47 tentativi fallimentari d’impresa culturale – 2

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imperodelsole 001

2 paraletteratura puberale – la scoperta del fantastico

Dopo il maggio 68, d’inverno, col riflusso, passavo tutti i pomeriggi studiando l’Atlante, e già in terza elementare la maestra segnalava con preoccupazione il fatto che io sapessi a memoria tutti gli stati del mondo, superficie, capitale, n. di abitanti.

In quarta mi regalarono un Atlante storico. Dopo pochi mesi sapevo a memoria tutti i papi da S.Pietro a Paolo VI e gli imperatori romani da Augusto a Romolo Augustolo, con tanto di date.

D’estate, dopo la scuola, partivo con la saltafoss (la mountain bike degli anni settanta, sella lunga, ammortizzatori, ruote artigliate, cambio a leva sul telaio) dicevo che andavo all’oratorio e invece mi inoltravo in stradine misteriose tra campi, vigneti, boschi, canali e ferrovie.

La Val Calepio è un distretto pedecollinare tra la Val Cavallina, il lago d’Iseo e la Franciacorta, sulla via che da Bergamo porta a Brescia, città che per me, allora come oggi, rappresenta l’oriente (essendo Venezia l’estremo oriente).

Un giorno con grande eccitazione scopro un passaggio molto avventuroso: entrato clandestinamente, nella scia di un camion, nell’area del cotonificio Niggler&Kupfer in località Capriolo, avevo seguito il sentiero lungo il canale fino alla diga pedalando a rotta di collo per sfuggire al guardiano che mi inseguiva.

Mi ero così ritrovato, con l’adrenalina a mille, a imboccare e percorrere in bici la sommità del muro diga, larga meno di mezzo metro, senza possibilità di posare i piedi, con le acque gonfie e rapidissime del canale da un lato, e lo strapiombo di una decina di metri sulle basse acque ferme dell’Oglio con spuntoni rocciosi  affioranti sull’altro lato.

Arrivato sull’altra sponda dell’Oglio, le gambe mi tremavano.

Poco dopo mi ero fermato presso un rudere medioevale che un cartello indicava come l’antico Porto Calepio.

Nascosto dalla vegetazione, notai un passaggio scavato nella roccia. Lo imboccai. Con grande meraviglia sopra di me apparve un castello in piena regola, mura, merli, torrioni, ponte levatoio.

Nascosta la bici, mi intrufolo nel castello, mi ritrovo in un salone con grandi vetrate dove un comitiva di persone è tutta presa dal panorama mentre una guida racconta che “qui, il giovane Ambrogio da Calepio, immerso nei libri, fantasticava sul suo futuro..”.

Quell’estate tornai quasi ogni giorno al castello dei conti Calepio a picco sull’Oglio, inespugnabile, e immaginavo il giovane Ambrogio, e mi immedesimavo,

mi calavo nel fossato del castello con una corda per campane che avevo rubato in sagrestia a mio zio prete, quindi prendevo il ripido viottolo che scendeva al porto, e m’imbarcavo raggiungendo Venezia per via d’acqua…

Ripresa la scuola (quinta elementare) passo i pomeriggi scrivendo in bella calligrafia il mio primo romanzo d’avventura e d’amore, “L’impero del sole”,

un intero quadernetto a righe con tanto di illustrazioni dell’autore, copertina, indice, trama nel risvolto (praticamente l’Eneide in versione Val Calepio), colophon della “casa editrice Belotti”, prezzo di copertina (L.600) e biografia dell’autore che suonava così:

“Leone Belotti nacque in Valle del Fico nel 1966 d.C. ed è tuttora vivente. Questo è il suo primo romanzo e lo scrisse a undici anni”.

Ti parlo di questa prima esperienza di baby-romanziere perché si è rivelata fondamentale per farmi capire fin dall’infanzia le potenzialità dei linguaggi creativi:

ero sempre stato un bambino timido e introverso, segretamente innamorato della mia compagna di banco, Lilli, bella ed estroversa.

Prima potenzialità dei linguaggi creativi: vedere la Lilli che legge il mio romanzo con gli occhi illuminati.

Seconda potenzialità: imitare il protagonista del mio libro, e baciare la Lilli.

Terza potenzialità: mettere al lavoro la Lilli, che “copia” il romanzo in cinque copie e le vende alle sue amiche.

