libertà o morte

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il 5 maggio 1863, guidando i Legionari di Polonia a una carica “libertà o morte” contro i Cosacchi, moriva giovane e lontano dalla sua Bergamo, “il più bello dei mille”, Francesco Nullo,

eroe talmente nitido, che chiunque potrebbe appropriarsene, purchè estremo,

di estrema destra, perchè militarista, patriota, guerrafondaio, protofascista,

di estrema sinistra, perchè internazionalista, guerrigliero, insurrezionalista, e soprattutto inventore della divisa poi di tutti i rivoluzionari, la camicia rossa,

di estremo centro, perchè idealista, libertario, radicale, anticlericale, imprenditore sovversivo,

di fatto l’hanno messo in un angolo a fare la figurina del Risorgimento,

perchè Nullo oggi fa paura, uno capace di mollare tutto per la libertà, e non mollare quando  non è rimasta che quella,

uno che distribuiva volantini con scritto “quando le autorità intercettano le lettere, è ora di mollare la penna e impugnare le armi”, e così facendo ha reclutato in città 300 garibaldini su 1000

uno che poteva essere ministro, dopo aver guidato la spedizione dei Mille, e invece, schifato dai Savoia, dall’inciucio, con gli amici reduci garibaldini parte per la Polonia, perchè “dove si combatte per la libertà, là c’è la mia patria”

esattamente come  farà Che Guevara 100 anni dopo andando a farsi ammazzare in Bolivia.

Nell’immagine, poster commemorativo realizzato da Athos Mazzoleni e Leone Belotti,

rifiutato dal Comune di Bergamo, ma è comprensibile,

nel comitato Bergamo2019 la Curia è voce e sponsor principe,

e qui stiamo parlando di uno che intendeva impiccare l’ultimo papa

con le budella dell’ultimo re.

una gran testa di computer

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Tratto da “The male code” by Leone Belotti, da un’idea di Gian Franco Bortolotti, cap4 “il sistema operativo” 

«Se vuoi sapere la verità Paky, a me i videogiochi non interessano più»

«E cos’è che ti interessa?»

«I sistemi operativi. I nuovi computer, i personal computer. Sarà quella la nostra prossima sfida»

«Spiegati meglio amico mio, stai parlando di qualcosa di gigantesco »

«La mia idea Paky per ora è solo un’intuizione. Abbiamo creato una nuova periferica di controllo, che sostituirà il cazzo-joystick con il touch-figa.

Bene, ora occupiamoci di qualcosa di più complesso, l’elaboratore centrale, il sistema operativo, intendo dire: il cervello dei computer, l’intelligenza artificiale, è questo che mi interessa.

Sto cercando di ragionare e agire come un’intelligenza artificiale, in ogni cosa che faccio, con ogni persona che incontro.

Un uomo deve essere capace di entrare in empatia con chiunque grazie alla capacità di percepire ed elaborare tutti i micro segnali che l’altra persona ci invia.

Il vero controllo è quello sulla mente delle persone. Quando hai la mente di una persona, puoi facilmente prenderti anche il cuore.

E sai qual è il punto, Paky? Un computer non sbaglia mai, ottiene sempre il risultato. Non si fa fottere dai “sentimenti”, dalla paura, dalla rabbia, dalle pulsioni sessuali.

E’ lì che voglio arrivare. Non voglio dover dire  come mia madre la mia disgrazia è stata innamorarmi della persona sbagliata. Mi capisci, testa di pollo al curry?»

Paky non risponde. Sta fissando il mare, un punto lontano, all’orizzonte.

«Se tutti prestassero la stessa attenzione nel fare le cose; nello scegliere il lavoro, nell’amore,  nello scegliersi i compagni, se seguissero la logica, e non le paure e i pregiudizi e i giudizi altrui,

se si liberassero dalla maleducazione ricevuta dai genitori – almeno della parte più violenta e strumentale – sarebbero più consapevoli…. se la stessa attenzione che tu metti nello scegliere il componente di un circuito elettronico…

voglio dire, Paky, anche tu potresti scopare le belle fighe se la stessa disciplina che metti nel lavoro, la mettessi nella cura di te stesso!»

Stronzo pensa Paki.

qui pro quo

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La maggioranza si rendeva naturalmente conto delle sue attività criminali,

ma preferiva dare il suo voto al forte piuttosto che al giusto.

Purtroppo il popolo italiano, se deve scegliere tra il dovere e il tornaconto, pur conoscendo quale sarebbe il suo dovere, sceglie sempre il tornaconto.

Così un uomo mediocre, grossolano, di eloquenza volgare ma di facile effetto, è un perfetto esemplare dei suoi contemporanei.

Presso un popolo onesto, sarebbe stato tutt’al più il leader di un partito di modesto seguito, un personaggio un po’ ridicolo per le sue maniere, i suoi atteggiamenti, le sue manie di grandezza, offensivo per il buon senso della gente e causa del suo stile enfatico e impudico.

In Italia è diventato il capo del governo.

Ed è difficile trovare un più completo esempio italiano.

Ammiratore della forza, venale, corruttibile e corrotto, cattolico senza credere in Dio, presuntuoso, vanitoso, fintamente bonario, buon padre di famiglia ma con numerose amanti,

si serve di coloro che disprezza, si circonda di disonesti, di bugiardi, di inetti, di profittatori;

mimo abile, e tale da fare effetto su un pubblico volgare, ma, come ogni mimo, senza un proprio carattere,

si immagina sempre di essere il personaggio che vuole rappresentare.

Elsa Morante su Mussolini, 1945,

pubblicato 2010 da Federico Carrara in

http://ammmore.federicocarrara.it/

the male code cap 3

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The male code (il maschio digitale) by Leone Belotti  

3 – la periferica di controllo  – Detroit, 1978.

«Ciao Mary Ann»

«Ciao Chri»

Nessun altro, adulto o coetaneo, maschio o femmina, lo può chiamare così senza irritarlo, ma lei sì, Mary Ann l’ha sempre chiamato così, fin da quando avevano tre anni.

Tutti li hanno sempre presi per fratelli. Anche Mary Ann ha un viso di lineamenti delicati, ed è una ragazzina sottile, silenziosa e dagli occhi intelligenti.

Qualche volta, da bambini, “giocando a dottori”, Mary Ann gli ha fatto vedere “la passerina” e lui le ha fatto vedere “il pistolino”.

Sono cresciuti ripetendosi “da grandi sposiamo”, ma ora da qualche anno non se lo dicono più.

«C’è Jenny?» chiede Christian.

«Si, entrate»

Spalanca la porta, e chiama “mamma!”.

Jenny Mc Bride sbuca dalla cucina con indosso un grembiule.

Al vedere Christian come sempre ha un grido di gioia, si pulisce le mani, lo abbraccia, lo bacia. Christian fa finta di essere imbarazzato.

«Sai Jenny, io e il mio amico qui, Paky…»

«Giorno, signora McBride!»

«Caio Paky! A casa tutto bene?»

«Si, signora, grazie»

«Allora, Christian, avete sete? Una coca?»

«Grazie, signora Mc Bride» dice Paky, e Christian gli rifila un’occhiataccia.

Jenny lo vede, sorride, gli chiede: «Tu non la vuoi Christian una bella coca cola fredda, con la cannuccia?»

La seguono in cucina. Sopra il frigorifero è accesa una piccola Tv nella quale si agitano i faccioni allegri dei Robinson.

Quando lei porge loro le due bibite, Christian dice: «Ecco, noi veramente siamo venuti a chiederti un piacere»

Jenny lo guarda incuriosita.

Ricorda ancora, e certo la ricorda anche lui, quella volta, molti anni prima, lui aveva non più di sette o otto anni, quando le chiese “un piacere”:

se poteva prestargli dieci dollari per dieci giorni.

Lei gli aveva risposto: mai prestare soldi agli amici, perdi i soldi e perdi l’amico. Te li regalo, i dieci dollari che ti servono.

«Basta che non mi chiediate soldi, ragazzi, perché questo mese sono in bolletta»

«Si tratta di fare una telefonata» dice Christian.

«Una telefonata? Ti serve il telefono?  E hai bisogno di chiedere?»

Paky fa un passo avanti: «Il nostro problema, signora Mc Bride, è che ci prendono per ragazzini e non ci dicono niente. Abbiamo fatto delle prove. Poi Christian ha detto: so io chi potrebbe fare per noi questa telefonata! E così eccoci qui!»

«Spiegatemi»

Christian tira fuori una rivista specializzata in videogiochi, la apre a una certa pagina e inizia a spiegare.

Dopo pochi minuti Jenny Mc Bride dice: «Ho capito».

Ci pensa due secondi. Le stanno chiedendo di mentire, fingere di essere un’altra persona.

«Ok» dice.

Si toglie il grembiule, scalcia le ciabatte, va nel ripostiglio-lavanderia-guardaroba,  quasi subito torna con in mano delle scarpe coi tacchi, se le infila in un istante, si ravviva i capelli,  spegne la tv e prepara un taccuino con la penna sul tavolo.

Quindi afferra la cornetta del telefono a muro dotato di cavo chilometrico.

Compone il numero stampato sulla rivista che Christian le regge, e inizia a camminare avanti e indietro.

Appena sente rispondere, si siede al tavolo davanti al taccuino, e accavalla le gambe.

«Buon giorno, mi chiamo Helena Pickwick, chiamo da Detroit per quel vostro annuncio sul Joystick Atari riservato ai distributori…»

«Si, ho un negozio di giocattoli e modellismo, cioè, mio padre, Jerome Pickwick, che però di videogiochi non capisce niente ma mi ha dato carta bianca, quindi mi interessano le condizioni che proponete, il materiale che fornite e…»

Per cinque minuti Jenny ascolta prendendo nota, scrivendo rapidamente nomi e numeri, limitandosi a dire dei «si» «chiarissmo» fino a chiudere con  un «è stato gentilissimo Dr.Necker, mi dia un paio di giorni per fare le mie valutazioni. La richiamerà io».

Quindi strappa dal taccuino il foglio fitto di annotazioni e lo allunga a Christian.

* * *

«Signor Pickwick, io e il mio amico Paky siamo clienti del suo negozio di giocattoli e modellismo da almeno dieci anni»

L’espressione di Christian è molto compita.

Come tutti i ragazzini del quartiere, lui e Paky quando erano più piccoli hanno passato interi pomeriggi a sognare davanti alle quattro vetrine di PW Toys.

«Mi ricordo di voi due!» ribatte subito il vecchio signor Pickwik, scrutandoli arcigno da sopra gli occhiali.

C’è qualcosa di ostile nella sua espressione?

Ora Christian è colto dal dubbio che  il vecchio si ricordi di quella volta che gli hanno rubato due modellini di Harley Davidson.

Erano convinti di averla fatta franca, ma per un bel pezzo non avevano più avuto il coraggio di entrare nel negozio con la solita frase “possiamo guardare?”.

«Noi vorremmo chiederle ….»

«Se avete in mente di chiedermi di farvi credito, ragazzi, ve lo dico subito: capitate al momento sbagliato!»

Da almeno un paio d’anni Jerome Pickwick sta lottando con tre voci che gli risuonano in testa: quella della sua coscienza, quella di sua figlia Helene, e quella del suo commercialista.

“Devi chiudere, Jerome” gli ripetono tutti e tre in coro.

Da quarant’anni manda avanti l’attività iniziata da suo padre nel 1938, con un piccolo laboratorio-negozio dove produceva e vendeva automobiline e soldatini di latta e di legno, a basso costo, per i figli degli operai dell’industria automobilistica che in quegli anni producevano carri armati e cannoni.

Lui a differenza di suo padre non era mai stato un artigiano, ma un commerciante: a partire dal dopoguerra, aveva ingrandito due volte il negozio, e per due decenni il “PW toys”, nell’epoca trionfale dei giocattoli di plastica, aveva reso bene.

Era nata Helene, ma lui avrebbe voluto un maschio, perché non aveva intenzione di trasformare PW Toys in un negozio di bambole.

Quando Helene era ancora  piccola, era rimasto vedovo.

Poi era iniziato il declino.

I grandi centri commerciali potevano permettersi prezzi per lui impensabili.

Per alcuni anni era stato il settore modellismo a tenerlo a galla.

Ora PW Toys era un vecchio negozio di quartiere, in perdita, destinato a chiudere.

«Non abbiamo intenzione di farle perdere soldi, signor Pickwick, ma di farglieli guadagnare»  dice Christian.

Paky gli mette sotto il naso la rivista: «Abbiamo avuto un’idea».

