cosa vuol dire Dio è nei dettagli

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guttuso 62

Parliamo dell’abusata citazione “Dio è nei dettagli”; una di quelle frasi che tutti usano e quasi tutti fanno finta di capire. E invece ha almeno 3 significati molto diversi, a seconda delle versioni e delle attribuzioni: a Gustave Flaubert  (“Dieu est dans le detail”); ad Aby Warburg (“Gott ist im detail”)  e a Mies Van der Rohe (“God s in the details”).

1) Gustave Flaubert è il padre del romanzo moderno, siamo nella Parigi secondo Ottocento, caput mondi  per artisti, scrittori, sovversivi, avventurieri, imprenditori; con Madame Bovary Flaubert ha creato non solo il modello nella nuova donna, psicolabile e “fashion victim” ante litteram,  ma il modello del nuovo romanzo;

la lezione del maestro Flaubert è condensata in un slogan, “occorre far parlare le cose”: è la tecnica narrativa che sarà poi la base  del cinema e della pubblicità.

Dalla descrizione della spazzola di Madame Bovary percepiamo l’inquietudine della donna moderna con più forza e più precisione rispetto a un’astratta e prolissa descrizione psicologica.

Attorno a Flaubert si ritrovano una serie di “nipotini” di grande futuro, Maupassant, Zola, Hugo, tutti i protagonisti del nuovo realismo.

Lo scrittore moderno è un selezionatore, un decoder, che costruisce una storia mostrando oggetti e fatti. Non è più il Dio onnisciente manzoniano, che vede tutto dall’alto.

Un giorno Maupassant chiese al maestro: “Dunque Dio è morto?”

No, rispose Flaubert, Dio non è morto:  Dieu est dans le detail.

2) Aby Warburg è il padre della critica d’arte contemporanea, siamo ad Amburgo nel 1925, attraverso una serie di conferenze Aby Warburg diffonde la sua fondamentale teoria sull’arte e l’architettura occidentale  come continua ripetizione di archetipi ricorrenti: proprio  dall’analisi dei dettagli si rintracciano una serie di rimandi, nei dettagli si nascondono stratificati significati simbolici ma anche diabolici:

il diabolon è un segno di doppiezza, che divide e falsifica, frammenta e disperde, il simbolon è la metà di un segno, che rimanda a un insieme originario autentico.

Warburg faceva l’esempio degli ornamenti architettonici – siamo nell’epoca del liberty simboli autentici di una realtà perduta, quando sono in rovina,  che diventano doppi e falsi quando vengono “restaurati” o “rifatti in stile”, tramutandosi da simboli in diavoli.

Per rendere chiaro il concetto, Warburg riprese Flaubert, e disse: non solo Dio è nei dettagli ma anche il Diavolo è nei dettagli!  Di fatto, la sua frase rese celebre il motto di  Flaubert, e lo diffuse nella lingua tedesca (Gott ist im detail!)

3) Mies Van der Rohe è il padre dell’architettura contemporanea: siamo a Chicago attorno al 1960, Mies Van der Rohe insieme a Gropius, Aalto e Wright è considerato il padre del movimento moderno,  già direttore del Bauhaus, quindi emigrato negli Usa a causa del nazismo,  è il capostipite nobile dell’archistar-guru contemporaneo.

Tutta la sua filosofia è in due celebri slogan: “less is more”, manifesto del minimalismo,  del sottrarre funzione alla forma per arrivare a dare forma alla funzione, quasi come se l’architetto fosse Dio, e a precisare la questione se l’architettura sia la divinità dell’uomo razionale, Van der Rohe pronunciò quello che divenne il suo secondo slogan:

“God is in the details”, Dio è nei dettagli, intendendo però dire l’esatto contrario  di quanto disse Flaubert: se per Flaubert Dio si rivelava nei dettagli, segnali e simboli di un’unità superiore,  per Van der Rohe i dettagli, ossia l’assenza di dettagli, o comunque la non manifestazione dei dettagli, rappresentano e significano l’assenza di Dio, o la sua non visibilità.

Dunque: per Flaubert dai dettagli si capisce la qualità divina di una creazione; per Warburg nei dettagli inutili, decorativi, si nasconde il Diavolo; per Van Der Rohe la perfezione divina è nella non visibilità dei dettagli, corrispondente alla non visibilità di Dio, il vecchio Dio absconditus. E quindi, oggi, la cura per ogni dettaglio è proprio nell’evitare di far vedere i dettagli!

