ho dimenticato il costume

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Temperatura esterna -2, temperatura dell’acqua +2.

E io mi sento bene! Sono un labrador! Ho tutto il pelo che serve per qualsiasi temperatura!

Questa mia posa è un sit-in per protestare contro l’orribile usanza contro natura di farci indossare ridicoli abitini per cani appena la temperatura scende di qualche grado. Terrificante. Quando vado in centro ormai sono di più i cani vestiti di quelli al naturale.

Io non pretendo che voi o i vostri bambini andiate in giro nudi. Ma per favore, voi cercate di trattenere la vostra porca tendenza a farci diventare degli umanoidi a quattro zampe.

Voi potete vestirvi e spogliarvi come quando volete. Noi perdiamo il pelo.

Perdete questo vizio di trattarci da umani. Gli abiti da cani, tranne rari casi specifici, sono una bestemmia. Come se noi dicessimo: dio uomo!

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http://web.stagram.com/n/bzonca/

un nome che oggi non c’è più

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20120920-113347

Quando sono nato io, nel marzo del 45, si chiamava Curdomo,  Curno-Dorotina-Mozzo, un nome che oggi non c’è più.

I primi ricordi sono i giochi che facevamo da bambini, in cascina, nella stalla, le battaglie  armati di fionde per conquistare e difendere la Cà di Rane, un casolare che per noi era il posto di frontiera tra il nostro territorio, Mozzo, e quelli delle Fornaci di Longuelo, che erano già ragazzi di Bergamo, quella era la zona di guerra, tra il colle Lochis e il colle dei Gobbi, tra villa Masnada e villa Bagnada.

Ci davano l’uva melluna, come premio, i contadini di Mozzo… in realtà giocavamo in un posto che era stato un deposito d’armi dei tedeschi, con una serie di cunicoli scavati sotto i colli, alcuni franati, e una sera tre nostri compagni, il Tarcisio Gamba, noto fifone, e il Rota Basilio, noto sbruffone (ma anche lui fifone) e un altro che non ricordo, si erano persi nei tunnel, non li si trovava. Il prevosto, Don Assolari, da Somendenna, aveva suonato le campane – cosa che faceva sempre, anche in caso di temporali – erano arrivati i vigili del fuoco… alla fine erano saltati fuori…ma poi tutta la zona è stata chiusa, i cunicoli murati.

Un altro ricordo sono gli scherzi macabri che facevamo nascondendoci dietro le siepi del cimitero, lungo la ferrovia,  proprio lì sotto passavano in bicicletta le ragazze che tornavano dal lavoro in fabbrica alla Legler, e allora noi, all’ora del primo buio, accendevamo le torce e facevamo voci di spirit, come fossimo i morti e chiamavamo a noi una delle ragazze, fichè una sera le ragazze sono venute con i fidanzati, e ci hanno tirato fuori dai cespugli per le orecchie – con le ragazze c’era anche mia madre Angela, che lavorava alla Legler!

Mia madre era del 14, come mio padre, Alessandro, originario di Valbrembo (macelleria Mangili). Mio padre lavorava alla Caproni, alla Caproni facendo aerei, poi dopo la guerra è stata chiusa, e allora è passato in Comune, poi alla Dalmine. Ricordo il maestro Tadini, alle elementari di Mozzo, veniva da Piazza Pontida, era un tipo, faceva anche un doppio lavoro, i mercati, vendeva articoli di cartoleria. La mattina arrivando a scuola ci dava i soldi per andare a comprargli la brioche, noi ne prendevamo tre regolarmente, lui non si accorgeva di niente, o faceva finta.

Al colle Lochis c’erano posti dove si appartavano le coppiette, noi la domenica invece di andare al catechismo andavamo a spiare le coppiette, finché una domenica siamo lì nascosti tra i cespugli quando sentiamo la voce del prevosto tuonare “la grazia del Signor colpisca quei disgraziati che dovrebbero essere al catechismo…” e dal sentiero lo vediamo sbucare armato di tutto punto, come in processione…

(ricordi d’infanzia di i Luigi Mangili – centro diurno anziani Caprotti-Zavaritt – raccolti dal BaDante Leone Belotti))

adv +30kg -30sec

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pinguino

Pubblicità palese Vodafone al Sanremo con Elio travestito da grasso (pingue) sul palco a sostegno evidente dello spot Vodafone versione pinguino (che viene dal latino “pinguis”, grasso, ma tu guarda le coincidenze!) + predica della Littizzetto pro brutti e grassi + smentita del direttore rai su presunti condizionamenti del televoto a favore di Elio (e chi se ne frega, il problema è esattamente l’opposto, non è lo spot Vodafone che aiuta Elio a vincere Sanremo, è Elio, e dunque Sanremo, che aiuta Vodafone!): un bel coordinato! Compliments all’intelligence dell’agenzia e all’ignorance di noi utenti televotanti, che paghiamo il canone (un cane grasso?) per guardare Sanremo, cioè gli spot Vodafone, e  votiamo Elio col “televoto popolare” (che è un service telefonico a pagamento!). En plein!