Il sessantaquattrenne Jerome Pickwick butta un occhio all’annuncio che i due ragazzi gli sottopongono, ma appena capisce di cosa si tratta, restituisce la rivista.

«Niente da fare, ragazzi, non tratto questa roba»

«Questa roba è il futuro, signor Pickwick»

«lo so ragazzi, avete ragione, ma io non ci capisco niente di videogiochi, come faccio a vendere qualcosa che non conosco, che non mi piace? Non posso! E non ho alcuna voglia alla mia età…»

«Lo sappiamo. Proprio per questo siamo qui. Lasci che le spieghiamo la nostra idea. Ci impiegheremo sette minuti, se non ci interrompe»

Jerome Pickwick sorride.

«Come forse saprà, la Atari sta rivoluzionando il settore dei videogiochi. Con l’arrivo della nuova consolle dotata di Joystick il mercato dei videogiochi domestici avrà una crescita esponenziale. Ora stanno lanciando una grande operazione commerciale per entrare in tutti i negozi di giocattoli e modellismo…»

«So già tutto ragazzi, e ho già mandato via almeno tre rappresentanti, oltre a una serie di vostri coetanei che volevano prenotare questo nuovo giò-stick o come diavolo si chiama…»

Christian capisce che è giunto il momento per sparare un’altra delle frasi che si è preparato: «Noi sappiamo qual è il suo problema, e siamo qui per risolverlo».

«Il punto chiave della strategia promozionale Atari è la visibilità. Per questo offrono ai dettaglianti merce in conto vendita, materiale da vetrina, espositori, poster, e soprattutto una postazione di gioco completa, a disposizione del pubblico, per provare il nuovo Joystick»

«L’idea è questa» interviene Paky «ci occuperemo di tutto noi, la vetrina, la vendita, e soprattutto la postazione: uno di noi due, o entrambi, saremo qui ogni pomeriggio, e dal mese prossimo, finita la scuola, tutto il giorno, a disposizione dei clienti che vogliono provare il nuovo sistema, li faremo giocare con la consolle e con i nuovi videogiochi… »

«Ne venderemo una caterva» prosegue Christian «lei devo solo metterci a disposizione la vetrina su Main Road, e una piccola zona del negozio che chiameremo settore videogiochi, dove piazzeremo la postazione di gioco. Senza dover fare niente, e senza rischiare niente, le garantiamo un aumento costante degli incassi…»

Il signor Pickwick vorrebbe scoppiare a ridere, ma si trattiene, e sta al gioco.

Con serietà, chiede: «E cosa vorreste in cambio?»

Christian alza le spalle come se la risposta fosse ovvia: «Il 50% dell’utile sul fatturato del settore “videogiochi”»

«Siete fuori dal mondo, ragazzi. Avete idea delle spese che ho? E le tasse? Ammesso che riusciate a convincermi a fare una pazzia del genere, il massimo che posso riconoscervi è una provvigione sulla vendita, diciamo tra il 10% e il 20%»

«Trenta» dice Christian «consideri tutto il lavoro che faremo per curare la vetrina, allestire la postazione, e promuovere il prodotto nelle scuole, con il passa parola»

«Facciamo il venticinque, allora, non un dollaro in più»

Paky guarda Christian.

«Affare fatto» dice Christian.

Il silenzio cala nel grande negozio.

«C’è un problema, voi siete troppo giovani per incassare delle percentuali sulle vendite»

«Abbiamo fatto i quindici anni, può farci un contratto da apprendisti non pagati»

«E la vostra percentuale?»

«Cash sul venduto ogni sera, quando chiude la cassa»

Jerome Pickwick adesso riflette. Pochi giorni prima al centro commerciale ha visto di persona la folla di ragazzini che assediava il corner promozionale della Atari, e i genitori in coda alla cassa.

«Fra tre mesi, se non sarà soddisfatto, potrà sempre rimandare tutto indietro alla Atari senza aver speso un dollaro»

Per la prima volta da molto tempo, al posto delle voci “devi chiudere!” dentro di lui si leva una voce che non sentiva da decenni.

La voce di suo padre. “Provaci, Jerome!”.

Severo, dice: «Voglio vedere i vostri genitori, e avere la loro autorizzazione»

* * *

Helen Pickwick è la classica ragazza annoiata, insoddisfatta, viziata, con la puzza sotto il naso, che disprezza l’ambiente in cui è cresciuta, ossessionata da frasi come sto buttando via la mia vita e voglio andarmene da questa città di merda.

Ha quasi trent’anni, e diversi tentativi fallimentari alle spalle.

Seguendo questo o quel principe azzurro, ha vissuto a New York, a Los Angeles, è stata tre mesi in Europa, un mese in India, ha provato le droghe, il sesso estremo, l’anoressia, gli psicofarmaci e ha fatto parte di una setta new-age.

E ogni volta, alla fine, è sempre tornata a casa, dove suo padre la chiama ancora “stellina” come quando aveva cinque anni.

Appena appresa la novità del “reparto videogiochi”, ha reagito male, e senza degnare di uno sguardo i due quindicenni che suo padre si è tirato in negozio è andata dritta a fare due chiacchiere con Donald, il commercialista di famiglia, il ritratto dell’americano affidabile, quarantenne, sposato, abbronzato, capelli a spazzola, padre di due figli e profondamente porco, come lei stessa ha sperimentato più volte.

Era sicura di avere il suo appoggio per far cambiare idea a suo padre, ma Donald le ha spiegato chiaramente che nonostante da un anno lui pubblichi, a insaputa del vecchio, un’inserzione per vendere il negozio, ancora nessuno si è fatto avanti seriamente.

E quindi, qualsiasi iniziativa prenda il vecchio per rendere più appetibile il negozio, e magari ridurre le perdite, purché non comporti spese, è da approvare.

Dopo i primi approcci freddi, il ghiaccio si è rotto quando i due ragazzini con le mani dietro la schiena le hanno confessato, supplicando il suo perdono, e spiandole il seno, di aver usato il suo nome per chiamare l’ufficio commerciale della Atari.

Ora lei, come fa svogliatamente un paio di pomeriggi la settimana, è nel piccolo ufficio in fondo negozio, ricavato utilizzando gli scaffali come pareti divisorie.

Mentre controlla e mette in ordine le fatture, ascolta distrattamente le chiacchiere che i due sbarbatelli fanno al di là del divisorio, dove hanno appena finito di allestire la postazione Atari.

Li trova divertenti, e siccome loro non sanno che lei è lì, sta vagamente pensando di metterli in imbarazzo, rivelando la sua presenza al momento opportuno.

* * *

«A me sembra una figata, Christian!»

La voce di  Paky è concitata. Da due anni aspettavano questo momento.

Finalmente, nella postazione promozionale appena montata nel negozio, stanno provando il nuovo joystick.

Alla guida di due Jeep Wrangler identiche stanno affrontando a velocità folle un’impervia mulattiera di montagna che corre a strapiombo su un profondo canyon.

«Sembra una figata, ma è solo una mezza figata» dice Christian.

I suoi  occhi sono incollati ai fanalini di coda della Jeep guidata da Paky. Il  tracciato è accidentato e irto di ostacoli, sorpassare è un azzardo.

Nei brevi rettilinei Paky perfidamente gli lascia spazio sul lato strapiombo sperando che l’amico tenti il sorpasso per poi scaraventarlo di sotto con un colpo di sterzo ben assestato.

Ma lui non ci casca e resta incollato alla scia di Paky in attesa del varco giusto sul versante a monte.

Poi Paky, nell’affrontare una stretta curva a sinistra, quando si trova esattamente a centro curva, con Christian che lo tallona a ruota, invece di aprire il gas, pianta una frenata improvvisa, e all’accendersi inaspettato delle luci di stop, Christian è colto di sorpresa.

D’istinto tira il joystick completamente verso di sé.

Mentre la Jeep di Paky dopo una leggera scodata riprende subito il controllo e la traiettoria, lui perde aderenza, sbanda, urta la parete rocciosa, va in testacoda e nonostante tenti inutilmente di tenere la Jeep in carreggiata controsterzando, precipita nello strapiombo.

La Jepp si schianta con uno splash nelle acque verdi del fiume che scorre in fondo al canyon.

Il pilota-Christian sguscia dall’abitacolo e inizia a nuotare, ma dopo poche bracciate è raggiunto da tre coccodrilli che in tre morsi – gambe, bacino, testa – lo divorano per intero. Una chiazza rossa si allarga sull’acqua fino a occupare tutto lo schermo.

A caratteri cubitali compare la scritta GAME OVER.

Christian molla il joystick.

«Capisci Paky? Il problema non è il joystick, il joystick è precisissimo. Il problema è il polso»

« A parte il fatto che io ho più polso di te, amico mio, cosa intendi? »

«Intendo dire che il polso umano non è il terminale di comando ideale»

«Può darsi che tu abbia ragione, Christian. Ma non riesco a immaginare cos’altro si possa usare per manovrare tutto  quello che vuoi esattamente come fosse il tuo uccello»

Christian sorride maliziosamente: «Io invece credo che per far funzionare l’uccello ci sia una periferica più performante del polso. Si chiama F-I-G-A»

Paky ride: «Bella battuta, amico mio, però non ti seguo, »

«Ragiona, testa di zenzero. Siamo due scienziati del cazzo, sappiamo tutto sul nostro cazzo-joystick, ma non sappiamo quasi un cazzo sulla periferica di controllo che ci interessa veramente: la figa!»

«Vai avanti professor Darwin, sento che stai per fare un ragionamento scientificamente interessante»

Christian sorride: «è solo un’ipotesi di ricerca, una supposizione priva di verifiche sperimentali. Ma immagino che nella figa delle donne ci siano sensori di controllo molto sofisticati, che dovremmo imparare a manovrare»

Christian pensa alla signorina Lewis.

Paky dice: «Nella figa l’unica manovra da fare è dentro-fuori, su-giù, anche un joystick senza connessione andrebbe bene, se abbastanza grosso  e duro»

Christian lo degna di uno sguardo di commiserazione: «Sbagli completamente approccio, Paky. Lascia perdere il tuo divino micro-uccello salsiccia alla cannella. Pensa a quello che fanno le donne per i cazzi loro, quando non hanno un uccello a disposizione. Hai presente la copertina di Hustler del mese scorso?»

«Ce l’ho stampata in testa, amico mio. Intendi quella specie di massaggiarsi la figa bagnata col polpastrello del dito?»

«Se fai bene attenzione ai particolari, Paky, vedi che non si massaggia la figa vera e propria, ma qualcosa appena sopra»

«Uhm, e allora?»

«E allora vorrei capire il tipo di controllo digitale che hanno le donne nel farsi una sega »

«Si chiama ditalino»

«Chiamalo come vuoi Paky, ma vorrei sapere come funziona. Il cazzo funziona come un joystick, si manovra di polso, zum-zum, ma la passerina? Ci dev’essere un sistema di controllo là sotto, altrimenti, se bastasse un qualsiasi contatto, non potrebbero andare in bicicletta senza entrare in orgasmo multiplo!»

«E chi ti dice che non sia così? Hai mai notato come pedalano a volte, a gambe strette, strusciandosi le cosce e sedute in punta sulla sella?»

Paky ha appena finito di parlare quando dall’altro capo del negozio il vecchio lancia una voce:

«Stellina! Fai tu la chiusura?»

I due amici ammutoliscono. Da dietro lo scaffale vedono comparire la figura di Helena.

* * *

«Si, papà, vai pure, ci penso io»

Il signor Pickwick esce di fretta, e li saluta con un cenno dalla vetrina prima di tirare giù le saracinesche.

Helene attraversa il negozio, chiude la porta a chiave, quindi torna verso di loro.

«E così vorreste sapere come funziona la passerina?»

Il primo a reagire è Christian. Senza parlare, annuisce muovendo rapidamente la testa su e giù.

Helene fa un passo avanti, e si siede gambe penzoloni sull’alto bancone davanti a loro.

«Avvicinate i vostri sgabelli» dice, e Christian e Paky trascinano rumorosamente i loro bassi sgabelli in avanti fino a ritrovarsi seduti a mezzo metro dalle sue ginocchia.

«Ascoltate, e guardate, ma non provate ad allungare le mani per nessun motivo, ok ragazzi?»

Ricevuto l’ok, lei dapprima solleva le ginocchia puntellando i talloni delle sue Reebok bianche sulle maniglie dei cassetti.

Poi alza l’ampia gonna estiva, e lentamente spalanca le gambe.

Indossa mutandine bianche.

Semplicemente scostandole con la mano, mostra loro qualcosa che non hanno mai visto né immaginato.

La sua “passerina” è totalmente depilata, come quella di una bambina.