(imago: R.Guttuso, Stiratrice e ragazzo di Caravaggio, 1974)

 

negri e handicappati

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In tv vedi lo spot di Coopi che ti invita a donare qualche euro con un sms.

Coopi sta per cooperazione internazionale, è una onlus che raccoglie fondi per il sostegno a distanza di bambini denutriti nel sud del mondo.

Tra le altre cose, la voce fuori campo dice: “la malnutrizione provoca handicap”.

Cosa vuol dire la parola handicap?

Hand significa mano, cap significa cappello: l’handicap è la situazione di chi si trova a chiedere l’elemosina, col cappello in mano,

dunque, in primo luogo, gli handicappati sono i bisognosi.

L’handicap non è un carattere, una malattia, una menomazione dell’individuo, ma una condizione di bisogno, uno svantaggio sociale che i soggetti “diversi” (per es. non deambulanti) si trovano di fronte in un mondo su misura dei “normali”.

Evidente che se fossimo al 99% paraplegici, in un ambiente a misura di sedia a rotelle, il diverso, l’handicappato, sarebbe quello privo di sedia a rotelle.

L’handicap è dunque un deficit, un difetto dell’organizzazione sociale, non dell’individuo “diverso”. Invece, nel senso comune l’handicap è un difetto del soggetto, e dunque l’handicappato un essere “difettato”. Per rimediare a questa “scorrettezza”, ecco la diffusione di espressioni “corrette”, per cui gli “handicappati” sono diventati dapprima “portatori di handicap”, poi disabili, poi diversamente abili.

Torniamo allo spot Coopi contro la malnutrizione.

Il senso con il quale viene usata la parola handicap è proprio quello del luogo comune, scorretto, fuorviante, che associa il disagio al deficit, e il deficit a tare genetiche/ambientali, secondo concezioni pseudo darwiniste-lombrosiane, classiste e razziste.

Da decenni si cerca di superare questa idea dell’handicap come marchio di un individuo “tarato”, inferiore, proveniente da un mondo inferiore, ed ecco che proprio un emittente del mondo “altruista”, in modo superficiale, o forse furbo, si permette di usare la parola handicap alla vecchia maniera, a indicare il diverso come inferiore.

Possiamo ben dire, in questo caso, che gli handicappati sono loro, i comunicatori della onlus che chiedono soldi al pubblico, col cappello in mano.

 

dillo in italiano, bergamo

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erroriItaliano

A proposito della petizione “Dillo in Italiano!” lanciata da Anna Maria Testa, contro l’abuso di terminologia anglo nella comunicazione pubblica, istituzionale, ieri sera ho guardato per 2 minuti il tg-orobie su berghem tv:

1 minuto di immagini di Gori e architetti in piazza Dante, dove ci sarà un inf-point sul Palma e lo show-cooking del territorio, poi 1 minuto di intervista a Piazzoni, ma il fuoco dell’immagine è sulla nitida scritta alle sue spalle, come fosse l’azienda per cui sta parlando: roof-garden.

Poi si parla della Bergamo Experience e mi viene in mente l’orridicolo marchio University of Bergamo.

Ah, il problema della lingua!

Vorrebbero valorizzare città, territorio, architettura, arte, cultura: ma il primo valore di un territorio è la lingua! Noi abbiamo una lingua autentica, nobile, e la buttiamo via come carta straccia per usare la lingua internazionale, cioè la lingua dei luoghi privi di identità e di storia, la lingua dei non luoghi.

Se il mezzo è il messaggio, tanto più la lingua è il messaggio.

Allora, come la mettiamo con il Campanone? The Big Bell?

E il Viale delle Mura? Wall Street?

 

Isis in Libia e Qatar a Milano

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MilanoQatarTi spaventa di più l’Isis in Libia o il Qatar a Milano?

Il Qatar si è appena comprato il nuovo cuore di Milano, da oggi la più grande e ricca area urbana di proprietà araba in Europa, i 15 edifici più grandi, più moderni, 2 miliardi di euro,

se avessi un figlio, o dei bambini, gli chiederei: temi di più l’Isis in Libia, o il Qatar a Milano, l’occupazione di Milano da parte del Qatar?