Chi ha mezzo minuto per riflettere, rifletta sul fatto che il pinguino-Vodafone-Elio-Sanremo è stato creato per sostituire l’orso bruno-Vodafone, denunciato dall’audicons per pubblicità ingannevole, promettendo “minuti” che invece sono al massimo “mezzi minuti”.

+30 Kg – 30 sec = ADVzero

l’app rognone

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ren

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è ora di occupare gli spazi pubblicitari

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heineken_logo

(bozza art18 Manifesto Turbo Comunista al vaglio della costituente permanente dell’Internazionale Turbo Comunista – sez. Italia) 

18 – è ora di occupare gli spazi pubblicitari

– è chiaro, come una volta si occupavano le fabbriche, oggi bisogna occupare gli spazi pubblicitari, socializzarli

– vogliamo realizzare la comune pubblicitaria collettivizzare tutti gli spazi pubblicitari e realizzare l’ideale della città della comunicazione autogestita nella quale ogni cittadino ha diritto ad utilizzare lo spazio di comunicazione per rendere pubblica la propria angoscia esistenziale

– bisogna fomentare la rivolta delle masse televisive

– porre fine allo sfruttamento dell’immaginario collettivo da parte delle elites corrotte

– non c’è libertà d’espressione di parola di pensiero finchè vige la proprietà intellettuale la proprietà privata dei mezzi di comunicazione

–  il vero debito pubblico riguarda la perdita di valore della memoria collettiva, del territorio, della cultura – tutto svenduto in cambio di perline di vetro

–  uscire dalle riserve, disotterrare l’ascia di guerra, guerra di comunicazione, terrorismo mediatico, sabotaggio culturale

– produrre slogan per il cliente uomo – diffondere loghi per l’azienda uomo

– creare stili di vita di marca umana

– si invitano i consumatori, i creativi, i giovani a crearsi da sé il proprio valore culturale e simbolico aggiunto

– crearsi una o più marche proprie e relativi stili di vita e a sovrapporre queste marche a ogni merce consumo feticcio piatto apparecchio o aggeggio in uso e consumo.

 

facevamo l’erba sul ciglio della strada

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Rav6

Mio padre lavorava  alla Caproni. La Caproni era una fabbrica di aerei. Il campo di prova era appena  fuori casa, sulla sponda del fiume. Sentivamo  il ruggito dei motori in decollo a tutte le ore. In famiglia  eravamo quattro fratelli. Vivevamo a Tresolzio, frazione di Brembate, eravamo mezzadri della contessa Moroni. Il fattore faceva  il bello e il cattivo tempo, e aveva anche delle pretese sulle mogli, sulle figlie dei mezzadri.

Eravamo gli ultimi. Chi aveva un pezzo di terra, già era in diritto di trattarci dal di sopra. Andavamo a fare l’erba  sul ciglio della strada, ma anche lì c’era qualcuno a dire «non è roba vostra». Tutta la mia infanzia è stata una continua umiliazione.

Mi mandavano in bottega a fare la spesa, c’era  sempre qualcosa indietro da pagare, e allora  ero sempre l’ultimo, chiunque entrasse era servito prima di me: alla fine dovevo prendere quel mi dava, non potevo scegliere il miglior taleggio, no, quello era per i signori. Questo trattamento lo ricevevi ovunque. Anche a scuola. La maestra  per prima cosa guardava come eravamo vestiti, poi decideva i posti.  Le prime file erano per i figli del podestà, del’avvocato, del fattore. Poi c’erano i figli dei commercianti e degli impiegati.  Nelle ultime file i figli degli operai e dei contadini e in fondo alla classe, nell’ultima fila, nell’ultimo banco c’ero io, il figlio del mezzadro Ravasio.

Il mio primo giorno di scuola finì prima ancora di cominciare: mia nonna mi stava accompagnando, ma suona l’allarme,  bombardamenti, tutti a casa, niente scuola.