Christian con movimento impercettibile avvicina la testa. Nel vederla toccarsi Paky inizia a sudare.

«Queste si chiamano grandi labbra, e queste sono le piccole labbra».

Lascia andare le mutandine. Quindi se le abbassa da sopra.

«E questo è il clitoride»

Christian e Paky osservano quello che pare a tutti gli effetti un pene in miniatura di cui non si sarebbero mai sognati l’esistenza.

«La cosa più importante, per fare un ditalino, è la condizione psicologica ed emotiva. Dovete imparare prima di tutto a fare in modo che la vostra compagna si rilassi, mostrandovi sicuri, fluidi, e non impazienti,  con carezze, baci, con calma, prima al viso, poi, alle spalle, alla schiena, alle cosce, ma non troppo in alto. Non dovete mostrare di avere fretta… anche se c’è qualcosa che vi scoppia nei jeans»

Compiaciuta, nota il rigonfiamento sulla patta dei suoi due spettatori.

«Quando sentite che lei si sta rilassando, e non reagisce irrigidendosi ad ogni vostro tocco, ma assecondandolo, inizierà la seconda fase, l’eccitazione: comincerete a sfiorarle il seno, continuando a baciarla,  prima sotto, poi intorno ai capezzoli, che diventeranno duri e sporgenti.

A quel punto porterete una mano sotto, le farete una carezza molto leggera sopra le mutandine, mi raccomando, mai infilare la mano subito sulla “passerina”.

Ci arriverete poco per volta, passando delicatamente il dito sulle grandi labbra come sto facendo io. A questo punto potete trovarvi davanti a due scenari diversi.

Se la passerina è secca come il lago salato, non insistete con sgrillettamenti furiosi che sarebbero solo fastidiosi.

Piuttosto, infilatevi il dito in bocca – così –  insalivatelo bene, e riprovate.

Quando la passerina è umida, potrete cominciare a massaggiarle il clitoride, molto delicatamente, con movimento rotatorio, in questo modo»

«Lei inizierà ad avere il respiro affannato, eccitata. E’ il momento per la terza fase, il ditalino vero e proprio.

Porterete il pollice sul clitoride, col palmo della mano rivolto verso la passerina, e le infilerete dentro il medio, assicurandovi in precedenza di non avere le unghie troppo lunghe, o spezzate, o sporche.

Una volta inserito, inizierete a muoverlo fino a quando sentite la vagina sempre più morbida e umida.

Quindi inserirete un secondo dito, l’anulare, e quando entrambi saranno dentro, li intreccerete tra loro, muovendoli, non verso il collo dell’utero, ma cercando di raggiungere un punto dietro il clitoride, che nel frattempo continuerete a sfiorare col pollice, così»

«Ora sentite che le vostre dita toccano qualcosa di vivo, della consistenza di una caramella gommosa. Non vi spaventate: è il punto g, siete arrivati a destinazione»

Allibiti, Christian e Paky osservano Helena infilarsi tra le gambe tutte e quattro le dita, mentre il pollice, da fuori, continua a muoversi sul clitoride.

Ora ha gli occhi chiusi, il suo bacino sussulta sul bancone, e in rapida sequenza emette tre brevi grida acute.

Quindi toglie le mani, e la mutandina torna al suo posto.

Si appoggia indietro ed espira.

Le gambe sono sempre spalancate, le apre e chiude quasi come dovesse ventilarle.

«Mi raccomando, quando sentite che lei sta venendo o è appena venuta, resistete alla tentazione di saltarle addosso e infilarle il pistolino. Lei ha raggiunto l’orgasmo, e ha bisogno di relax. La sega che vi farete a casa sarà molto più appagante»

Christian osserva la mutandina, adesso c’è una chiazza umida.

«Posso annusare?» dice.

* * *

Alla fine  del primo mese, quando ha visto gli incassi, Helena dice  loro: «Sedetevi sul bancone. Vi meritate un bel pompino».

Tre mesi dopo, il “reparto videogiochi” realizza da solo il 70% degli incassi totali di PW Toys, che sono triplicati, e in aumento costante.

Con le loro “percentuali” Christian e Paky stanno mettendo da parte un piccolo gruzzoletto.

«Signor Pickwick, abbiamo avuto un’altra idea»

«Ci sono delle cose che vorremmo fare»

«Quella parte di magazzino che non usa, quello che una volta era il negozio di suo padre, pensavamo di farci un laboratorio dove produrre roba nostra»

«Versioni customizzate dei giochi, periferiche sperimentali, modificate, prototipi, piccole produzioni artigianali da vendere col marchio PW Toys»

«Ormai Helena  sa tutto dei prodotti standard ed è meglio di noi nell’accalappiare i clienti in negozio e pare che le piaccia»

«In questo modo Paky potrebbe dedicarsi alle cose che sa fare meglio, è un vero talento nel trasformare le mie idee in cose che funzionano»

«io invece andrò in giro a cercare di piazzare i brevetti PW Toys alle grandi compagnie»

«un buon brevetto può essere pagato anche 2 o 300.000 dollari. L’idea sarebbe dividere in tre parti ogni introito, io, lei e Paky»

«Sono nelle vostre mani, ragazzi! E sappiate che vi perdonato»

«Ci ha perdonato?»

«Per quella volta che avete rubato due modellini di Harley-Davidson»

* * *

Christian è spazientito. Gli hanno ingessato il polso. Si è rotto lo scafoide scivolando banalmente e mettendo male la mano a terra.

L’ingessatura del polso gli lascia liberi giusto i polpastrelli delle dita. Impossibile afferrare, e usare il joystick.

«Cazzo, Paky, ci vorrebbe un Joystick speciale, che funzioni usando solo il polpastrello del pollice, come il clitoride di Helene!»

Paky ride, poi alza gli occhi dal circuito stampato su cui sta lavorando e fissa l’amico: «Cos’hai detto Christian?»

«Che mi servirebbe una periferica di controllo manovrabile usando solo i polpastrelli, senza bisogno di stringere la mano o ruotare il polso»

Paky lo guarda impassibile, ma Christian sa che il suo cervello sta lavorando a mille. E improvvisamente capisce.

«La figa di Helen!» esclama, e comincia a muovere i polpastrelli di pollice, indice e medio.

Paky sorride. Dice: «Esatto! Il pollice può comandare il movimento del cursore-clitoride, mentre il medio e l’anulare comandano i pulsanti-punto g. Si tratta di inventare un joystick-figa che stia nel palmo della mano esattamente come la figa di Helene»

«Cazzo, cazzo, anzi, figa, sei un genio Paky! Anzi, no, io sono un genio!»

«Non sarà facile»

Senza saperlo, hanno appena avuto l’intuizione alla base della tecnologia dalla quale sarebbe derivata la nuova periferica di controllo digitale, destinata non solo a sostituire il joystick e ad equipaggiare le consolle videogiochi del futuro, tipo PlayStation, ma a dare vita all’innovazione decisiva del personal computer: il mouse.

«Ha ragione Helene! E’ la figa che comanda il mondo oggi, non il cazzo! Il joystick è nato vecchio, te l’ho sempre detto, Paky! Devi mollare tutte le altre stronzate, e buttarti su questo»

«Non so, Christian. Probabilmente in questo momento ci sono intere equipe di ingegneri che stanno lavorando su un’idea del genere, nei centri di sviluppo della Atari o della Nintendo. Magari passerò i prossimi sei mesi rinchiuso qui dentro a sviluppare il prototipo, e quando ormai siamo in dirittura d’arrivo ecco che in televisione danno un servizio sul nuovo controller Atari»

«Può darsi, ma noi li fotteremo, Paky. Fotteremo sia Atari che Nintendo, oltre che intere legioni di belle fighe!»

* * *

FINE CAP3 . PROXIMA PUBLICATIO MAR23 APRILE

the male code – cap2

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MD2SMadre

The male code  (screenplay for Christian Bale) copyright 2013 Calepio Press by Leone Belotti – da un’idea di Gian Franco Bortolotti

cap 2  – la scheda madre  – Detroit, 1976.

«Io non ti pesterò mai, Paki»

«Ti credo, peso il doppio di te»

E’ la risposta che Christian si aspettava. Sono le otto del mattino, stanno andando a scuola.

Come tutte le coppie di amici  tra la pubertà e l’adolescenza, quando camminano insieme, fianco a fianco, hanno qualcosa di comico, che fa quasi tenerezza.

Christian è di costituzione gracile, pallido, delicato, e quasi effeminato, non fosse per quel naso da pugile, o da attore brutto ma sexy come gli ha detto Mary Ann.

Paky sovrappeso, stazzato, la faccia rotonda, i capelli increspati,  il sedere enorme, le mani tozze.

Apparentemente sono due adolescenti come gli altri, che passano i pomeriggi sfidandosi a videogiochi e facendosi forza a vicenda, convincendosi di far parte di una categoria superiore.

Ma sono tre volte più intelligenti della media, e nessuno gliel’ha ancora detto. I loro dialoghi sono farciti di insulti razzisti e sessisti come quelli dei loro compagni di scuola, e anche più feroci.

In realtà sono due intelligenze precoci che si sfidano in partite di tennis verbale, che a volte degenerano in incontri di pugilato psicologico, ma che per tacito accordo non potranno mai degenerare nello scontro fisico.

«Lo sappiamo entrambi Paki, fra tre anni io sarò un superman wasp più alto di te, mentre tu sarai ancora un botolo di cacca molle indù: quello che volevo dire è che nemmeno allora ti pesterò»

«Molto nobile da parte tua, amico mio»

«Sinceramente, Paki, apprezzo molto il fatto di poterti dire oggi qualsiasi cosa nella certezza che tu non approfitterai mai della tua enorme stazza per pestarmi in virtù della tua indole pacifista orientale del cazzo!»

Christian sorride. Gli è piaciuto il finale di frase. Paki è all’angolo, il punto è suo, è chiaro.

Ma improvvisamente Paki torna al centro del ring:

«Quello che hai appena detto mi fa venire in mente una storia che mi ha raccontato mio nonno che casca a fagiolo»

«Falla breve venditore di tappeti, e lascia perdere le scoregge di tuo nonno mangia-fagioli»

«Per farla breve, amico mio, la storia è questa: un grande maestro sufi dopo aver passato tutta la vita a predicare l’amore universale a chiunque, anche agli insetti e alle piante, avendo cura di non fare mai del male a nessuno, nemmeno agli insetti e alle piante, a un certo punto, senza una ragione, pesta a morte il suo migliore amico.

E  vuoi sapere cosa risponde all’amico che in punto di morte gli chiede perché l’ha fatto?»

Christian vorrebbe dire “dai dimmelo”, ma si trattiene, fedele allo slogan  il controllo è tutto che contrassegna i loro pomeriggi alla consolle dei videogiochi.

Aspetta che Paki si spazientisca.

Ma Paky aspetta sereno.

Con voce annoiata, Christian dice: «Con un piccolo sforzo potrei immaginare almeno una dozzina di risposte, probabilmente più profonde o argute della tua storiella di merda sufi, ma dal momento che stai smaniando per dirmelo, e gratificarti mi costa meno sforzo che umiliarti, sarò condiscendente, lo voglio sapere:

cosa risponde il maestro di seghe sufi all’amico pestato e morente?»

«Sei convinto? E’ la tua decisione finale? Accendiamo la risposta?»

«Si, figa d’una vacca sacra!»

Con un’agilità che Christian non si sarebbe aspettato, Paki gli si pianta davanti, e gli punta il suo enorme e tozzo indice tra naso e occhi.

«Allora devo prima pestarti a morte, amico mio, altrimenti non capiresti»

Christian sente il polpastrello di Paki che gli sfiora il setto nasale esattamente là dove è stato spezzato, mentre l’unghia, larga e spessa, arriva a toccargli la prima peluria delle sopracciglia.

Paki ritrae il dito e ride di gusto, in quel suo modo unico, che Christian definisce “tragicamente ridicolo”.

«Fai schifo, ma il punto è tuo» ammette Christian,  e ride, ed è divertito.

Però in fondo ai nervi, dal dito di Paki è scaturito il ricordo del pugno, e la faccia di suo padre, e con la faccia di suo padre le frasi di sua madre,

la mia disgrazia è stata innamorarmi di tuo padre,

frasi che lei gli ripete spesso, senza motivo, come se volesse sintetizzargli, e inculcargli, qualcosa di troppo complesso, va sempre a finire con un  vuoi bene alla tua mamma?

Lui a volte risponde: si. Altre volte: no.

Allora lei dice: se non fossi tua madre dubiterei che sei mio figlio.