Che sia questa la “risposta” all’occupazione della Libia da parte dell’Isis? Perchè la nostra principale forma di propaganda, il tg, che ci terrorizza con l’Isis in Libia, ci presenta il Qatar a Milano come una buona notizia, luminosa?

Non ti sei mai chiesto perchè il proletariato islamico e il proletariato occidentale dovrebbero scannarsi mentre i rispettivi padroni vanno d’amore e d’accordo e si condividono a suon di petrodollari città, mondiali, luxury brand, squadre di calcio e gran premi?

Che il Qatar e l’Isis siano due facce della stessa medaglia, versioni islamiche di una guerra sociale che ci fa comodo ammantare di etichette religiose, culturali?

Che l’europa mediterranea stia diventando il teatro della iper-guerra nord-sud?

Cosa deve pensare, scrivere, dire un intellettuale erede dell’intelligenza storica del canone occidentale, in questa situazione? Prender parte all’ipocrisia storica e fare il gioco del padronato multinazionale, o rivendicare la tradizione illuminista, marxista, strutturalista, e interpretare la realtà utilizzando il buon vecchio  materialismo storico?

Se avessi dei bambini, gli direi:  oltre all’abbigliamento vintage, prova a indossare anche l’abito mentale vintage, corri il rischio di capire cosa sta succedendo.

Expo 2015 a Bergamo è già finita

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MULTIMAGINE-EXPO-2015

Expo 2015 a Bergamo è già finita. Vai sul sito dedicato, expo.bergamo, e la prima cosa che leggi in > Expo2015 > sistema Bergamo >  “Sistema Bergamo parteciperà al Padiglione Italia con uno spazio espositivo dedicato per una settimana a cavallo tra settembre e ottobre 2014”.

2014? Se lo correggi subito, un lapsus è solo un lapsus; ma se dopo un anno non l’hai ancora corretto non è più un lapsus: è un requiem, significa che quel sito non lo guarda nessuno, nemmeno chi lo gestisce.

E forse il sistema Bergamo, la Bergamo experience effettivamente è già morta, è già finita prima ancora che Expo apra i battenti. Lo percepisci dai discorsi, dagli atteggiamenti nel mondo dell’expo-business. Fino ad ora abbiamo visto un grandissimo “das de fà”, darsi da fare, e qualsiasi cosa diventava un “lo facciamo in occasione dell’expo!”. Adesso vedo già gente che dice: “Ehh! Adesso c’è l’expo, lasciamo passare l’expo, lo faremo dopo l’expo!”.

Questo “Sistema Bergamo” giusto un anno fa in previsione expo ha prodotto anche un suo logo specifico “Idee per expo” con tanto di manuale per l’utilizzo e invito a tutti gli operatori ad utilizzarlo.

Io me li immagino. Riunioni su riunioni. Ci servono idee? Facciamo un marchio per promuovere le idee! Passato un anno, vedi i risultati. In rete trovi forse un paio di agenzie pubblicitarie che l’hanno adottato.

Ma un’agenzia pubblicitaria, o chiunque, con un logo che certifica “qui si producono idee”, con un marchio “emozioni-entusiasmo-energia”  perde di credibilità, e di fatto asserisce il contrario: mancanza di idee, di emozioni e di energia, e infatti per quanto tu smanetti in rete  cercando “idee per expo bergamo” non trovi uno straccio d’idea.

Non che sia facile tirare fuori idee ai bergamaschi. Tanto più che appena uno ha un’idea viene preso per pazzo. Oggi Arlecchino è diventato a sua volta un logo, un marchio turistico, e così il senso vero, tragico di questa maschera, è del tutto travisato: non siamo una città colorata e vivace, ma una città grigia e morta, nella quale l’individuo “creativo” viene bollato come buffone, pazzo e pezzente, e trasformato in burattino.

Basta guardare le 10 immagini di copertina di questo sito expo/bergamo per deprimersi, e vedere che l’idea che la città proietta di sé stessa  è ferma da decenni, mummificata.

Immagini dapprima pesantemente belle e banali (le mura venete, città alta by night, i monti innevati, i dolci colli) quindi leggermente brutte e venali, con il poker pancetta-aero-papa-talanta, e cioè natura morta di salumeria + grande aereo/salsiccia inquinante al decollo (con sfondo città alta e montagne, che ha tutta l’aria del brutto fotomontaggio) + grande faccione al lardo del papa buono (ma ormai a chi interessa, diciamocelo, oltre a qualche nonna indigena e qualche suora filippina?) + logo iper-commerciale della società Atalanta, che fa molto tristezza-business.

