunque andare in serie c, e rinunciare ai milioni della serie a, ma non alla dignità, che non ha prezzo.

 

 

de cerebro sgarbi sine tentorio

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sgarbiTentorio

De cerebro Sgarbi sine tentorio in vano Bergomi loquendo pro Gamec Ubiqua:

il critico d’arte Sgarbi è venuto a Bergamo a  vedere una mostra e ha rilasciato dichiarazioni disinteressate e di un certo spessore culturale come:

“questa mostra  è talmente bella”

“nel corso di questi anni ho sempre visto i quadri della Carrara” (è chiusa da 5 anni)

“chiunque vinca, perfetta la Gamec ai Magazzini Generali” (progetto di Ubi banca)

“Gori è un sindaco da periferia, andrebbe bene per Bergamo Ovest”

“Tentorio è avvantaggiato perchè non lo conosco”

E si vede. Se Sgarbi avesse delle nozioni basilari di anatomia, oltre a comprendere meglio la storia dell’arte, non avrebbe mai detto una frase del genere, che di fatto mette a nudo l’origine dei suoi problemi:

il tentorio infatti è la membrana che separa il cervello dal cervelletto (Wikipedia).

veritatem dies aperit

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ROVETTA DISSOTTERRAMENTO8

veritatem dies aperit, cioè “il tempo svela la verità” (Seneca)

sulla strage di Rovetta, sul perchè sia stata compiuta, ecco le 5 risposte più accreditate, che non si escludono, ma concorrono:

1)   per imitazione/competizione con la fucilazione di Mussolini (nello stesso giorno)

2)   per vendicare Giorgio Paglia e i crimini commessi da altri militi della Tagliamento

3)   per motivi finanziari, per ottenere i “rimborsi” del SOE inglese (tot uccisi tot cash)

4)   perché tra i 43 balilla c’era un nipotino di Mussolini, figlio dellla sorella, fucilato per ultimo, costretto a guardare morire tutti i compagni (camerati)

5)   per complotto anglo-democristiano, per screditare subito i comunisti, sanguinari, inaffidabili come forza di governo (e qui bisognava chiedere a Don Spada).

Nessuna di queste motivazioni appare onorevole, sostenibile a voce alta: da qui il silenzio “omertoso” di autorità, associazione partigiane, democristiani, curia e stampa catto-comunista.

Infine, una domanda ai “Ribelli della montagna”: ma secondo voi i partigiani e gli antifascisti negli anni Quaranta si occupavano di questioni di 70 anni prima, polemizzavano sulle guerre d’indipendenza, su cose dell’Ottocento?

Perchè non vi occupate di cose del presente e del futuro? Per fare la storia, serve coraggio. Ma anche per rileggerla, e riscriverla. Chi sono i nazifascisti che oggi ci affamano? I vecchietti di Rovetta? O quelli che siedono al Quirinale?

Sapevate che Napolitano ancora nel novembre del 44 era iscritto al partito fascista e si era già infilato in una redazione di un organo di stampa di regime?

E che Elio Vittorini, prima di diventare il leader degli intellettuali di sinistra e incitare al massacro dei “figli di stronza” (“Uomini e no”, lettura obbligatoria per decenni nelle scuole di stato)  andava tutto azzimato ai congressi degli intellettuali nazisti con Goebbels?

Napolitano e Vittorini, ecco due veri servi del regime, tutti presi a far carriera mentre le leggi razziali erano già in vigore da anni, e i veri antifascisti venivano già ammazzati da anni…

e poi, da un giorno all’altro, eccoli iscritti al partito comunista, campioni dell’antifascismo, apostoli della “peste da estirpare”: e molta gente è morta a causa della cattiva coscienza di personaggi del genere, maestri del trasformismo, sempre a cavallo del potere, intolleranti verso chi è fedele a una scelta, anche nella sconfitta (cosa che invece merita rispetto).

Allora, se proprio vogliamo attaccare i “servi del potere”, i fascisti riciclati, possiamo fare il nome di Napolitano, etichettarlo come vile, o è reato? Vilipendio?

Coraggio, ribelli!

(photo: cimitero di Rovetta, dopoguerra, le mamme dei balilla dissotterrano le salme dei figli, poi inumate al cimitero del Verano di Roma)