A sei anni ero già grande, dovevo badare ai fratelli più piccoli, e se succedeva qualcosa ero io responsabile, come quella volta che dovevamo andare da Tresolzio a Locate dalla nonna, e a metà strada sentiamo un rumore che conosciamo bene, aerei, e il mio fratellino Egidio, quattro anni, poer nani, se la fa nei pantaloni, e io a pulirlo in qualche modo, nel fosso, sotto le bombe , e poi, arrivati dalla nonna, le ho dovute anche prendere…

Quando non eravamo a scuola eravamo nei campi ad aiutare, a zappare, a fare il fieno. Si andava a rubare i vecchi stracci per farci un pallone, giocavamo a piedi nudi e ci si faceva  male ai piedi, altri giochi non c’erano,  qualcuno si divertiva in primavera  a costruire arpe con i maggiolini, ma il vero sport era la fionda. Con la fionda in tasca si andava in cerca di qualche passero cui tirare o qualche lampadina, quelle poche che c’erano. Ricordo i miei primi zoccoli di legno, costruiti da mio padre lavorando un pezzo di legno, come ne “L’ albero degli zoccoli”. Per chiuderli si usava un pezzo di copertone usato di bicicletta che aveva già fatto chissà quanti chilometri  su strade di ogni tipo e poi ne avrebbe fatti altrettanti  a piedi.

A 11 anni ho avuto le mie prime scarpe, in cartone pressato: le ho avuto per andare a lavorare lontano da casa, a Lecco, a far  bisacche, le reti metalliche  che poi vengono riempite di pietre e usate a irregimentare  il fiume. Il filo di ferro di 3 mm, il bordiù, ti tagliava le mani.

Tornando a casa  guardavo il fiume in piena, faceva  paura, e pensavo: devo farle bene, le bisacche.

La sera  mia madre mi diceva  «Fammi vedere le mani», e mi curava le ferite.

Questi lavori li facevano i ragazzi, d’inverno, all’aperto.

Finita la guerra, la Caproni decide di lasciare a casa cento operai. Tra questi, mio padre. Un dramma. Con i soldi della liquidazione, per prima cosa, andammo a pagare i debiti col negozio di alimentari. Una scena che mi ricordo come se fosse successa ieri.  Ero con mio padre, entriamo, aspettiamo, e quando non c’è nessun altro da servire  viene il nostro turno, mio padre tira fuori la grossa banconota da mille lire, sembrava un tovagliolo, gliela consegna, e la signora, che sapeva della liquidazione, nel prendere i soldi, con tono di rimprovero, sollecitava  mio padre a darle in consegna  tutta la somma, come si farebbe con un bambino. Un’umiliazione terribile. Qualche anno dopo suo figlio, sempre vestito come un damerino, mi passa davanti mentre sto andando alll’allenamento di calcio, e con arroganza  volgare lascia andare un peto al mio indirizzo. Alla mia protesta, risponde: «Io mangio il prosciutto, mica la mortadella  come voi altri». Senza pensarci, gli sono addosso e gli dò una lezione. Dovevamo avere 14 o 15 anni. Io lavoravo già a Milano, e cominciavo a capire e a non tollerare più certe  cose di quel nostro modo di vita da paolot, tutto chiesa, casa e orecchie basse.

Ho sempre avuto la passione per il ballo, una passione iniziata nel dopoguerra, quando lavoravo a Milano, avevo sedici anni, e insieme ad altri compaesani ci fermavamo a dormire dal lunedì al venerdi in una stanza che il titolare della ditta ci aveva dato in uso. Il Giovedì sera si usciva, un’esperienza del tutto nuova per me, andare a divertirsi. Si andava al bar a vedere  in televisione “Lascia o raddoppia”, era quello il divertimento. Poi abbiamo cominciato ad andare al Polverone, lo chiamavano così, era uno stanzone sotto la Stazione Centrale addobbato a sala da ballo, frequentato da operai e cameriere.  Quando tornavo al paese e dicevo ai miei amici di essere andato a ballare quelli si scambiavano occhiate d’intesa e mi prendevano in giro, erano convinti che raccontassi balle per farmi bello, non potevano capire che a trenta chilometri di distanza, a Milano, certe cose erano normali, c’era  il lavoro e la miseria, ma anche un assaggio di una merce che al paese non sapevano nemmeno cosa fosse, la libertà…

Una sera  conosco una ragazza, cominciamo a ballare insieme, mi sembra di vivere in un film, poi usciamo, la accompagno  a casa in tram, fin sotto il portone dove vive e lavora come cameriera,  e lei mi dice: «Vuoi salire a bere una tazza di the? Questa sera  i signori non ci sono».