Se poi abbassi lo sguardo, e leggi i testi, e guardi le altre immagini, l’impressione di falsità è totale, quasi di volgarità: Bergamo sembra una città di cartapesta, in mano a venditori group-on “imprestati” al turismo, che non sanno distinguere romano e romanico, e trovano tutto romantico.

Io sono convinto che tutti questi autogol di comunicazione rivelino un inconscio molto lontano dalle intenzioni di facciata, a proposito di Bergamo città d’arte e turismo.

In realtà sappiamo benissimo che Bergamo non è una città per turisti. Non bastano i monumenti giusti, se non c’è lo spirito giusto.  Non bastano i marchi, i concorsi, non basta uno slogan. Uno slogan ha forza solo se ha verità.

Non è una città per turisti. Potrebbe persino funzionare.

non parlatemi di calcio

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delotavlliani

Non c’è bisogno di fare nomi, i nomi li sappiamo tutti,

parlo di soggetti violenti e socialmente pericolosi, che sarebbero da rinchiudere subito, e non intendo gli ultras, ma i dirigenti stessi del calcio italiano, i massimi dirigenti, arroganti e ignoranti, ottusi e irresponsabili,

massimi dirigenti delle squadre più potenti che aizzano (e distraggono) le folle con dichiarazioni a caldo e comunicati stampa a freddo che sembrano dichiarazioni di guerra etnica;

massimi dirigenti della federazione calcio che, abituati a usare un linguaggio volgare e razzista, fanno gaffe internazionali imperdonabili, e intanto in patria profittano della loro carica per affari privati con denaro pubblico e spartizioni familiari di poltrone e incarichi: e alla luce del sole! Embè? Che male c’è?

Intorno a loro politici al soldo, giornalisti lustrascarpe e calciatori corrotti, condannati per aver venduto le partite, ma prontamente perdonati e reintegrati (mentre quei pochi coraggiosi che hanno denunciato le combines sono stati emarginati ed esiliati).

Tutti personaggi legati mani e piedi, più che al gioco del calcio, al gioco d’azzardo, o alla finanza grigia, o alle peggiori lobby immaginabili;

chi segue il calcio lo sa, lo vede, ma per diversi motivi non ne parla;

chi non lo segue, non immagina minimamente cosa sia diventato il calcio, il virus che propaga,

e resterebbe allibito anche solo nel sentir parlare questi presidenti-boss (o teste di legno) questi dirigenti-papponi (o teste di legno) spesso impresentabili, spesso indagati, o pregiudicati, ma tutti a piede libero, e tutti in tv in prima serata, ben vestiti e strafottenti: noi siamo i padroni, noi vi facciamo fessi come e quando vogliamo,

è questo che dicono i padroni del calcio ogni giorno, su ogni canale, a un pubblico enorme, ammutolito.

Il calcio italiano è l’immagine del nuovo medioevo, una società padronale, clientelare, feudale, servile, nella quale le regole (e la comunicazione!) sono armi diaboliche, strumenti di sopraffazione del forte sul debole.

Ormai non hanno più nemmeno la decenza di salvare le apparenze, gli scandali sono alla luce del sole, quotidiani;

e se il contrasto tra quello che dicono e quello che fanno è “come niente fosse”  sotto gli occhi di tutti, questo significa che la massa, e prima della massa i mass-media, devono fingere, e fingono, di non vedere, di non sapere che lo sport più amato dagli italiani è diventato una orribile farsa, vetrina di un regime regressivo, reazionario, incivile e ipocrita:

naturalmente l’altro lato della medaglia è un fiorire di propaganda umanitaria, iniziative benefiche, ridicole norme anti-violenza, anti-razzismo, codici etici, spot retorici;

e questa facciata di “bontà” serve a coprire la puzza, il fetore che emanano, la maxi-truffa sociale, economica:

parliamo di società calcistiche di serie A che hanno centinaia di milioni di debiti, che le banche ri-finanziano periodicamente senza problemi;

e centinaia di milioni di evasione fiscale, condonata grazie ad appositi decreti legge (“salva-calcio”) fatti su misura (mentre aziende, artigiani, lavoratori e interi distretti produttivi sono messi in ginocchio dai rigori punitivi di fisco, burocrazia e finanza);