Stimolato dal successo, scrivo subito un secondo romanzo, ispirato al film di Hawks “Eroi dell’aria”, visto in televisione.

Un flop totale. Lilli, la mia musa, disse: “Il primo era più bello”. La mia prima stroncatura.

Crisi.

(imago: copia fotostatica tratta da “l’impero del sole” by Leone Belotti, edizioni Belotti 1977, trascritta a mano in 5 copie su quaderni Pigna a righe)

47 tentativi fallimentari d’impresa culturale – 1

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29m1

1  illuminazione infantile il potere della parola

Concepito per un errore di calcolo (metodo ogino-knaus) quando ancora non c’erano la pillola né l’aborto legale,

nato col forcipe  (una tenaglia con la quale il medico ti estrae dalla matrice afferrandoti per le tempie e tirando con forza, con i danni e l’imprinting che possiamo immaginare,

tanto più nel mio caso: ricordo perfettamente la puzza di vino dell’alito del doc)

e svezzato con il latte in polvere industriale

(che a quei tempi pareva il massimo dell’innovazione e in seguito divenne la strategia base per risolvere il problema della mortalità infantile in Africa, in un verso o nell’altro)

dopo pochi mesi di vita passati senza mai dormire e in stato di dissenteria continuata

(confondendo le cause con i rimedi, mi davano sempre più latte in polvere)

ero ormai considerato spacciato.

Appena nato, dunque, ero già in crisi.

Morto per morto, fui destinato (immagino in cambio di soldi) alla sperimentazione scientifica, cioè al veterinario del paese vicino (radiato dall’ordine dei medici)

il quale provò una cura inedita già testata con successo sul suo gatto: basta latte in polvere, per tre mesi diamogli solo una purea di carote.

La dissenteria cessò, ma iniziai a vomitare giorno e notte.

Ad ogni modo l’esperimento funzionò, o per meglio dire il bambino sopravvisse anche a questo, pur con qualche controindicazione (divenne color carota).

Crisi epidermica.

Da queste prime dure prove, maturai un’istintiva sfiducia, oltre che verso la figura genitoriale, verso la classe medica

(soltanto due decenni dopo, studente di filosofia, quest’avversione viscerale divenne consapevolezza critica con la lettura del capolavoro di Husserl,  “La crisi delle scienze europee”).

Giunto miracolosamente all’età di due anni, mi presentavo piccolo, gracile, poco dinamico, e soprattutto muto,

con l’incarnato cangiante (tra il madreperla e l’arancione) come unica forma d’espressione vitale.

Perché non parla? Visite specialistiche appurarono la normalità dell’apparato vocale. Il problema non può che essere neurologico.

Familiari, vicini e coetanei cominciarono a guardarmi come si guarda il brutto anatroccolo.

Crisi dell’età evolutiva.

I fatti successivi confermarono i timori di problemi a livello della psiche: quando cominciai a parlare (nel 1969, davanti a tutta la famiglia allargata riunita davanti alla tv in occasione dello sbarco sulla luna), la prima parola che dissi, e che continuai a ripetere per un anno, non fu “mamma”, bensì, con grande costernazione dei parenti tutti, “puttana”.

Con ciò rispondevo anche alla domanda che mio padre si ripeteva ogni volta che mi guardava (di chi sarà figlio questo?).

Crisi d’identità, precoce.

All’età di quattro anni pensarono di mandarmi all’asilo.

Chiaramente mi rivolgevo alla suora usando l’unica parola del mio vocabolario.

Inutilmente la buona donna cercava di farmi ripetere “ave maria piena di grazia”.

Io rispondevo “puttana, puttana, puttana”.

Dopo pochi giorni la maggior parte dei bambini dell’asilo non faceva che ripetere: puttana, puttana, puttana.

Chiamarono mia madre, le dissero di riportarmi a casa.

Inconsapevolmente, sperimentavo il potere della pubblicità, e l’isolamento del creativo.

Crisi.