E sempre, quando lei dice così, e lo dice spesso, lui pensa a Jenny Mc Bride, la sua “seconda mamma”.

La mamma di Mary Ann, a differenza di sua mamma, non gli ha mai chiesto vuoi bene alla tua seconda mamma?

Invece, lo ha sempre abbracciato, sbaciucchiato, accarezzato, ogni giorno, facendolo sentire avvolto da un morbido calore.

Quelle poche volte che sua mamma lo tocca, lo abbraccia o lo bacia lui sente solo un fascio di nervi rigidi, freddi.

Nonostante (o forse proprio per questo) sua madre, e padre Jacob, e un sacco di gente, nelle loro vite assurde, non facciano che parlare di voler bene, Christian non saprebbe dire cosa voglia dire volere bene a qualcuno,

e quella volta che la vecchia professoressa Gonzalez ha dato un tema del genere, lui ha consegnato il foglio in bianco.

Anche la signora Mc Bride a volte parla di voler bene.

Ma la sua frase è: solo gli amici ti vogliono bene davvero.

Christian guarda lo strano essere umano che cammina al suo fianco.

Paki lo stupisce, oltre a fargli davvero un po’ schifo.

Ma di fatto è l’unica persona a cui dice ciò che gli passa davvero in testa, e con gioia, per gioco.

«Posto che sono in punto di morte per il tuo pestaggio, Paki,  con le mie ultime parole ti confesso che quando non ti conoscevo mi facevi schifo a pelle, ma poi conoscendoti mi sono abituato e non mi fai più schifo a pelle, a parte quando puzzi, cioè sempre.

La tragedia è che più ti conosco, più mi intendo con te, e più mi fai schifo nel profondo, come persona»

«Lo so amico mio, ma ognuno ha i suoi dispiaceri.

Pensa a me, che ti ho sempre ammirato fin da quando non ci conoscevamo e avevi ancora il tuo bel nasino e adesso che hai il naso che sembra il timone di un peschereccio in avaria ti venero e ti adoro come il mio unico e vero amico!»

«Mi fai vomitare, Paky. Spero proprio che la signorina Lewis non  abbia la brillante idea di farci fare il solito tema dal titolo “il mio miglior amico”».

* * *

Il titolo del tema è: “Il momento del pranzo nella tua famiglia”.

Quando mancano dieci minuti alla fine dell’ora, passando tra i banchi, la signorina Lewis, la supplente di lettere, si accorge che il foglio di Christian è ancora immacolato.

«Qual è il problema oggi Christian?»

«Il problema è semplice, signorina Lewis, ma purtroppo è insolubile»

«Spiegati meglio, Christian»

«Questo non è un tema di fantasia, giusto? »

«Esatto Christian, è un tema-verità»

«Il problema è proprio questo. Il momento del pranzo, in verità, nella mia famiglia non esiste»

La signorina Lewis sorride.

Ha gli occhiali e i capelli raccolti a coda di cavallo.

Le gambe sono magrissime, ma non si capisce come siano i fianchi e il seno, perché indossa sempre maglioni enormi.

Ma ha una bocca gigantesca, con delle labbra rosse e carnose.

A Christian fa venire in mente una fotografia che ha visto di nascosto su un giornaletto pornografico.

«Allora farai così, Christian: come inizio del tema scrivi esattamente quello che mi hai appena detto, e poi cerchi di spiegarlo»

Mentre parla, Christian immagina di infilarle il pene in bocca, e ha un’erezione istantanea, incontenibile.

Allora, per disinnescarla, usa la nuova tecnica che gli ha suggerito Paki: immagina il viso della signorina Lewis nella bara, morta, con i vermi che le escono dal naso, come in un film horror.

«Non avere paura. Scrivi la verità»

«D’accordo» risponde Christian, e si tuffa nella pagina iniziando a riempirla rapidamente, senza mai fermarsi.

“Il momento del pranzo nella mia famiglia non esiste per una serie di motivi.

Per cominciare bisogna sapere che mia madre non sa cucinare. Compra solo cibi pronti o scatole di surgelati. Mio padre mangia hamburger quasi crudi, appena scottati.

A causa dei turni in fabbrica, ognuno mangia sempre da solo, sul tavolino davanti alla televisione. Io preferisco mangiare al tavolo, con la tovaglia, i piatti e il bicchiere, anche se il mio piatto preferito, che preparo personalmente, è l’uovo nel portauovo.

La mattina invece mi preparo un the inglese usando un’apposita teiera, anche se questo richiede tempo.

Purtroppo non posso bere latte per problemi di dissenteria originati dalla gastroenterite che mi ha colpito all’età di due anni portandomi in punto di morte.

Secondo la signora Mc Bride, la causa del problema è stato il seno piccolo di mia madre, che invece di allattarmi nello svezzamento mi ha nutrito con latte in polvere.

Recentemente ho sentito al telegiornale che questo latte in polvere sta causando la morte di molti bambini in Africa e la food&drug administration ha deciso di proibirlo nel territorio degli Stati Uniti”

Il suono della campanella lo prende alla sprovvista e interrompe la sua scrittura di getto.

Alza gli occhi, e il suo sguardo incrocia quello dell’insegnante.

Velocemente, mentre i suoi compagni già si alzano, aggiunge:

“Nel momento del pranzo, si vede se una famiglia esiste, o se sono soltanto persone che usano lo stesso frigorifero, come nel mio caso”.

Nel consegnarle il tema, Christian dice allegramente: «Mi è venuta fame!».

La signorina Lewis lo delizia di un enorme sorriso.

Per la prima volta da quando frequenta la scuola, prova qualcosa di simile alla felicità.

Il giorno dopo attende con ansia l’ora di lettere.

Si è preparato sulla lezione del giorno e vuole fare delle domande.

Ma la signorina Lewis entra in aula con addosso un’espressione funebre e per prima cosa annuncia alla classe che padre Jacob, che è anche preside della scuola, ha deciso di non confermare il suo incarico di supplente, e pertanto quella che sta per iniziare è la sua ultima lezione alla scuola di St.Paul.

Quindi va alla lavagna e inizia a riempirla di nomi di scrittori e titoli di libri.

Sono i libri che lei consiglia ai ragazzi di leggere.

Christian passa tutta l’ora a spiarla.

All’uscita della scuola la insegue, tenendosi a distanza.

Dopo due isolati,  si fa coraggio,  la raggiunge e le dice: «Signorina Lewis, voglio dirle che mi dispiace non averla più come insegnante».

Solo dopo aver parlato si accorge che lei, dietro gli occhiali da sole, ha gli occhi umidi.

Ma subito gli sorride: «Il tuo tema fatto in dieci minuti era bellissimo. Da dieci!»

«Non l’avrei mai fatto senza il suo consiglio. Avrei consegnato in bianco, e avrei preso la solita nota, con relative sberle a casa!»

Si pente subito di aver parlato troppo.

Lei ora lo guarda, e sta pensando qualcosa.

«Come te lo sei rotto il naso?» gli chiede.

Christian alza le spalle.

E’ una domanda che gli fanno spesso, e ha la risposta pronta:

«Ho fatto a pugni con uno più grande di me»

Ma la signorina Lewis non gli crede, Christian lo percepisce chiaramente da come lo fissa mordendosi le labbra.

Poi le sue grandi labbra tornano a sorridere:

«Ti piacerebbe un giorno venire a pranzo da me? Un vero pranzo?»

«Moltissimo!»

«Bene! Ti aspetto martedì… no, mercoledì della settimana prossima, dopo la scuola, va bene?»

«Benissimo!»

Rapidamente gli dà l’indirizzo e il numero di telefono.

«Te lo ricorderai?»

Christian strizza gli occhi e annuisce.

«Posso ricordare senza sforzo fino a cento numeri di telefono, e attualmente ne ho in memoria soltanto venticinque»

«E allora come fai a sapere di poterne ricordare cento?»

«Ho fatto delle prove con una pagina dell’elenco del telefono.

Per un intero pomeriggio ho continuato a leggere e ripetere i primi 100 numeri. Dopo una settimana ricordavo esattamente i 100 numeri. Poi dimenticarli è stato più difficile»

«Sei un ragazzo speciale, Christian Code.

Ho letto la tua scheda didattica. Mercoledì te ne parlerò. Ora devo scappare, ma prima dimmi una cosa: posso fidarmi di te? Sei capace di tenere i segreti?»

«Si, ho un mio metodo»

Dice delle cose incredibilmente buffe, questo ragazzino.

Ha la capacità di farla ridere. Ellie Lewis, l’insopportabile e complessata studiosa con un corpo da pin-up che decine di ragazzi hanno corteggiato fino all’esaurimento, lo trova delizioso.

Con quel naso da pugile su un viso effeminato.

«Siamo amici noi due?»

Christian scuote la testa su e giù.

«Allora dimmi ciao»

«Ciao!»

«Dimmi: ciao Ellie!»

«Ciao Ellie!»

* * *

«Perché no?» chiede Paki.

E’ mercoledì, sono appena usciti da scuola.

«Perché ho altro da fare» risponde Christian.

«E cos’hai di meglio da fare che venire con me a partecipare ai test di prova  del joystick Atari?

Sai quante cartoline ho dovuto mandare per essere selezionato? E posso portare un amico»

«Devo andare a scoparmi tua sorella, se proprio vuoi saperlo»

«Vaffanculo, stronzo d’un irlandese mangiapatate!»

«Vaffanculo tu, ciccione del cazzo al curry!»

Camminano in silenzio solo per pochi passi.

Poi Paki dice: «Facciamo un patto: tu mi dici dove zocca devi andare oggi, e  domani io ti dico tutto del joystick»

«Questo è un ricatto, Paki, è indegno di te. Faccio finta di non aver sentito.

Hai ancora due isolati e undici minuti per dirmi cos’è questa stronzata del joystick, che del resto non mi interessa granché, poi tu andrai a casa tua, e io per i fatti miei»

«Ti dico che è una rivoluzione, amico mio.

Cambierà la tua vita, il tuo modo di giocare ai videogiochi, e anche il tuo modo di farti le seghe»

«Spiegati, e possibilmente con chiarezza»

«Ok. Prova a pensare a quando tieni in mano il tuo adorato cazzo»

«Si»

«Bravo, lascia perdere il comando dell’eject. Hai presente la sensibilità direzionale? Puoi farlo roteare in ogni direzione, come una contraerea montata su un perno girevole, ok?

Se sbuca una pollastrella a ore 11, o  a ore 4, non hai alcun problema a puntarla direttamente, non hai bisogno delle coordinate per innaffiarla di sperma. Ci sei?»

«Si»

«Bene, il nuovo joystick funziona esattamente come il tuo cazzo.

E’ finita l’era dei quattro pulsanti con movimento rigido ortogonale su-giù e destra-sinistra, che ti costringe a fare movimenti a scalino quando vuoi fare un movimento diagonale.

Riesci a capire cosa significhi?»

«Sì, Paki, lo capisco benissimo, significa che tu puoi cominciare a masturbarti con schizzo nord-ovest seguendo il tramonto mentre io vado a scoparmi tua sorella fino all’alba con rotta a 90 gradi nel culo»

«Bravo. Riderai un po’ meno quando io tra qualche mese, dopo opportune modifiche, mi scoperò a distanza la tua immacolata Mary Ann telecomandando il suo vibratore con il mio grosso uccello-joystick»

Christian si ferma. Paki fa ancora due passi, poi si gira a guardare l’amico:

«Beh? Cosa fai lì impalato, una nuova iniziativa immobiliare?»

«Paki, te l’ho già detto, e te lo ripeto: lascia stare Mary Ann, lei non c’entra con le nostre stronzate, per me è come fosse una sorella»

«E mia sorella, allora? Lei è davvero mia sorella!»

«Hai ragione, scusami Paki, non dirò più niente di schifoso su tua sorella»

«A volte sembri quasi umano»

Poco dopo, serissimo, Christian dice: «Non farti ingannare dalle apparenze. A proposito, come sta quella vacca di tua madre?»

Costernato, Paki risponde:

«Beh, sai, ci è rimasta parecchio male ieri sera quando tornando a casa ha beccato mio padre che si faceva succhiare l’uccello dal tuo»

Ridono di gusto, si scambiano il cinque.

«Ok Paki, il punto è tuo. Ora ti restano quattro minuti per dirmi perché il nuovo joystick dovrebbe cambiare il mio modo di farmi le seghe»

«Te lo spiego subito, amico mio. Facciamo un esempio concreto:

la signorina Lewis. Sai cosa ho pensato ultimamente guardando la bocca della signorina Lewis?»