parliamo di squadre che non sono più squadre, ma “piattaforme d’intermediazione finanziaria”, di proprietà oscura, dirette da personaggi oscuri, che hanno sotto contratto non i 20 o 30 calciatori che indossano quella maglia, ma addirittura 200 o 300 atleti, che poi giocano “in prestito” in altre squadre (servire due padroni…)

il risultato di tutto questo sono partite e campionati palesemente falsati, dall’inizio alla fine, da anni, tanto che il vero protagonista e centro d’interesse mediatico non è più il torneo, l’impresa sportiva, ma il calcio-mercato, un vero e proprio spettacolo finanziario.

Il calcio-mercato una volta era limitato alla stagione estiva, tra la fine di un campionato e l’inizio del successivo, mentre oggi è permanente,

per cui se una piccola squadra ottiene grandi risultati e valorizza nuovi giocatori, quella squadra viene immediatamente smantellata, a campionato in corso, e quei giocatori passano alle grandi squadre,

tutto può succedere nel calcio di oggi, tranne una vera impresa sportiva;

in questo modo la passione, il bisogno di catarsi dell’uomo qualunque, è mortificata, svilita; il piacere di vedere giocare ai massimi livelli il gioco più bello del mondo resta un desiderio totalmente insoddisfatto;

le partite noiosamente scontate, gli stadi vuoti, i calciatori depressi, gli allenatori isterici, i presidenti megalomani, i giornalisti asserviti: questo calcio non serve più nemmeno come oppio dei popoli, come strumento di consenso, è solo l’immagine dello sfacelo, della follia conclamata di un regime sclerotizzato, lanciato verso l’autodistruzione.

il modello di business televisione e scommesse sportive, che in Inghilterra funziona, in Italia ha prodotto debiti e corruzione, e il giocattolo si è rotto.

Di fatto da decenni non c’è più competizione sportiva, in seria A, ma solo vassallaggio, e disputa feroce, senza esclusione di colpi, tra quei due o tre club rappresentativi dei poteri forti,

è una disputa a base di scorrettezze e corruzione, una guerra per il controllo e l’asservimento non solo di atleti e arbitri, ma anche dei mass media (in queste settimane lo scontro di potere tra i diversi feudi è sul controllo delle produzioni televisive delle partite).

Col pretesto molto ben strumentalizzato della “violenza” degli ultras, hanno svuotato gli stadi di spettatori, e li hanno riempiti di telecamere.

Guardando una partita in tv sei frastornato da replay, minispot, zoom e stop motion, e non vedi, non cogli la cosa importante. Vai a vedere una partita allo stadio, e capisci subito che è irreale.

La crisi del calcio non è solo la crisi del calcio, ma la rappresentazione nuda e cruda, il volto peggiore, paradossale e stomachevole, della crisi del sistema Italia: una crisi totale, economica, etica, politica, mediatica.

L’unico vero decreto “salva-calcio sarebbe sospendere il campionato, sciogliere le federazioni, commissariare le società sovra-indebitate (cioè quasi tutte, escluse alcune provinciali “virtuose”) come si fa con qualsiasi altra azienda, e mettere sotto indagine il management.

Il calcio non è più uno sport, ma una gigantesca truffa, un’azienda totalmente corrotta, che crea solo debiti pubblici. Sarebbe da chiudere subito. Per decreto.

 

l’identità divisa del bergamaschione

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Filago Bergamo settembre 2012

 

(riceviamo e pubblichiamo da Sean Blazer, il noto critico di moda)

Di passaggio a Bergamo, dove ho numerosi amici e non, ho incontrato la mia giovane amica fashion blogger Consu che sui due piedi mi ha chiesto: chi è il maschio berghem-vip che fa tendenza fashion?

Sui due piedi, le ho detto, me ne vengono in mente due, che esprimono le due diverse tendenze del maschio vip glocal: il sindaco Gori e il magnate Pesenti, diciamo Giorgio e Carlo per semplicità;

Giorgio è il maschio relax, camicia fluida, look complessivo sottotono, quasi sciallo, mai sciatto, sempre fresco, mattutino, anche alle cinque de la tarde, e dunque accogliente, invitante, ammorbidente, avvolgente, con gesti quasi affettuosi: ma attenzione agli occhi “ice smiling cobra”, come lo chiamano in America.