(47 tentativi fallimentari d’impresa culturale – autobiografia di Leone Belotti – copyright/left 2013 Calepio Press – imago tratta da Rebus by Monica Marioni www.monicamarioni.com)

codice di buona pirateria

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JollyRoger

tanto per rinfrescare la memoria sia alle forze dell’ordine

che agli onesti cittadini rispettosi della legge

ma anche ai bravi equo-solidali che rifiutano l’etichetta di pirati,

il qui presente vivo e vegeto Bartholomew Roberts, alias Black Bart, alias Barti Dudu,

456 vascelli predati nel mar dei Caraibi prima di essere scagliato in mare nel corso dell’abbordaggio alla Swallow da una palla di cannone ricevuta in pieno volto,

già co-autore con sir Henry Morgan del codice di buona pirateria,

si permette di rammentarvi gli articoli del suddetto codice:

1) il comandante è eletto da tutta la ciurma riunita

2) Il bottino è diviso in quote uguali

3) chi diserta in battaglia viene punito con l’abbandono in mare aperto

4) nessuno a bordo o in porto può giocare a carte o a dadi per denaro

5) ognuno deve tenere sempre le proprie armi pronte e pulite

6) ognuno deve lavare la propria biancheria

questo codice, cari cittadini, era la nostra legge: ogni membro della ciurma, dal mozzo al comandante, aveva pari potere, col proprio voto, e pari ricompensa, con uguale parte di bottino,

e questo mentre nella civile Europa, nei regni di Francia, Spagna e Inghilterra, ogni bene o terreno era considerato come affidato direttamente da Dio al re, e da questi ai nobili, con la benedizione del clero,

allo scopo di far lavorare come schiavi il 90% dei cristiani,

e poter così mantenere nel lusso, nel vizio, e nell’impunità il 10% di eletti, ovvero la nobiltà e il clero (e i ricchi mercanti);

da sempre i servi che si ribellano ai privilegi di nascita dei nobili sono etichettati come criminali, ladri, pirati,

i primi pirati furono gli etruschi e i fenici, che assaltavano le navi dei ricchi mercanti greci;

la prima guerra del copyright fu l’assedio di Troia, che controllava con la pratica del marchio sia il  mercato dei cavalli che quello dell’oro di tutto il Mediterraneo,

i romani, popolo di mercanti, dichiararono guerra ai pirati con una gigantesca flotta al comando di Pompeo, e il Mediterraneo fu quasi completamente disinfestato fino al Medioevo, quando i pirati ricomparvero da sud e da nord, saraceni e vichinghi.

Il secolo di massimo splendore della pirateria fu il 600, in contemporanea alla rivoluzione scientifica e alla caccia alle streghe,

nel 700 l’Europa dei lumi e dei furbi mercanti dopo aver usato l’antico regime dei re e dei papi per schiacciare la ribellione femminile e debellare la pirateria, ha infine detronizzato i re e il clero:

in nome del popolo sovrano, e non di Dio, la borghesia, e non i pirati, ha sancito il diritto al tirannicidio, ha ucciso prima il re di Inghilterra e poi quello di Francia,

e ha creato questa nuova tirannide, di nome democrazia rappresentativa, che oggi, 200 anni dopo, è di fatto tornata a essere un ancient regime, un’aristocrazia-plutocrazia camuffata di legalità,

dove la funzione del tiranno è svolta da un’intera classe sociale, l’elite di potere,

costituita dalla classe politica e dalle lobby dei grandi azionisti e dei grandi manager pubblici e privati che si comportano esattamente come i baroni dell’antico regime:

arricchiscono, dilapidano e affamano il popolo, avendo dalla propria parte la legge.

Oggi la pirateria per mare si è trasferita nei mari caldi dell’Oceano Indiano,

ma sono etichettati come pirati anche i produttori di merci pirata e i contrabbandieri virtuali di merci elettroniche sull’Oceano Web,

e la guerra alla pirateria informatica sembra la nuova missione dell’impero turbo-capitalista occidentale, esattamente come nel 700:

mentre a rigor di logica borghese, e in nome del popolo sovrano, oggi sarebbe necessario il tirannicidio massivo dell’intera elite di potere,

(in Italia: circa 100.000 persone, che governano per conto dell’elite sociale, circa 5 milioni di persone)

cui è senz’altro da preferire per ragioni umanitarie ma anche pratiche il genocidio mirato del livello più alto, la testa del serpente (circa 1000 persone);

cosa del resto già praticata 200 anni fa in Francia e 100 anni fa in Russia.