E io, paolot, con in testa il divieto più forte della voglia di stare da solo con una ragazza , che le rispondo: «Allora sarà per un’altra  volta». Ci ho poi pensato per settimane, per mesi. Più vista. E un mio compagno di lavoro, uno di Milano, quando gliel’ho raccontata,  mi ha detto: «Adesso sai cosa vuol dire pirla».

Qualche anno dopo, salito su un treno, sono andato in Svizzera come edile. Lavoro, lavoro, e ancora  lavoro: ma in Italia c’era  Liliana, la mia fidanzata. Ci siamo sposati nel 60, e subito a lavorare in Svizzera, ma insieme, lei aveva trovato lavoro nella ristorazione, si viveva con altre cinque coppie di italiani in una casa per emigrati. Facevamo i turni per usare la cucina, ma avevamo la nostra stanza e la sera studiavamo insieme il tedesco.

Poi una notte lei sta male, perde sangue, io nemmeno avevo capito che fosse incinta, per come eravamo stati cresciuti ed educati su certe cose c’era  un pudore e un riserbo totale. All’ospedale, insieme al dolore per l’interruzione della gravidanza,  mi aspettava  un’umiliazione decisiva: un dottore tedesco, in camice bianco e occhiali d’oro, che con disprezzo  mi dice: «italiani, siete come gli zingari».

(tratto da Giovan Battista Ravasio,  “L’erba sul ciglio della strada”, ©2006 edizioni Calepio Press)

l’app manzella

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alkaseltzer

(manzella è un neolog per manzo in pastella, app sta per appetitosa, chiaramente)

 ingredienti: bistecche di manzo normalissime, 
cipolla,
sale,
olio,
frutta secca assortita (assortita a caso, il risultato non cambia nella sostanza),
pastella preconfezionata per fritture (credo contenga pan grattato, uovo, e saiddio cosa),
formaggio prepotente (zola, ma secondo me anche qualche buon formaggio di capra, qualcosa che si sciolga bene e che puzzi molto).

prima di tutto tritate col fido minipimer la frutta secca fino ad ottenere una granella come quella che mettono sui gelati.

poi via con il solito soffritto con cipolla, e un pizzico di sale (non ho ancora capito quando va aggiunto il sale, quindi ogni volta lo aggiungo in un momento diverso della preparazione).

si pigliano le bistecchine e le si impregnano, le si inzaccherano di pastella. la pastella assorbe subito l’umido della carne e si forma una melma semitrasparente, quindi insistete con la pastella finchè le bistecche non sono più riconoscibili come tali. sulle mani vi si formeranno dei guanti di pastella un po’ simili agli zoccoli di terra quando camminate in un campo appena arato.

mettete le bistecche sfigurate nel soffritto (quando questo è pronto, nè prima nè dopo), e fatele cuocere secondo il vostro gusto di cottura sul primo lato. quando questo è pronto giratele, e noterete che brandelli di pastella si staccheranno, mischiandosi con le cipolle del soffritto, parti di bistecca cotta rimarranno nude, e su altre la pastella si aggrapperà ormai imbrunita a mo di impanatura.

poco prima che le bistecche siano cotte anche sul secondo lato, cospargete il tutto (carne e soffritto) con la granella di frutta secca. questa si annegherà nella pastella e nel soffritto, assorbendo olio come una spugna, un piacere già solo per la vista…

a fine cottura il piatto potrebbe essere pronto, ma sarebbe troppo leggero, il fegato ne risentirebbe troppo poco per i nostri intenti nefasti: quindi, con la bava alla bocca e bevendo l’ennesimo bicchiere di vino, ricoprite completamente il lato superiore delle bistecche con tante fettine sottili di formaggio, e mettete tutto nel forno già caldo per pochi minuti, giusto il tempo necessario a far sciogliere per bene in formaggio.

servite bollenti e con abbondante alka seltzer nei bicchieri di ogni invitato: sta roba è matematico che non la digerirete prima di 24 ore. ma che sapore, che botta di gusto ti dico…. sta merda stronca sul nascere la fame compulsiva di qualunque psicopatico conosciate.