Sotto la pashmina, rischi di trovare un coltello affilato!

Carlo all’opposto è il maschio alfa dichiarato, regimental, savile row, l’abito una corazza, una divisa, la sartoria un’arte militare, rigido, statuario, il look serve a tenere a distanza, non ad avvicinare.

Ogni cosa dal colletto al calzino è perfetta e intoccabile, esprime potere e freddezza: e naturalmente ognuno, e ognuna, ha libertà d’immaginare sotto la fredda corazza un cuore caldo che batte, e fors’anche un uomo tenero mimetizzato nel rigido contegno.

Giorgio e Carlo certo mi perdoneranno, quello di cui parlo è soltanto ciò che la loro immagine riflette, l’archetipo, il tipo che rappresentano, effettivamente si tratta di abiti da lavoro, funzionali al ruolo, Giorgio deve attrarre, Carlo deve respingere, hanno effetti studiatamente diversi, con le loro “mimetiche”, e diversamente coatti.

Ma il vero nuovo maschio, superamento sia del maschio debole che del maschio antico, dovrebbe essere in grado di indossare insieme, con naturalezza, il rigido e il morbido, il casual e il classic.

La sua immagine/identità un tenuta composita e assemblata, ma omogenea e singolare, non “divisa”: il nuovo maschio è l’uomo qualunque, che qualunque cosa indossi è sé stesso.

Berghem-Vip così evoluti al momento, sui due piedi, non mi vengono in mente, abbi pazienza Consu.

Fiat 500 viagra

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Fiat-500X-presentazione

Dibattito 5 donne 1 uomo (che non ha la macchina) ieri in ufficio sullo spot del giovanotto alla pompa con la sua Fiat 500 che s’ingrossa col viagra volato casualmente nel serbatoio dalla finestra di due veci porcelli (lei molto laida).

Una comincia chiedendo: avete visto lo spot Fiat500?

Un’altra risponde: si, è carina.

Una terza: ma keazz dici: è un cag pazzesca!

Una quarta: tu non sei carina!

Stagista: è firmato da Fiat ma in realtà è lo spot del viagra. 

Account: no, è proprio lo spot della 500viagra, una macchina per vecchi.

Uomo: no, il target è il ragazzo che fa benzina, il volo del viagra ha lo scopo di sdoganare il viagra preso i giovani vecchi, è una macchina per giovani vecchi, sfigati, porno-dipendenti.

Quella che ha cominciato il dibattito: quindi? La compri?

viva la pubblicità ignorante

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BGbirraIGN

Come sempre, nessuno inventa niente, e tutti contribuiscono a tutto.

Parliamo dell’origine della PIG, la pubblicità ignorante, il nuovo format di advertising/subvertising di CTRL magazine, riconoscibile da un bollino ovale tipo Pubblicità Progresso con la dicitura PIG.

Come si legge nella pubblicità della Pubblicità Ignorante,

PIG è la pubblicità km0, genuina, come una volta,

1 immagine da “cinema” e 3 promesse “strillo”

obiettivo comunicazionale: strappare un sorriso

obiettivo culturale: diffusione delle coltivazioni di pubblicità autoctona km0 e riduzione dell’inquinamento semiotico causato dalla pubblicità mainstream industriale tossica per la psiche.

Da qualche parte si trova anche una  normativa PIGright :

CTRLmag, ADVzero, StudioTEMP sono i  coideatori

corealizzatori condivisori e comproprietari del comarchio PIG

chiunque coltiva condivide e applica i principi PIG

è libero di utilizzare il comarchio PIG in modalità PIGright

cioè gratuitamente, ma con la disclamatura speciosa PIG1  PIG2  PIG3

per la tracciabilità del prodotto e la riconoscibilità dei coltivatori diretti.

CTRL è un magazine free press glocale che sta in piedi senza finanziamenti e con la pubblicità locale produce contenuti internazionali e format inediti. ADVzero è l’agenzia sperimentale di sovversione pubblicitaria del centro ricerche Calepio Press. StudioTemp è lo studio che crea la grafica di CTRL (e altre pubblicazioni sperimentali curate da ADVzero, come l’Osservatore Elaviano del birrificio Elav, un cartaceo di contro-subcultura illeggibile on line).