Nello scenario odierno, si vuole sperare che l’elite di oggi sia più illuminata di quella soppressa a Parigi nel 1789 o a San Pietroburgo nel 1917, e si renda conto di dover concedere ai 3/4 della razza umana quantomeno la possibilità di sopravvivere utilizzando “il bene comune”, che nell’antichità erano le terre comuni, e oggi sono i free software;

ma le notizie non sono buone: oggi in  Russia è entrata in vigore la nuova legge antipirateria informatica, mentre in Italia è stato chiuso un sito che permetteva di scaricare gratis.

Ciurma, prepariamo il Jolly Roger!

(imago: Jolly Roger del pirata Henry Every. Il Jolly Roger era la bandiera dei pirati, ognuno aveva la sua, solitamente composta da un teschio, e tibie, o sciabole, o clessidra, cuore, fiore. Le navi pirata si avvicinavano battendo bandiera amica, quindi issavano il JR nero a significare salva la vita in caso di resa, e infine, se la preda tentava la fuga, issavano il JR rosso, a indicare l’abbordaggio alla morte.

Nella ciurma erano ammesse donne, ma soltanto con abilità e abiti maschili.

Molte donne condannate a morte per stregoneria trovarono una possibilità di vita nella pirateria.) 

troika erotica sovietica

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zukzukzuk

il compagno commissario Zuko aveva un problema, anzi due,

il problema del compagno commissario Zuko era una donna, anzi due,

le compagne gemelle Zuka e Zuki, che frequentava separatamente:

nei giorni pari subiva la compagna dominatrice sadica Zuka,

rossa di capelli, in abito di latex verde, labbra blu oltremare su fondotinta lillà;

nei giorni dispari sottometteva la compagna masochista schiava Zuki,

frangia d’argento su viso ceruleo,  bocca verde pistacchio e tubino fuxia.

Per non darti imbarazzo, gli avevano detto entrambe, non ci vedrai mai insieme,

ma il compagno Zuko, psico-ingegnere alla direzione strategica del kgb,

sospettava si trattasse di un’unica compagna con personalità sdoppiata,

e sagacemente organizzò un piano per smascherare l’inganno.

Dovendo partire per una missione di tre mesi a Cuba, avendo l’aereo all’una del mattino e l’agenda fittissima, e volendo dare un ultimo bacio alle sue amanti, diede appuntamento

a Zuka alle 23.55 alla Porta Est di Glasnost Kastle e a Zuki alle 00.05 alla Porta Ovest.

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Astutamente fece disporre gli specchi mobili di Glasnost Kastle come fossero telecamere in modo che potesse osservare le immagini riflesse di entrambi gli ingressi.

Ma disgraziatamente le compagne Zuka e Zuki invece di presentarsi all’appuntamento mandarono una staffetta con un messaggio congiunto:

al compagno commissario Zuko:

la tua statura morale non è degna della tua statura politica.

La staffetta chiese se c’era risposta. No, non c’era. Mestamente il compagno commissario Zuko salì sul grande Antonov militare.

Poco dopo il decollo, dalla cabina radio l’assistente marconista gli portò un messaggio proveniente da una Casa del Popolo di Mosca:

le compagne del popolo Zuka e Zuki augurano buon viaggio al compagno commissario Zuko e si augurano che il compagno Fidel Castro possa rimettergli la Zuko a posto!

Il marconista gli chiese se volesse mandare risposta. Il commissario scosse il capo.

Dentro di sé il compagno commissario Zuko pensava:

dovranno faticare lacrime e sangue per riconquistare i miei favori.

Dopo un lungo e movimentato volo senza riuscire a dormire, e un trasferimento in jeep sotto un caldo torrido, appena sistematosi nell’appartamento destinatogli, il caporale di guardia gli consegnò un telegramma proveniente dalla Segreteria del Soviet Supremo:

Buona permanenza a Cuba! Le compagne Zuka e Zuki annunciano con gioia al compagno commissario Zuko di essere state onorate dell’incarico di alleviare insieme

le notti insonni del compagno padre della patria e del popolo Josif Vissarionovic Stalin lungo tutto il rigido inverno russo!

(la “fabula erotica sovietica” è stata trovata  dall’impresa di sgombero nell’archivio del dismesso consolato sovietico di Milano, databile primi anni Cinquanta, e tradotta dal russo dal compagno Bartolomeo Terracini.  I disegni di Zuko, Zuka e Zuki e del Glasnost Kastle sono di Karim Rashid per Purho: https://www.facebook.com/purhodesign)

mia figlia in abiti succinti per 30 denari

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inabitsuccinti

(storia di Pietro M. raccolta da Nicola Fennino)

La cosa importante è che mia figlia sia felice. Che faccia il lavoro che le piace.