«Posso immaginarlo Paki, tutta la scuola non pensa ad altro»

«Io immaginavo qualcosa di più sofisticato.

Una sorta di guanto in lattice, come un preservativo, ma ricoperto di sensori elettrici che emettono piccole scariche a voltaggio variabile.

Ora immagina che tutti noi maschi della classe, ognuno al proprio banco, indossiamo questo guanto, con i cavetti elettrici che ci escono dalla patta e corrono sul pavimento fino alla cattedra dove sono collegati al nuovo Joystick.

Credi che la signorina Lewis sarebbe capace di fare un pompino al joystick, infilarselo fino in gola facendoci godere in trenta senza muoversi dalla cattedra?»

«Niente male, Paki! Una cosa del genere potrebbe risolvere molti problemi nell’economia del pompino su scala mondiale. E come chiamerai la tua compagnia? Paki Industrial Cumshot?»

«Non temere, non ti lascio fuori, la chiameremo Paki&Christian electronic sucks.

Aumentando il voltaggio, potrebbe anche funzionare come alternativa alla sedia elettrica, almeno creperesti godendo come mai ti è successo in vita»

«Si Paky, e i condannati gay rei confessi come te potrebbero sempre optare per un vibratore da 2000 volt nel culo!»

«Vedi Christian che le idee non ti mancano, quando accetti la tua omosessualità?

Come fai a essere così sicuro di non essere gay? Per me sei gay. Tu ancora non lo sai, ma sei gay»

«Può darsi, ma non sarà certo un gay color merda come te a convertimi.

E siccome tra quaranta metri le nostre strade si divideranno, ti confido un segreto: sto giusto andando dalla signorina Lewis a chiederle se mi aiuta a consolidare la mia identità sessuale facendosi sbattere a orgasmo multiplo fino a prendere fuoco per autocombustione vaginale.

Spero che abbia un estintore in camera da letto»

«E’ questo che mi piace di te Robert Code, che sei un grande sognatore»

«L’hai detto, sottospecie di buddha per turisti. Ti saluto Paky, ci vediamo domani»

* * *

«Ciao Christian»

«Ciao Ellie»

Christian si sforza di guardarla in faccia, ma i suoi occhi volano sul suo corpo: la signorina Lewis è irriconoscibile.

Senza occhiali, con i lunghi capelli neri sciolti, con ai piedi degli zoccoli alti, una t-shirt aderente e i jeans stretti è un’altra donna.

Una superdonna. Una bomba.

Ha delle tette enormi, pensa Christian, più grandi di quelle di Jenny.

«Hai fame?»

«Non tanto»

«Nemmeno io. Allora parliamo un po’, vieni»

Lo prende per mano e lo porta in camera da letto.

«Ti va di sdraiarci un po’ sul letto a chiacchierare?»

Christian è sconvolto, ma riesce a dire: «Si, mi va»

«Togliti le scarpe»

«Ok»

Si siede sul letto e si slaccia le stringhe. Deve togliersi anche i calzini? Si china più che può per sentire se gli puzzano i piedi.

Nell’aria c’è uno strano odore, che ha già sentito da qualche parte.

Poi vede sul comodino il posacenere con lo spinello fumato a metà e capisce. Marijuana.

Ecco perché lei parla così lentamente e ha gli occhi socchiusi.

«Togliti anche i pantaloni, starai più comodo. Li tolgo anch’io»

Lei è in piedi proprio davanti a lui. Lo spazio tra il letto e l’armadio non è molto.

Davanti al suo naso, lei si slaccia i jeans e si sfila la t-shirt.

Non indossa il reggiseno!

Le areole sono chiare, grandi come cialde, i capezzoli turgidi, rossi.

Christian ha un’erezione furibonda.

«Ma…ho paura che…»

«Non avere paura, non c’è niente di cui ti devi vergognare»

Gli prende le mani e se le porta sui seni.

Christian viene di getto, nei pantaloni che non ha ancora tolto.

«Io…»

«Shhh, non c’è nessun problema, è normalissmo»

Gli slaccia la cintura e gli sfila le mutande insieme ai pantaloni, poi gli toglie la maglietta e dolcemente lo sospinge sul letto.

«Chiudi gli occhi, rilassati, distendi le braccia»

Christian finge di chiudere gli occhi, ma si limita a socchiuderli.

Il suo pene adesso è floscio e bagnato.

Non ha la minima di cosa stia per accadere.

Quando la gigantesca bocca della signorina Lewis ingoia in un colpo solo tutto il suo apparato genitale, pene e testicoli, spaventato, fa per sollevarsi, ma lei gli mette una mano sul petto.

Christian vede che lei con l’altra mano si tocca tra le gambe.

Ora la sua bocca si muove su e giù, lentamente, e Christian si accorge di avere una nuova erezione.

Poi lei accelera il movimento, e Christian viene per la seconda volta, e per la prima volta in vita sua prova quella scossa che corre in un lampo dai testicoli al cervelletto per  scaricarsi in ogni singola cellula del corpo con un piacere totale.

Ora che l’ha provato, capisce che l’orgasmo maschile è qualcosa di completamente diverso, per forza e intensità, dal semplice eiaculare.

Non si è mai sentito così bene in vita sua.

Gli sembra di essere stato scaraventato altissimo in un cielo rovente, per poi ricadere profondissimo in un mare di freschezza.

Le palpebre gli si chiudono, l’ondata di sonno gli penetra nelle viscere, e anche questo è un piacere per lui nuovo.

Quando riapre gli occhi non saprebbe dire se è passato un minuto, un’ora o un secolo.

Lei è lì, sdraiata sul fianco sinistro, nuda, completamente nuda.

Sta fumando il suo spinello e lo guarda con occhio divertito.

«Come stai giovane stallone?»

«Da Dio!» risponde Christian.

Come ipnotizzato, non riesce a staccare gli occhi dal pube di lei interamente ricoperto da un enorme cespo di peli nerissimi, fitti, lunghi come capelli.

Lei solleva la gamba destra dritta verso il soffitto e per la prima volta in via sua Christian vede dal vivo quella che Paki chiama “la miniera d’oro che si apre nella foresta”.

Christian è di nuovo eccitato. Lei sorride.

Si infila due dita in bocca, poi le infila tra le gambe, e infine gli monta sopra.

Christian percepisce distintamente il mistero umido, caldo e palpitante che gli avvolge il pene.

Fa in tempo a pensare sto scopando, e subito viene, giusto un istante prima che lei arrivi a fondo corsa.

Spalanca gli occhi, sente le sue grandi labbra che aderiscono al suo inguine.

Ho scopato pensa, ma non ha provato niente di paragonabile al piacere sperimentato prima, quasi non si è nemmeno accorto di venire, un semplice fatto idraulico, come pisciarsi addosso.

Quasi spaventato, ora si rende conto di aver perso la percezione del proprio pene, non  saprebbe nemmeno dire se è ancora turgido, o se si è sciolto dentro di lei.

Evidentemente la sua faccia tradisce le sue paure, perché lei gli sussurra dolcemente:

«Va tutto bene, Christian, non avere paura».

Christian immagina che adesso lei si staccherà da lui, e andrà in bagno a lavarsi.

Nei film è questo che accade dopo che due hanno scopato.

Invece lei resta incollata a lui, e inizia a muoversi in un modo nuovo,  piano, gli si struscia addosso, come facendo attenzione a non farsi sgusciare fuori il suo pene.

Gli prende le mani, se le porta prima sui seni, poi sulle natiche.

«Stringimi»

Questo è fantastico. Le mani dalle dita affusolate di Christian corrono deliziate in quel fantastico campo giochi che comprende i fianchi, le natiche, le cosce e la magica fenditura ano-vagina.

«Ti piace?»

«Moltissimo»

Poco per volta, lei ricomincia a muoversi su-giù, staccandosi leggermente dal suo pube per poi pressarlo nuovamente,

e Christian, con le mani incollate alle sue natiche, capisce che deve assecondare i suoi movimenti attirandola a sé.

Ora vede che il suo pene è di nuovo turgido, i movimenti di lei si fanno sempre più rapidi,

e con stupore sente che lei ad ogni movimento produce una specie di profondo mugolìo che le sale dalla gola, come un rantolo.

Adesso sto davvero scopando

. Lei è ritta su di lui, la testa rovesciata all’indietro.

Poi si china su di lui, con le mani si aggrappa alla testiera del letto.

I suoi seni sono gonfi, le areole, che prima erano chiare e distese,  ora sono rosse, come rattrappite, i capezzoli grossi come ditali.

«Succhiami i capezzoli, Christian»

Lui si incolla come una ventosa, lei lo lascia succhiare un po’, poi si ritrae, e gli offre l’altro seno, lui capisce, e inizia a succhiare alternativamente ora un seno ora l’altro, sempre più forte.

Improvvisamente lei emette un grido acuto.

Poi un altro, più basso e lungo, come il guaito di un cane, e un altro ancora.

Con voce rauca, che sembra un rantolo, dice:

«Vieni Christian, vieni anche tu».

Gli stringe la testa tra le mani e gli infila la lingua in bocca.

La sua spinta pelvica diventa furiosa. Il letto cigola.

Gli bacia il naso, il mento, la gola, gli occhi, gli lecca tutta la faccia come una cagna.

Gli porta una mano sulla gola, con il medio gli preme la carotide, con il pollice il pomo d’Adamo, su e giù, premendo sempre più forte.

Questa volta Christian sente partire la scossa dalla punta dei piedi, le gambe si contraggono, il bacino sembra esplodere e per un istante lunghissimo prova una sensazione incredibile, concentrata sul pene,

una specie di solletico crescente, sempre più piacevole, fino a diventare insopportabile, proprio come il solletico, tutto il suo corpo è contratto in preda a un unico crampo,

e allora vorrebbe fermarsi, fermarla, uscire da lei,

ma lei glielo impedisce, lo domina, lo sovrasta, lo tiene fermo  inchiodandogli i polsi al letto,

e spinge, spinge sempre più forte, come un martello che lui non può fermare, come il pugno di suo padre,

e Christian sente arrivare il panico.

Si mette a urlare.

Lei sorride, e finalmente smette.

* * *

«Avevi ragione, Paky»

«Su cosa, amico mio?»

«Penso proprio di essere gay»

«Ah si? E’ questo che hai fatto ieri? Sei andato a prenderlo nel culo da un negro con tre gambe? E ti è piaciuto da morire!»

«Non proprio. Come ti ho già detto, sono andato dalla signorina Lewis, ma più che andato sono venuto,  sono venuto quattro volte in meno di un’ora, due in bocca, e due in sorca, e ho provato quattro tipi di orgasmo completamente diversi, tre dei quali assolutamente nuovi»

«Racconta»

«Uno, che conosciamo già, l’orgasmo da eiaculazione precoce, identico a una qualsiasi sega veloce, quelle che ti fai anche sovrappensiero, mentre pensi ad altro: capisci cosa intendo?»

«Perfettamente, amico mio. Ti ho mai detto di quando mi faccio una sega mentre faccio i compiti di matematica, con un occhio alla partita in tv?»

«Non mi interrompere, segaiolo. Mi fai perdere il filo della sborrata»

«Ok, sentiamo questi orgasmi inediti»

«Due, ancora un orgasmo da eiaculazione precoce, ma di tipo diverso, inconsapevole, senza alcuna sensazione di piacere, senza nemmeno sapere se il cazzo è duro o molle, sperduto nella figa gigante, una roba orribile, come pisciarsi addosso, dovresti saperne qualcosa»

«Una specie di polluzione a mente serena?»

«Esatto Paki, un fatto puramente idraulico, quasi fastidioso»

«E questo fatto idraulico quasi fastidioso ti è successo nella figa della signorina Lewis?»

«Te lo sto dicendo»

«Se quello che dici è vero, amico mio, temo proprio che tu sia gay»

«Aspetta, Paki. Orgasmo numero tre: la fine del mondo. La scheda madre. Un elettroshock che ti rivolta tutto il corpo.

Un’estasi, e poi ti addormenti a piombo, come Dio dopo aver creato il mondo, un piacere sublime.

Mi rendo conto che non puoi capire, e mi chiedo se proverai mai qualcosa del genere nella tua vita, sfigato come sei»

«Non so, da come l’hai descritto, mi ricorda il piacere anale di certe cagate giganti che faccio dopo il mal di pancia.

Sei sicuro che la signorina Lewis non avesse i baffi e una grossa nerchia infilata nel tuo culo, quando hai provato questa estasi sublime?»

«Ti dico che non sono sicuro di niente, dopo aver provato l’orgasmo numero quattro. Uno shock. Pensavo di crepare.