La pubblicità ignorante nasce esattamente alcuni mesi fa, quando i tre soggetti succitati, disgustati dall’idea di pubblicare in quarta di copertina la pagina pubblicitaria istituzionale dell’Università di Bergamo – una cosa vergognosa, brutta copia di banali adv americane nate vecchie –  in preda a questo profondo disgusto (è la qualità, la creatività delle inserzioni a fare la qualità, la creatività di un magazine!) si ribellavano e con incredibile ardire comunicavano all’inserzionista che non potevano pubblicare quell’annuncio, troppo brutto, e al contempo proponevano una adv fatta al momento, sullo spunto del bello dei Temp, che disse “facciamo qualcosa di ignorante!”, e cioè il logo in grande e una frase/claim: di fatto una copy compaign.

Con quella scelta, raggiungevamo una nuova consapevolezza, dovevamo occuparci di qualità, autenticità, appeal della pubblicità locale, spesso un adattamento di format nazionali, o vere e proprie brutture fatte dal tipografo o dal cliente stesso.

Dopo l’Università di Bergamo, le prime prove di PIG sono con BGbirra, per opera di StudioTemp, che trasforma un bastione delle mura in un boccale di birra, con citazione/claim by ADVzero, prendendo in giro le citazione colte con una citazione “ignorante”, e improbabile: Non c’è birra senza spina – Rosa Luxembourg.

Sempre per BGbirra, nasce quello che poi diventa il format basic, con imago da film e 3 frasi-3 strilli, secondo la scuola degli ambulanti-strilloni. Dopo BGbirra, ecco Skandia, e dal n.55 più della metà delle adv è in format PIG, con tanto di bollo.

Un successo, e anche piuttosto strano, considerato che la prima regola dell’adv è distinguersi, mentre la PIG è un format, una gabbia standard, e dunque in un certo senso tecnico/semiotico “non è pubblicità”, o se è pubblicità, è pubblicità dentro uno schema, cioè roba da DDR, da Minculpop, da pubblicità irregimentata.

Eppure funziona, colpisce, anche rinunciando all’unicità, all’impatto visual, all’unicum grafico, o forse proprio in virtù di questa sottrazione, quest’uniformità, riporta l’attenzione sul messaggio, sull’emittente.

E a quel punto convince per il tono leggero, spiritoso, autoironico, e genuinamente “ignorante”.

La parola “ignoranza”, “ignorante” – parola tabù alle opposte estremità del target socioculturale per opposti motivi –  non mi è nuova. Da bambino mia zia iniziava ogni discorso con “io sono ignorante, ma…” (che retoricamente somiglia al “io non sono razzista, ma…”). Recentemente, ai tempi della capitale della cultura, sempre in combutta con CTRL, si era creato il dominio, anzi l’hastag, #pensacheignoranza, a identificare un’agenzia di sondaggi d’opinione a priori, cioè come quelle di regime…

Ma l’idea, la convinzione  che la pubblicità si basi sull’ignoranza, è nel dna della pubblicità. Diceva il mio primo art director (1986): se tutto il target fosse veramente A+, cultura e consapevolezza, la pubblicità non avrebbe alcuna possibilità di esistere. Dovrebbe sparire. Poco per volta, con l’evoluzione del pubblico. Abbassare le luci, la voce.

Una delle prime agenzie in cui ho messo piede ebbe un momento di gloria con lo spot: “Silenzio, parla Agnesi”.

Più avanti, ebbi il trauma di lavorare per un imprenditore vecchio stampo, che si vantava di non aver mai speso 1 lira in pubblicità (e lavorava e prosperava nel settore moda…): ma se io l’avessi eccitato con un’idea, avrebbe cambiato idea e fatto la sua prima campagna. Cosa che naturalmente avvenne, e la campagna “Eroi del nostro tempo” (con testimonial banali, uomini comuni, vestiti da perfect gentleman Boggi, con la body-eroica tipo: impiegato, due figli all’università) vinse qualche premio e convinse l’uomo a dotare l’impresa di un pay-off (Boggi ha solo clienti fedeli a sé stessi).

Mi diceva il vecchio Boggi:  la vera pubblicità è quella che fanno gli strasciuni (straccivendoli) ti sbattono in faccia il tessuto e ti urlano tre frasi, in modalità sillogismo (tesi, antitesi, sintesi)  che a bene vedere è tuttora il perno razionale di ogni televendita.