Forse se mia moglie fosse ancora viva le cose sarebbero andate per un altro verso.

Non ho mai sentito nessuno parlare d’amore come mia figlia. Dice che l’amore è una forza che ti strappa la pelle di dosso, che t’incendia gli occhi.

Una forza sovversiva: per questo i preti non si sposano. Una società fondata sull’amore non può esistere, sarebbe anarchia.

“Capisci, babbo, per questo la puttana è il mestiere più antico del mondo! Serve per coprire la mancanza d’amore, capisci? È il contratto sociale”.

Ecco, mia figlia è convinta che il suo lavoro sia una sorta di sacrificio.

Lei si spoglia, la si vede perfettamente in faccia – con quegli occhi verdi di sua madre – e degli sconosciuti la baciano, la schiaffeggiano come padri preoccupati con una bambina cattiva (lei dice che fanno piano, che è tutto doppiaggio), penetrano la sua carne senza pietà, senza passione.

La sua pelle bianca si chiazza di rosso: non è finta la sua pelle, la sua pelle non ragiona come il suo cervello, soltanto si fa rossa.

Al mare, da piccola, io e mia moglie la cospargevamo di crema, ogni ora bisognava rimetterne un nuovo strato, perché i bambini giocano, entrano in acqua, si rotolano sulla sabbia, mica si può pretendere che la crema gli resti incollata addosso.

Quando le spalmavo la crema sul faccino chiudeva gli occhi, storceva un poco le labbra; le baciavo i capelli, poi lei scappava verso il bagnasciuga: c’erano i suoi amichetti che l’aspettavano.

Ieri sera è tornata più tardi del solito; deve aver bevuto un paio di bicchierini, non sa nasconderlo. Ha iniziato con la solita solfa dei greci e dei romani e che anche loro avevano i loro spazi di follia, i loro riti sessuali assurdi eppure avevano creato delle società così ordinate… l’ho interrotta perché ero stanco e non riuscivo a seguirla.

Lei mi ha guardato.

“Pensavo a Giuda, babbo. Sì, quello degli apostoli. Pensa se non ci fosse stato Giuda. Come facevano a mettere in croce Gesù Cristo? E la resurrezione? E tutto il cristianesimo?

Pensa babbo, sono tutti intorno al tavolo: Gesù non è ancora risorto, è solo una persona molto convincente, è solo un paio di occhi che splendono più della media, a volte non si capisce neanche quello che dice;

Ma è toccato a Giuda, capisci? Doveva toccare a qualcuno per il bene di tutti”.


È rimasta qualche secondo in silenzio. Ci siamo guardati. I suoi occhi erano rossi, gonfi.

Ho abbracciato la mia bambina, non ho avuto parole, e ho bestemmiato Dio, perché mia moglie è morta, e non era lì, con me e con la nostra bambina.

(titolo orginale “Pietro”, riduzione 33% – da 1200 parole a 400 – by Leone Belotti editor 

versione originale by Nicola Fennino writer, pubblicata in

http://scrittoriprecari.wordpress.com/2012/04/26/confessioni-qualunque-1/#comment-2961

imago: “in abiti succinti”, immagine di copertina dell’omonimo blog  https://www.facebook.com/pages/In-abiti-succinti/191256350930780)

fumus in oculis et focus in anima

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simulacra sive imagines sive medicinae

sive proiectiones extra corporea

simul aditus avernii et iter caeleste versus sunt

le sostanze psicotrope, che siano immagini o medicine o proiezioni psichiche possono condurre allo stesso tempo all’ingresso degli inferi e alle vie del cielo

vestitus sive gemmae sive signa

sive statuae sive picturae sive spectacula

misera simulacra sunt acta alios versus

l’abbigliamento, i gioielli, i sigilli, le statue, i dipinti, gli spettacoli sono povere apparenze ostentate in funzione degli altri,

majorana sive sabatius sive psilocybes

sive setanion sive vinum sive oppium

divina simulacra sunt acta te ipsum versus

la maggiorana, il sabazio, le psilocibe, il setanion, il vino, l’oppio sono sostanze divine attive su te stesso,