(ricetta pubblicata in tempi non sospetti su

http://ammmore.federicocarrara.it/

> commento di Bianca, postato a suo tempo: apprezzabile l’impegno.Le solite ricette leggere e da novel cousin.Per il sale, in questo caso o in altri in cui è prevista l’impannatura in pastella liquida o densa, è da aggiungere direttamente nella pastella. Se invece ti capiterà di passare la carne in semplice farina o pane grattuggiato, per intenderci tipo bistecca alla milanese, mettilo verso fine cottura.La carne rimarrà più tenera.


non avere paura!

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papaoro

Caro Benedetto, nella tua ultima dichiarazione hai detto: “non è facile opporsi pubblicamente a scelte che molti considerano ovvie, quali l’aborto in caso di gravidanza indesiderata, l’eutanasia in caso di malattie gravi, o la selezione degli embrioni per prevenire malattie ereditarie

Ti rispondo con le parole di Woytila:

Nolite timere! Non abbiate paura!

Non abbiate paura della verità! La verità è semplice.

Essere gay non è peccato.

E’ peccato essere pedofili, è peccato essere ipocriti.

EGO VOS SUM. EVANGELIUM REVOLVERE. EXCELLERE ANIMA

adv 730 d.C.

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iconoclastia

tratto da un adv master, trascritto a memoria e tradotto a senso (originale in inglese, relatore un grande art director italiano, generazione sessantottina): “l’immaginetta della Madonna è la base di due millenni di pubblicità; il cristianesimo è l’anima dela pubblicità, l’arte sacra il fondamento della società dell’immagine, questo lo sanno tutti, eppure c’è stato un momento, tra il 730 e il 787 d.c. in cui ogni icona è stata distrutta e vietata per editto di Leone III l’Isaurico, imperatore bizantino. Per 50 anni siamo stati tutti icononoclasti, compreso Carlo Magno, fino a quando su iniziativa della principessa Irene (che dormiva con due immaginette nascoste sotto il cuscino) il culto delle immagini fu ristabilito, e gli iconoclasti  scomunicati.

Il vero paradosso è che l’azienda più vecchia e grande del mondo, che per prima ha inevtato la pubblicità, ovvero la chiesa cattolica, sia oggi totalmente incapce di usare anche al minimo tutta la potenza dell’arma da lei stessa creata.

L’immagine della chiesa cattolica non corrisponde alla sua realtà.

Leone XIII con l’enciclica Rerum Novarum aveva dato la direzione giusta, la chiesa deve misurarsi con i nuovi strumenti di comunicazione di massa. Ma non deve limitarsi a inseguire, deve porsi all’avanguardia, occupare col messaggio gli spazi pubblicitari, i centri commerciali, porsi a modello, interpretare senza paura la forza dirompente del vangelo, coinvolgere artisti, intellettuali, questo è il messaggio del nuovo papa, Leone XIV, che nel solco del tredicesimo ha titolato Rerum Novissimarum la sua enciclica, e invita tutti i creativi senza incarico a lavorare come gli antichi maestri per l’unico committente degno, il papa, l’ecclesia, la comunità universale”.

quel cane del fotografo

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mandatemi le vostre foto con indicata la professione del vostro padrone, così potremo pubblicarle col titolo “quel cane dell’architetto” “quel cane dell’avvocato” etc, così da insultare i ns padroni come meritano, e senza prendere denunce, gli mettiamo anche il link se hanno piacere, ma li sfottiamo a piacere. Nel mio caso, come vedete, il mio padrone, che è un fotografo, con la scusa di immortalarmi, non mi lascia vivere. Mi segue ovunque con le sue ottiche che catturano gli attimi e gli schizzi: io voglio uscire a fare i miei bisogni, ecco che lui ha bisogno di fotografarmi, e propalarmi ovunque, in bacheca, sui social, sulla nuvola. Spero che la protezione animali faccia qualcosa, tanto più che io  mi sento sempre più, oltre che umanista, musulmano, un cane musulmano (absit iniuria verbis): odio essere fotografato e visto da ignoti rimbambiti sentimentali che mi rubano l’anima (se pagano, è diverso); spesso detesto anche solo essere guardato, non sopporto essere accarezzato dal primo stronzo che incontriamo (e il mio padrone ne conosce non pochi),  sono terrorizzato all’idea che prima o poi il mio padrone decida che anche io debba diventare vegetariano (per il mio bene, immagino) a volte mi ritrovo a sognare un padrone che mi lasci fuori casa, mi dia i suoi avanzi e ogni tanto anche un calcio senza motivo, d’affetto.  Quel cane del fotografo!

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