Poi con gli anni  80 e il made in Italy e le scuole di design e la notte dei pubblivori prende piede l’idea che la pubblicità sia un linguaggio sofisticato, elitario, intelligentissimo. Per gente che non ha mai decifrato una terzina della Divina Commedia, o un passo del Vangelo, o un’affermazione di Wittgenstein, o un paragrafo del Finnegan’s Wake, uno spot con due o tre rimandi in circolo è già un’opera dell’ingegno.

E così arriviamo ai disastri, alle pubblicità difficili, auto-referenziali, e autolesioniste. Vorrebbero essere adv per gente up. Ma sono senz’anima, e deprimono nonostante la sfavillare di luci e luxury.

L’anima della pubblicità, se c’è, è ignorante, possibilmente di una sana ignoranza, sincera, infantile: è lo stupore di un bambino che grida alla sua automobilina: ha il motore!

PS: c’è da dire che il merito conclusivo della PIG è del giovane Postini, l’editore/account di CTRLmag: è lui quello che è andato a faccia tosta dai clienti a vendere pubblicità ignorante (e a un prezzo superiore!). Il  mondo adv è pieno di creativi cattivi e innovativi da sempre castrati e cassati da account “con i piedi per terra”. E non succede niente. Ma se accade che il commerciale è più “fuori” del creativo, allora…

(imago: PIG, pubblicità ignorante per BGbirra su CTRL magazine)

via le slot

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viaslot

Via le slot dai locali mettiamole in chiesa negli ospizi negli ospedali a finanziare le opere pie direttamente in circolo dal vizioso al virtuoso.

Via le slot dai locali pubblici, dai bar, dai ristoranti, dalle edicole, dal momento che le società concessionarie sono per la maggior parte multinazionali con sede in Lussemburgo e lo stato incassa solo una minima parte del lucro è interesse della collettività far rifluire il fiume di denaro slot (il gioco d’azzardo nel suo complesso è ormai prima azienda italiana per fatturato) in settori di pubblica utilità

e dunque oltre ogni ipocrisia mettiamo le slot in chiesa, santa slot (sicché le chiese tornerebbero a riempirsi, e con animo più lieto il giocatore perderebbe denari a favore delle attività parrocchiali, mensa dei poveri, etc) e negli ospizi, dove i giocatori e gli anziani si potrebbero dare reciproco conforto e sollazzo, o negli ospedali, e in generale in tutti quei luoghi e strutture onlus, no profit, dediti al sociale, alla tutela ambientale, etc.

così se vuoi giocare se vuoi bruciarti cervello nervi e stipendio ci vai a testa alta con l’animo in pace tu metti il tuo vizio al servizio di chi ha bisogno tu vai a fare del bene e quando ti capita di vincere, in chiesa, quel risuonar di monete prenderà il senso del miracolo: e vincerai con le tre Madonne, e sbancherai con la Trinità Divina (Pater, Filius, Spiritus S.)

Via le slot dai locali di consumo, dagli spazi laici, si alle slot negli spazi religiosi, solidali, il gioco è una forma di preghiera, richiede luoghi sacri, e finalità adeguate, dunque basta regalare il sangue alle elites finanziarie, si alla redenzione km0, si al gioco solidale, si alle slot a sostegno del terzo settore, carità pubblica, mense popolari, dormitori pubblici,  volontariato, tutela patrimonio artistico e beni ambientali: e chi più ne ha, ne metta!

A quel punto la cura della ludopatia è immediata, i costi sociali si tramutano in risorse, l’apatico che riversa il suo capitale emotivo in una slot, un benefattore, un filantropo, uno che disperde e dilapida pro bono, ecco il vero altruismo, il gioco del dare, l’economia del dono.

Ecco cosa significa il miracolo dei pani e dei pesci, ecco il miracolo fatto quel giorno da ns. Signore Gesù Cristo: una lotteria di beneficenza, la pesca di beneficenza, ecco l’appiglio, il precedente, ecco la vera via cattolica per affrontare il peccato della slot: non allontanarla dalla comunità, ma riportarla dentro la chiesa.

(editoriale de L’Osservatore Elaviano n.3, foglio di contro-sub cultura luppolacea del Birrificio Indipendente Elav. Una nota avverte: questo editoriale è stato selezionato da 7 elaborati prodotti sul tema da 7 autori di diversa estrazione culturale dopo aver bevuto diverse 7 birre)