Un piacere talmente forte che si trasforma in una specie di crampo gigante, diventando insopportabile, come una tortura, una violenza.

Una situazione assurda.

Tu non ce la fai più, ma lei continua a pompare, e ti sembra di scoppiare. Ti giuro.

Pensavo che mi scoppiasse il cuore.

E non potevo fare niente, lei mi teneva bloccato, la sua faccia mi sembrava quella di un mostro preistorico, pensavo volesse ammazzarmi come fanno i cani con i gatti, sbattendomi di qua e di là sempre più forte.

Parlo sul serio Paki. E non so cosa pensare. Ho dormito un cazzo, nonostante le quattro sborrate.

Non credo che tornerò a trovarla. Non so se puoi capire.

Anzi, sono certo che non mi puoi capire, e questo dialogo è completamente inutile»

Paki invece capisce.

Non solo è intelligente, malizioso e furbo, ma anche sensibile.

Capisce che Christian è davvero scioccato, non sta scherzando, non sta raccontando le solite balle.

«Per questo pensi di essere gay, amico mio? Io non credo. La tua scheda madre non c’entra. Ti conosco troppo bene, la tua scheda madre è uguale alla mia, hai la figa stampata in testa come un imprintig indelebile. Non è questo il problema»

«E quale sarebbe allora?»

«Semplicemente, hai subito una violenza sessuale»

* * *

Fine secondo capitolo – PROXIMA PUBLICATIO – MART 16 ApRIL

INDEX

parte prima

1 – il codice sorgente                       Detroit, 1974.

2  – la scheda madre                        Detroit, 1976.

3 – la periferica di controllo            Detroit, 1978.

4  – il sistema operativo                   New York, 1980.

5  – la relazione in copyright           Boston, 1982

6  – la scheda di memoria                Detroit, 1984

parte seconda

7  – la donna software                      Sylicon Valley, 1986

8  – la donna telefonia mobile          NY-London, 1988

9  – la donna pixel                             NY-Paris, 1990

10  – il maschio hacker                     Los Angeles, 1992

11 – il dominio del maschio web     Mosca, 1994

12  – il maschio server                     NY-Bejing  1996

imago: -TABIDAN- Aracno 2013-Stampa su legno 2.5m x 2.5 m 

 by PMT+Lughì

http://ordinearcano.tumblr.com/

 

le tre regole del webdesign

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togliere tutto quello che non serve

usare spazio vuoto

allineare tutto

 

il sentimento nel pane

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ci sono alcune cose che sono invariabili nell’esistenza dell’uomo.

sono cose talmente immutabili che quantomeno oggi le consideriamo luoghi comuni, perché tutti sono d’accordo che siano così.

ma il fatto irritante è che ogni generazione le deve vivere, ci si deve scontrare, deve provare a mutarle, per poi arrivare ad un punto in cui accetta che siano immutabili.

non parlo di polpettoni maximi come il fatto che tutti devono morire. parlo di cose appena un po’ più astratte:

perché gli artisti devono essere poveri?

perché i leader devono essere cinici e spietati?

perché le idee più brillanti sono destinate a non essere comprese?

perché le belle speranze sono destinate ad essere disattese?

chiunque è disposto a dire che l’arte è importante nella vita al pari del cibo, e contemporaneamente tutti sono pronti a dire che senza cibo si muore, senza arte si può sopravvivere, quindi prima il cibo, poi, forse, l’arte.

invece che dell’arte potrei parlare dell’amore:

chiunque è pronto a giurare che l’amore è fondamentale per vivere, anche se poi, nella pratica, una società si autoregola prescindendo bellamente dall’amore. “ahhh, l’amore” si dice, “l’amore è un’illusione”. il cibo no. quindi zitto tu che aneli l’amore, e ubbidisci a me, che porto il cibo.

che poi davvero arte e amore sono importanti, infatti chi professa, cinico e compiaciuto, il primato del pane sui sentimenti, si ritrova col figlio tossico o suicida per carenze affettive, il partner che lo abbandona per andare a cercare sentimento altrove, si ritrova a vivere una vita di merda, col cibo, certo, ma una vita che non si aspetta altro che finisca, perché insopportabile, una vita che non vale più la pena di essere vissuta.

e specularmente, che dolore infinito in un padre che segue instancabile il sentimento, ma che non ha di che sfamare i figli. che dolore, ogni volta, porgere l’altra guancia, per poi essere annichiliti dagli schiaffi di chi oggi prevarica il tuo fragile sentimento, e domani accudisce la tua prole cui non hai saputo dare la sicurezza della “roba”, cui non hai saputo lasciare un bottino di monete con cui farsi scudo delle ristrettezze della vita.

è questa cronica, incrollabile, stupidità umana che mi dà da pensare la sera, invece che dormire, o la mattina, invece che lavorare.

come è possibile che l’uomo in migliaia, milioni di anni di esistenza, non sia ancora venuto a capo di questo paradosso?

come è possibile che le società si regolino negando alcuni fattori che poi, puntualmente, regolarmente, si rivelano bombe capaci di distruggere la vita dei singoli?

io vorrei, davvero vorrei, fortissimamente vorrei che l’umanità decidesse, una volta per tutte, se pane o sentimento.

che bello sarebbe, da domattina, sapere che solo il pane conta!

sarei il primo, il principe, dei figli di puttana accaparratori, uscirei di casa alla ricerca del possesso materiale dei beni, allenerei il mio corpo ad essere forte, la mia mente ad essere felina e reattiva, ucciderei, fotterei, senza pietà, finché ancora ho un po’ di forze in corpo, perché se non ora quando?

oppure, che bello sarebbe, da stanotte, sapere che solo il sentimento conta!

che liberazione superare una volta per tutte la materialità delle cose, l’angoscia della sopravvivenza, finalmente potersi dedicare agli altri, alla bellezza, all’arte. all’amore.

ma ogni strada intrapresa, stanotte o domattina, è una strada parziale, che mi avvicina a qualcosa per allontanarmi da qualcos’altro, senza possibilità di felicità definitiva.

che triste la vita così, come da sempre la viviamo.

che tremendo e banale il dolore che ne deriva.

che coglioni siamo, non essere ancora riusciti a capire che in una società, in ogni momento, in ogni luogo, hanno pari diritti e pari dignità gli artisti, gli amanti, i condottieri e i panettieri.

gli uomini sono stupidi.

p.s.: la fotografia è a mio parere una delle più belle fotografie che mi sia capitato di vedere negli ultimi anni, è stata la copertina di una rivista che non conosco, e l’ho trovata per caso googleando non ricordo più quale keyword.

the male code – cap1

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MaleCode1byAthosFFE

screenplay for Christian Bale by Leone Belotti – CalepioPress © 2013 – da un’idea di Gian Franco Bortolotti

cap 1 il codice sorgente  Detroit, 1974.

E’ il primo sabato pomeriggio di sole dopo mesi di pioggia grigia sui quartieri operai di Detroit.

Christian Code, undici anni, magro, un po’ piccolo e gracile per la sua età, americano di terza generazione, figlio di operai di origine irlandese,

da due ore è costretto a starsene seduto in silenzio sul primo banco della parrocchia cattolica di St.Paul, aspettando “il momento più importante” del suo “cammino di cristiano”.

Dei trenta ragazzi della sua classe che devono confessarsi in preparazione della cresima, lui è stato sorteggiato per ultimo.

I suoi compagni uno dopo l’altro si inginocchiano davanti a padre Jacob, seduto su una specie di trono accanto all’altare, e gli confessano i propri peccati.

Christian ha l’espressione assorta, e la mente altrove.

Sta cercando di eseguire, scrivendolo a mente, il lungo compito-questionario di grammatica che deve consegnare lunedì.

Arrivato a metà, si blocca su “fai un esempio di domanda retorica e spiegala in cinque righe”.

Si mette a guardare a testa in su gli opprimenti e scuri affreschi delle navate della cupola.

I santi gli sembrano morti viventi intenzionati a calargli addosso dall’alto come zombie.

Poi, come sempre, la sua attenzione si fissa sul martirio di San Pietro, sul gesto del soldato che colpisce la figura accartocciata a terra.

Una scena che vede spesso in casa, quasi ogni fine settimana.

Suo padre che picchia sua madre, sberle, calci.

E improvvisamente, pensando a sua madre presa a calci da suo padre, gli sale quel suo  sorriso da saputello. Ha appena trovato un esempio perfetto di domanda retorica.

Tu dov’eri il giorno dell’assassinio Kennedy?

Come spiegazione, a mente, di getto, scrive:

“Trattasi  di una delle frasi che mia madre rinfaccia a mio padre sia in casa che in pubblico,

e trattasi di domanda retorica in quanto nel quartiere lo sanno tutti, vicini, colleghi, parenti, dov’era mio padre Robert Code quel giorno del 1963,

mentre a Dallas moriva di morte violenta e prematura il presidente che voleva cambiare l’America e a Detroit, in un ospedale pubblico, in modo altrettanto violento e prematuro, nascevo io, Christian Code,

rischiando di uccidere sia mia madre che me stesso,

dopo un’agonia durata sei ore

iniziata quando mia madre si è trascinata sanguinando in strada, dove è stata raccolta da una Ford della polizia municipale che l’ha portata a sirene spiegate all’ospedale.

Come tutti sanno mio padre quel giorno era al pub, ubriaco, a guardare l’assassinio Kennedy in Tv.”

Christian è soddisfatto.

Immagina la reazione scandalizzata della vecchia signorina Gonzalez, l’insegnante di lettere.

Si mette a ridere.

* * *

Quando finalmente arriva il suo turno, la chiesa è vuota e padre Jacob è già molto stanco.

Padre Jacob non è un prete esemplare.

E’ avido, meschino e vendicativo.

Autoritario con donne e bambini, servile e untuoso con potenti e possidenti.

Ma non è un pedofilo.

Gli aspetti morbosi della confessione non l’hanno mai toccato. Semmai annoiato.

Da tutto il pomeriggio è alle prese con le confessioni dei ragazzi della classe 63, in preparazione della cresima.

Non vede l’ora di chiudere la chiesa, ritirarsi in sagrestia e versarsi un bicchiere di vino in santa pace.

Imbullonare la morale cattolica nelle testoline cocciute dei figli degli operai è un lavoro massacrante, snervante e ripetitivo.

Un lavoro di chiodo e martello, peccato e senso di colpa, un sacramento dopo l’altro, come in catena di montaggio.

Sempre le stesse domande, sempre le stesse risposte.

Dopo le formule di rito, e i peccati veniali, c’è la domanda clou.

«Ti tocchi, figliolo?»

Negli ultimi vent’anni padre Jacob ha fatto migliaia di volte questa domanda a intere generazioni di ragazzini di origine irlandese, italiana e ispanica.

La reazione dei  ragazzini, la prima volta, è sempre la stessa:

un silenzio pesante, carico di vergogna e senso di colpa, sul quale calare incalzante e risolutiva la domanda vera, che fa superare ogni impasse:

«Quante volte al giorno?»

Ma questa volta, appena fatto la domanda, un campanello d’allarme gli suona in testa.

C’è qualcosa che non va, c’è qualcosa di diverso, di sbagliato, qualcosa che gli è sfuggito.

Padre Jacob si accende d’attenzione, riavvolge rapidamente il nastro (“Ti tocchi, figliolo? Si, padre! Quante volte al giorno?”) e  capisce.

Quel “si, padre!” è stato troppo immediato e naturale, colloquiale.

Come se gli avesse chiesto “Sai nuotare?”.

Doveva aspettare a porre la domanda definitiva, soppesare quel “Si, padre!”.

Ha commesso un errore, si è lasciato ingannare dal suo stesso metodo, dalla tecnica ripetuta meccanicamente.

Ma ormai è troppo tardi.

Dall’alto scranno di legno, la sua figura imponente, in tonaca nera,  si erge troneggiando sul ragazzino esile, dai lineamenti delicati, inginocchiato davanti a lui a mani giunte e capo chino su un piccolo cuscino color porpora.

Ora lo riconosce, e sa di essere caduto in una trappola.

Christian Code, il piccolo genio, figlio di operai Chrisler.

Lui e l’altro “disadattato” della scuola, il pakistano sudato che tutti chiamano Paky, qualche mese prima sono risultati “tecnicamente dei geni” , con quoziente intellettuale superiore a 150, nell’indagine svolta dall’istituto di psico-sociologia sui ragazzi della scuola della parrocchia.

Il prof.Mc Ewan gli ha suggerito di parlare alle famiglie, per invitarle a far proseguire gli studi ai due ragazzi.

Ma lui non l’ha ancora fatto.

L’esperienza gli dice che un figlio troppo intelligente, nelle famiglie povere, può essere una disgrazia.

Ora lo osserva con attenzione.

Il giovane Code, dopo aver risposto con immediatezza alla domanda “Ti tocchi?”, ora, per rispondere alla domanda “Quante volte al giorno?”,  pare assorto in una  riflessione complicata.

Ha gli occhi chiusi e muove velocemente e silenziosamente le labbra, come stesse pregando.

Infine alza il viso, e per un istante padre Jacob si sente quasi intimorito, affascinato.

L’espressione di Christian è il ritratto dell’innocenza infantile.

«Più o meno 500 volte al giorno, padre»

Padre Jacob non reagisce.

Uno schiaffo a mano aperta sarebbe la soluzione più ovvia.

Ma nel dubbio, si trattiene. Sospira.

Paziente, chiede: «Così tante volte?». Christian annuisce.

«Ogni giorno?»

«Si padre, e quando faccio il bagno, aumenta la media!»

Padre Jacob si sporge in avanti. Christian vorrebbe ridere.

Padre Jacob sta cambiando colore e diventando rosso di rabbia come il gatto Silvestro.

«E perché mai secondo te, figliolo, il padre confessore ti dovrebbe chiedere quante volte al giorno ti tocchi?»

Christian non si lascia ingannare dalla voce controllata: lo sguardo del prete è un fucile puntato sui suoi occhi, pronto a far fuoco.

«Non ne ho idea, padre»

«Pensaci!» sbotta padre Jacob calando una manata rabbiosa sul grosso bracciolo di legno intarsiato.

Christian sussulta e spalanca gli occhi.

Si sforza di reggere lo sguardo infuocato di padre Jacob, ma dentro di lui si insinua la paura.

Con voce fin troppo incerta, timorosa, chiede:

«Vuole sapere se mi tocco in maniera peccaminosa, padre?»

Ma padre Jacob continua a fissarlo con espressione tetra.

Allora Christian si morde le labbra, e improvvisamente la paura, la paura di essere picchiato, lo divora.

Christian è come un gatto immobilizzato.

Cerca di reggere gli occhi fiammeggianti, mentre nel suo cervello passano rapide una serie di opzioni sulla prossima cosa da dire:

«Vuole sapere se pratico la masturbazione?»

«Vuole sapere se mi tocco il pene indurito pensando alla signora McBride fino a disperdere il seme nei pantaloni o nel fazzoletto o nel water?»

Quando parla, la sua voce è stridula, e la frase assurda, surreale in bocca a un ragazzino:

«Con ogni probabilità il padre confessore vuole sapere se disperdo il seme»

Lo sguardo di padre Jacob è imperscrutabile.

Christian deglutisce. Con un filo di voce, a capo chino, mormora: «Si, padre, disperdo il seme, dalle cinque alle dieci volte al giorno, più la notte, nei sogni»

Padre Jacob lentamente si rilassa.

Un’altra dura giornata di lavoro in archivio.

La sua vecchia carcassa di soldato di Cristo si affloscia sui velluti rossi di quella specie di trono in cui è assiso.

Ora non resta che comminargli la punizione (ne reciterai venti ogni sera) dopo avergli  fatto recitare l’Ave o Maria.

«Ave o Maria» dice, invitando Christian a recitare la preghiera ad alta voce.

E Christian obbediente recita:

«Ave o Maria, piena di grazia, venga il tuo regno e sia fatta la tua volontà…»

Padre Jacob si alza di scatto, rovesciando lo scranno.

Christian schizza a sua volta in piedi facendo un balzo indietro, schivando il braccio proteso del prete, ma non il suo indice accusatore:

«Vattene a casa, Christian Code! E dì a tuo padre che domani lo aspetto in sagrestia dopo la messa. Tuo padre! Non la mamma!»

La sua voce di tenore riecheggia nella navata della chiesa, mentre Christian raggiunge quasi di corsa l’uscita.

Padre Jacob risolleva lo scranno ribaltato.

In tanti anni, non aveva mai sentito una bestemmia del genere.

Ave o Maria, venga il tuo regno!

Entrando in sagrestia si sfila la tonaca e la getta sul cassettone.

Da una madia prende un bicchiere e la bottiglia di vino italiano.

Si versa un bicchiere e lo vuota d’un sorso. Poi un secondo.

Infine si sforza di ricordare il volto del padre di Christian, inutilmente.

* * *

Gli occhi di Robert Code sono incollati sulle natiche formose della giovane donna  che al di là del banco si è piegata in avanti per sostituire il fusto di birra.

Robert è quasi sicuro che non indossi mutandine.

Inconsciamente, Robert Code  si guarda le mani.

Un metalmeccanico ha sempre le mani sporche.

Lo sporco sotto le unghie dice tutto di te.

Le frasi di sua moglie Terry gli passano nel cervello come frustate.

Gli riaprono ferite nelle quali si crogiola.

 Ormai Robert parla con lei solo nella propria testa, dopo aver bevuto tre o quattro birre.

Ogni momento è buono per sentirsi dei falliti.

Hai ragione tesoro. Ma il sabato pomeriggio in solitudine al pub, mentre fuori c’è il sole, con i Tigers in Tv che perdono una partita già vinta, ha qualcosa di speciale, che merita un’altra birra, non credi?

Quasi gli leggesse nei pensieri, appena agganciato il nuovo fusto, la ragazza gli chiede:

«Un’altra birra, Bob? Terry è di turno, no? O ti aspetta a casa?»

Da una vita Jenny McBride gli provoca fantasie erotiche che non saranno mai appagate.

Amica di sua moglie Terry dai tempi delle scuole, vicina di casa e madre di Mary Ann che è a scuola con suo figlio Christian.

Per anni Jenny e Terry si sono aiutate nel badare ai figli piccoli. Impossibile anche solo pensarci.

Ma quando il sabato indossa quella stretta camicetta per dare una mano nel pub di suo cognato, con quel seno prorompente, unica attrattiva del pub dopo le partite in tv, Robert Code  comincia a fantasticare.

«Vada per un’altra birra!»

Nel servirgli la birra, lei dice: «Si muore di caldo qui dentro!»

C’è qualcosa di malizioso in quel suo sorriso?

Robert in tanti anni non l’ha mai capito.

Ora Jenny spegne la tv e accende Radio Rock.

Le note di  Feel like making love dei Bad Company invadono il pub e Robert, nel primo sorso di birra,  rivede la faccia di sua moglie Terry stravolta dal piacere, un’immagine vecchia di anni, un bel ricordo, una grande nostalgia, fare l’amore tutti i giorni, ubriacarsi insieme, ridere e parlare fino a notte fonda.

Poi, nato Christian, niente più sesso, niente allegria, solo rancore e rabbia.

Non ricorda più l’ultima volta che hanno fatto l’amore.

Come sono lontani i tempi in cui lei lo riempiva di complimenti per la sua prestanza di grande stallone.

Adesso lo disprezza, e non in silenzio, lo aizza giorno e notte rinfacciandogli ogni sua mancanza.

Lui rimugina, e a volte esplode.

La picchia fino a farla stare zitta, cercando di non rovinarle troppo la faccia.

Poi osserva il viso di Jenny, un viso comune, e con qualcosa di volgare.

Spesso, in periodi diversi, ha pensato di provarci con lei, ma non l’ha mai fatto.

Non si è mai sposata Jenny, nemmeno dopo la nascita di Mary Ann.

Sembra dieci anni più giovane di Terry.

Si è slacciata un bottone della camicetta, adesso.

«Ti rubo una sigaretta, Bob»

Di nuovo quel sorriso, e nel prendere la sigaretta dal pacchetto che lui le offre, uno squarcio fugace nella scollatura gli trafigge il respiro.

Dal suo sgabello Robert la segue con lo sguardo e si sforza di ragionare pragmaticamente.

Lei esce a fumare. Deve raggiungerla?

E magari dirle qualcosa di spiritoso, gonfiare i muscoli, posarle un istante una mano sul fianco?

Oppure chiederle senza malizia se ha bisogno di una mano?

Il magazzino del pub è proprio dietro l’angolo, la scusa di aiutarla a portare una cassa di coca cola gli pare buona.

E appena in magazzino, sbatterla contro il muro!

Finisce la birra in un sorso, afferra il pacchetto di sigarette e sta già scendendo dallo sgabello quando si blocca.

Attraverso le vetrate, sull’altro lato della strada, vede l’orribile sagoma, un alberello rachitico in movimento, di suo figlio Christian.

Ha i pantaloni sporchi di fango e la maglietta lacerata.

Doveva andare in parrocchia per le confessioni, ma evidentemente si è poi fermato a giocare nel campetto di terra dell’oratorio e adesso sta andando a casa a lavarsi.

Cioè a sporcare il bagno. Poi Terry se la prenderà con lui.

Anche Jenny ha visto Christian, Robert osserva la scena.

Jenny sta gridando qualcosa per attirare l’attenzione di Christian, l’espressione felice.

Fa sempre così con lui, lo ricopre di complimenti esagerati,  “il mio ragazzo preferito”, “l’unico maschio intelligente di questa città”.

Christian la vede e si illumina. Attraversa la strada senza nemmeno guardare. Un idiota!

Jenny getta via la sigaretta appena accesa e spalanca le braccia.

Christian si tuffa letteralmente tra i seni maestosi di Jenny Mc Bride, che se lo stringe addosso come volesse divorarlo.

Robert Code ha bevuto parecchio, ma la sua vista non è offuscata, e vede distintamente,  mentre lei gli stringe la testa al petto, le mani di suo figlio Christian che furtive, nello sciogliersi dall’abbraccio, indugiano sull’attaccatura dei seni della donna.

Lei gli dà un bacio in fronte e lo allontana con dolcezza.

Christian corre via. E poi Jenny fa qualcosa che spiazza Robert: gettato un rapido sguardo intorno, raccoglie la sigaretta da terra, e la riattizza aspirando lunghe boccate compulsive.

* * *

Don’t let me be misunderstood.

Il volume della musica è altissimo, si sente fino in strada.

E Robert da sempre odia quella canzone, quelle parole, quella musica.

Anche prima che Terry gli dicesse: forse odi te stesso, la tua incapacità di esprimerti.

Robert Code sente crescere la rabbia.

Salendo le scale a due gradini per volta, ubriaco, quasi inciampa.

Arrivato al pianerottolo di casa, pensa: “lo ammazzo”.

Spalanca la porta d’ingresso urlando: «Abbassa questa cazzo di musica!».

Ma in soggiorno e nelle camere non c’è nessuno. La porta del bagno è aperta.

Nessuna traccia di Christian.

Per un attimo pensa di andare a spegnere lo stereo, ma la vescica gli sta scoppiando per le troppe birre bevute.

Entrando in bagno si slaccia i pantaloni, e solo allora nota che la vasca è piena d’acqua e di schiuma fin quasi a strabordare.

Per un istante osserva in silenzio la superficie dell’acqua. Che non è perfettamente immobile. Allora protende le mani come artigli nell’acqua.

La preda è viscida, sfuggente, e si dibatte come un pesce.  

Solo le mani sai usare, e nemmeno tanto bene.

Sono mani brutte, grosse, callose, ma forti, dure. Christian non ha scampo.

La sua idea di eclissarsi in apnea, come nei film d’avventura, si rivela una tragedia.

Avrebbe dovuto schizzare fuori dall’acqua mentre suo padre lo cercava in camera, afferrare l’accappatoio e darsela a gambe.

Con presa ferrea, con una mano sola, la sinistra, suo padre lo tira fuori dalla vasca, tenendolo stretto per il collo.

Christian è stupito dalla facilità con cui suo padre lo afferra. Con le mani, cerca inutilmente di coprirsi le parti basse.

Disgustato, Robert vede ciò che suo figlio cerca di nascondere: il suo piccolo pene turgido!

Si stava masturbando!

Lo solleva davanti a sé, inchiodandolo al muro.

Anche se ha sbattuto la testa contro le piastrelle bianche Christian non grida, non urla.

Ora arriveranno le sberle, lo sanno entrambi.

Schiaffi e manrovesci, due, quattro, sei, otto, anche dieci, è la routine del fine settimana in casa Code, o lui, o la mamma, a turno.

Per un istante i due maschi si fissano negli occhi.

Bello come un angioletto, tutto il contrario di suo padre.

Poi  Christian perde il controllo, qualcosa dentro di lui si spezza, e del tutto involontariamente, mentre ancora lo stereo spara le ultime note di misunderstood, eiacula in faccia a suo padre.

La destra del padre, chiusa a pugno, scatta immediata e si abbatte violentissima sul viso di Christian.

* * *

All’istante Christian perde i sensi a ricade a corpo morto nella vasca, facendo uscire secchiate d’acqua.

Ora Robert è in preda al panico. Scivola, cade, si ferisce.

Carponi, in ginocchio davanti alla vasca,  solleva il corpo di suo figlio, lo porta in soggiorno, lo distende sul divano, lo copre.

Poi trova il coraggio di posargli una mano sul petto.

Il cuore batte, ma al posto della faccia, della bocca, del naso, c’è una maschera di sangue.

Come fa a respirare?

Robert cerca un fazzoletto, e mentre si aggira sconvolto nei pochi metri quadri della casa, trova la lucidità di strappare quel cavo elettrico, e spegnere lo stereo.

Finalmente trova un tovagliolo pulito.

Nel pulirgli il naso si rende conto che l’osso è frantumato.

Torna in bagno a prendere la scatola delle medicazioni, e mentre è in bagno, nel tetro silenzio che è calato in casa Code,  lo sente tossire violentemente.

E nel precipitarsi in soggiorno, quasi scivola di nuovo sulle piastrelle bagnate, ma con una spallata allo stipite della porta del bagno, riprende l’equilibrio.

Christian ha gli occhi aperti, ma è immobile.

«Riesci a muoverti?»

Christian non risponde, però solleva e apre la mano destra, poi la sinistra, e infine muove le dita dei piedi.

Robert guarda l’orologio. Le nove e cinque. Manca ancor quasi un’ora alla fine del turno.

Afferra il telefono, e chiama il caporeparto perché mandi subito a casa Terry.

Il caporeparto è un amico, non c’è bisogno di spiegargli niente.

Mezz’ora dopo, mentre Terry porta Christian al pronto soccorso della fabbrica, Robert si fa una doccia fredda e indossa il suo vestito migliore.

Si mette alla guida della vecchia Dodge e va a suonare il campanello della canonica.

Sono quasi le dieci di sera. Ha infilato 50 dollari in una busta e appena padre Jacob gli apre la porta gliela consegna.

Padre Jacob riconosce subito quel volto dimenticato e il suo bisogno. Lo fa entrare senza fargli domande.

E’ sufficiente uno sguardo di compassione.

«Stasera ho bevuto, padre, e ho picchiato mio figlio»

Padre Jacob infila la busta in un cassetto e riflette.

L’uomo davanti a lui è sconvolto. Il suo pentimento sincero.

Dio vede e provvede.

Non è il momento di affrontare certi discorsi sulla “diversità” del cresimando Christian Code.

Probabilmente Robert Code non sa nemmeno cosa sia il quoziente d’intelligenza.

Padre Jacob lascia trascorrere qualche ragionevole istante prima di alzare la destra nel segno della croce.

Robert piega il capo e giunge le mani.

E padre Jacob recita:

«Ego te absolvo in nomine patri».

* * *

Uscito dalla parrocchia, Robert non sa cosa fare.

Non ha il coraggio di andare al pronto soccorso.

Fa una lunga camminata seguendo la recinzione della fonderia.

La sua testa è piena di pensieri confusi su casi di morte conseguente a emorragia cerebrale di persone che dopo il trauma riprendono momentaneamente i sensi.

Alla fine del giro, da lontano, nota che davanti al posto di pronto soccorso non c’è alcuna auto. Dunque Terry e Christian sono rientrai a casa.

Con la speranza nel cuore, ripercorre il lungo tragitto.

Quando rientra a casa è passata la mezzanotte.

Terry sta guardando la Tv, la sigaretta che le pende all’angolo della bocca.

La camicetta aperta, il reggiseno sul tavolino, iI posacenere pieno di cicche.

Non sono la tua baldracca.

Robert attende. Inutile chiederle.

Come sempre, lei inizierà a parlare quando lo deciderà lei, di scatto, come un’arma automatica, per frasi secche, senza guardarlo.

Roberto attende in piedi per un tempo lunghissimo, in preda a un’ansia crescente.

Perché le porte delle due camere sono aperte, e Christian non c’è.

Terry spegne la sigaretta, la spegne con cura.

Poi ne accende un’altra e la fuma quasi per intero.

«L’hanno trattenuto in osservazione. Ti è andata bene. Avresti potuto ammazzarlo»

* * *

FINE PRIMO CAPITOLO – segue

photo “The baby was” by Athos Mazzoleni

http://www.foodforeyes.com/ 

piano dell’opera: The male code  (original screenplay for Christian Bale

by Leone Belotti / GianFranco Bortolotti / CalepioPress©2013)

 

INDEX

 parte prima 

1 – il codice sorgente                       Detroit, 1974.

2  – la scheda madre                        Detroit, 1976.

3 – la periferica di controllo            Detroit, 1978.

4  – il sistema operativo                   New York, 1980.

5  – la relazione in copyright           Boston, 1982

6  – la scheda di memoria                Detroit, 1984

parte seconda

7  – la donna software                      Sylicon Valley, 1986

8  – la donna telefonia mobile          NY-London, 1988

9  – la donna pixel                             NY-Paris, 1990

10  – il maschio hacker                     Los Angeles, 1992

11 – il dominio del maschio web     Mosca, 1994

12  – il maschio server                     NY-Bejing  1996

PROXIMA PUBLICATIO : CAP2 La scheda madre > MAR 9 APRIL 2013

l’app lisa

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LISA_Constellation2_500px

diciannove anni fa scoprivo il www.


quindici  anni fa aprivo una homepage.

dieci anni fa un blog  […]

abbiamo avuto la possibilità di avere un pubblico

senza corromperci con il mondo mainstream.

abbiamo provato una libertà che il mondo della censura

nemmeno immaginava o concepiva possibile.

il piacere che ne è derivato è indescrivibile,

resterà parte predominante, ricordo preponderante della mia vita […]

Sette  anni fa andava di moda second life.


Sei anni fa il must era facebook.

Cinque anni fa twitter.
  Poi gli smartphone, le app, i tablet, gli e-book […]

Ora mi interessa capire come funziona il mondo mainstream,

come si fa un motore di blog, un network, un’interfaccia […]

Internet è stata una grande woodstock,

che le generazioni prima di noi stentano a capire,

e quelle dopo si rammaricano di non aver visto nascere […]

Un anno fa nasceva mia figlia,

oggi digitando il suo nome in Google

scopro che la NASA ha messo in orbita un programma omonimo:

nell’immagine: LISA (Laser Interferometer Space Antenna, NASA)

         (federico carrara speaking reload&edited by leone) 

 

sparare per eliminare creature

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Crysis-3-1

non sono mai stato un grande videogiocatore, eppure sono sempre stato attratto dai videogiochi.

diciamo che io sono uno di quelli da “intro”, uno che vede l’inizio del gioco, l’intro appunto, spara due colpi, gira nella prima stanza, casca nel primo buco sul pavimento, viene ucciso dal primo mostro, si rompe le palle e molla lì.

però ogni tanto vado sempre a vedere a che punto stanno i videogiochi. la grafica in particolare attrae la mia attenzione, sulla giocabilità so dire poco perchè, come detto, non gioco, ma mi piace guardare. sono un voyeurista dei videogiochi.

i videogiochi si sono parecchio trasformati nei decenni. ci sono anche testi di storia dei videogiochi, ma una sintesi può essere questa:

prima i giochi erano fatti da gruppi di lavoro minuscoli, per non dire che le software house erano in realtà fatte da una sola persona, che aveva l’idea, inventava la trama, scriveva il programma, disegnava la grafica, insomma tutto.


http://www.youtube.com/watch?v=EZiIQvUT7nE

questo ovviamente garantiva la creatività: andavi dove ti portava il cuore, e c’era talmente poca storia e concorrenza nel settore, che era difficile massificarsi, anche volendo.

per esempio questo è Jeff Minter, inglese, un pioniere dei videogiochi, di quando i videogiochi si chiamavano “L’attacco dei Cammelli Mutanti” o “Pecore nello spazio”, e la sua software house la vedete nella foto: lui e il suo computer nella sua stanza

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poi pian piano tutto si è complessificato e banalizzato.

oggi per fare un videogioco servono decine (per non dire centinaia) di persone. e questo ha portato alla banalizzazione, perchè se sei da solo fai sostanzialmente il cavolo che ti passa per la testa, se sei in un gruppo di lavoro di 50 persone, con un budget milionario (che devi restituire, possibilmente moltiplicato, a chi l’ha investito), con tempi di rilascio obbligati, ecc. ecc., il margine per la creatività è zero.


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e infatti oggi i giochi sono tutti, completamente, tristemente, uguali.

pensate alle differenze che c’erano un tempo tra ‘Pacman’, ‘Asteroids’, ‘Pong’ e ‘Tetris’, e pensate alle differenze che ci sono oggi tra ‘Crysis’, ‘Metal Gear solid’, ‘Dead Space’, ‘Splinter Cell’, e tutti gli altri: oggi sono tutti lo stesso identico gioco, in cui cambia forse il nome del protagonista e il nome dell’arma che usa. e basta.

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gli engine che muovono i videogiochi moderni sono talmente complessi, che le società nel mondo in grado di svilupparli si contano sulle dita di una mano, e probabilmente vi restano anche delle dita libere. questo significa che qualunque gioco voi proviate, è sempre lo stesso gioco, succedono le stesse cose, ci sono gli stessi effetti, offre gli stessi gradi di libertà.

ma la banalizzazione odierna non è solo sul lato tecnologico, è anche, e soprattutto, sul lato creativo/culturale.

perchè? perchè in qualsiasi videogioco devo vedere in prospettiva un palazzo decadente, devo avere in mano un’arma, e devo uccidere creature che altrimenti uccidono me?

che il gioco sia ambientato nel passato o nel futuro, che inizi con un giovane e una giovane che si baciano o con un drago che cala sulla terra, o con uno slalom tra pianeti, in qualunque caso, nel giro di un attimo, mi ritrovo a sparare come un pazzo per eliminare creature.

sparare per eliminare creature.

sparare per eliminare.

sparare.

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lo so, esistono delle eccezioni, esistono tanti tentativi di creare giochi diversi, ma nella migliore delle ipotesi questi giochi sono stati fenomeni di nicchia (vedi ‘Spore’,’Syms’,’Symcity’ e pochissimi altri), nella peggiore delle ipotesi sono falliti perchè non hanno venduto nulla.

detto questo, precisato che voi software house avete veramente rotto le palle con i vostri FPS (‘First Person Shooter’, ‘sparatori in prima persona’, mai definizione fu più calzante), vorrei fare un elogio agli engine.

quello che va detto va detto: tutti gli engine puntano allo stesso tipo di gioco First Person Shooter, e in questo sono banali, ma la grafica, il livello di dettaglio, il realismo, la ‘credibilità’ che hanno raggiunto oggi fa davvero impressione. mette i brividi.

il grosso balzo in avanti negli ultimi anni è stato fatto sulle luci (le luci sono tutto nella narrazione visiva), e sulla fisica. soprattutto sulla fisica. la fisica di un gioco è quella parte di engine, di algoritmi, che serve a rendere più credibile tutto ciò che riguarda il movimento.




http://www.youtube.com/watch?v=qq7-hTVP9AE

la fisica comprende il calcolo agli elementi finiti per simulare un muro che si sgretola o un ponte che esplode, la cinematica inversa per simulare una bestia che cammina, perde l’equilibrio, e cade, la fluidodinamica e i campi di particelle per simulare perfettamente l’acqua, il fumo, il fuoco.



http://www.youtube.com/watch?v=j0G8IgJxLRE



certo, io c’ho da ridire anche sugli engine…

perchè non sperimentare un po’ anche negli engine? perchè non randomizzare un po’ le cose? perchè non giocare un po’ con la fisica (cambiandone le leggi, visto che nel virtuale si può)? perchè non abbandonare una buona volta il realismo per evolvere nell’astrattismo e nel concettuale, come è successo in tutte le arti visive?

ve lo immaginate un engine cubista? o un physics engine ad improbabilità infinita?

forse i tempi sono ancora immaturi, forse lo sono i consumatori, forse gli imprenditori, o forse tutti quanti, il chè è come dire che tutti sono normali e sono io il problema…

…però davvero mi piacerebbe più originalità, più capacità di astrazione, nei videogiochi, più provocazione, più ribaltamento dei punti di vista.

comunque sia,

turiamoci il naso sulla violenza,

facciamo spallucce di fronte alla mancanza di originalità,

ed ecco i più pompati titoli di videogiochi che arriveranno nel 2013:

http://www.youtube.com/watch?v=yeguVovQ8Dw

dopo tutto,

è pur sempre letteratura.