ergo

causa tumultorum pavor et  civum conscientia livellanda

mancipia municipia leges sumptuarias

et leges prohibitionistas promulgant

emancipatae civitates autem nulla timendo

et misera et divina simulacra tollerant

perciò le municipalità sottomesse per la paura di insurrezioni e per appiattire la coscienza civica promulgano leggi suntuarie (contro l’esibizione del lusso)  e proibizioniste; mentre le comunità evolute senza alcun timore tollerano sia l’esibizione delle apparenze che l’uso di sostanze divine,

corrupta societas est illa in qua tota simulacra externata sunt

pro coactione plebis et ipso modo interiora simulacra prohibita sunt

et perniciosa vitia appelata

è corrotta quella società nella quale ogni simbolo è in funzione della sudditanza di massa e le sostanze psicotrope vengono etichettate come vizi nocivi, 

vestitus ornatus misera forma est

et fumus in oculis

oppium fumatum divina substantia est

et focus in anima

l’abito elegante è povera forma e fumo negli occhi, l’oppio fumato è sostanza divina e fuoco nell’anima,

solida natio corporis simulacra sobrietate producit

dum animae simulacra bene et libere inducit

la nazione compatta esterna in sobrietà le apparenze corporali e assume in libertà le buone sostanze dell’anima

ergo

bonis catholicis apostolicis romanis

regula ethica prima sobrietas in vestito est

et secunda profusio in oppio

pertanto per i cattolici apostolici romani la prima regola etica è la sobrietà dell’abito e la seconda l’uso dell’oppio a profusione.

 > il frammento”Fumus in oculis et focus in anima”, noto anche come  “argomento teologico per la conformità ecumenica di oppiacei e allucinogeni”,

attualmente oggetto di studio del Sant’Uffizio su indicazione del Santo PAdre in vista della della pubblicazione apostolica,

è tratto dall’enciclica Rerum Novissimarum di LeoneXIV – Archivi Vaticani – LXIV-RNSS-19

Imago: Icona “Gesù con Maria”, dalla raccolta “ars sacra novissima”, by Athos Mazzoleni – http://www.foodforeyes.com/

 

 

 

che razza di Colleoni

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ColleoniCTRL

(tutte le folli imprese di Bartolomeo Colleoni in meno di 500 parole by Leone Belotti per CTRL-magazine Agosto 2013- imago by Studio Tempt)

Hai 9 anni. Tuo padre ti dice: stanotte vieni con noi.

Con gli zii e i cugini in favor di tenebra arrivate al castello di Trezzo. Mentre i grandi trucidano la guarnigione, tu ti arrampichi free climbing a strapiombo sull’Adda per taggare il mastio col vessillo dei 3 Collioni. Bravo!

Tutto suo padre!  Sbagliato. A quindici anni sei già più grosso e più intelligente di lui. Vorresti ammazzarlo.

Ci pensa lo zio, che lo sgozza davanti a te. Libero!  Come in un film, afferri le redini di un cavallo, e quelle  del tuo destino (Il destino di un cavaliere).

Mercenario e gigolò, trafiggi cuori a raffica, ai tuoi piedi cadono nemici uccisi e donne innamorate. A Napoli il colpo grosso: la regina Giovanna è pazza d’amore. Le rubi i gioielli, e via.

Sulla tua strada trovi l’invincibile Braccio di Montone, un gigante sanguinario. Lo stendi al primo assalto (Indiana Jones).

Torni a casa,  e sposi Tisbe Martinengo, nobildonna fascino e cultura. Non ricca: di più. Hai tre castelli e decine di servitori. Ti annoi (Barry Lyndon).

I milanesi ti sono antipatici. Hanno occupato Bergamo, Brescia, il Garda e il Po con navi da guerra. Ma tu hai un’idea.

All’Arsenale di Venezia fai smontare 30 navi, le fai caricare su 2000 buoi e trasportare via terra (Fitzcarraldo) a Torbole, dove le fai rimontare, e all’alba sorprendi, sbaragli e affondi la flotta ducale.

A una festa a Mantova, riferendosi ai 100.000 ducati d’oro del tuo ingaggio con Venezia, un Visconti ti dà del venduto. E tu, alludendo al ducato di Milano: sarebbe più onorevole vendersi per un ducato di latta?

Ti nominano Capitano Generale della Serenissima, e in un paio di decenni, con la cavalleria e le armi da fuoco, rivoluzioni, velocizzi, l’arte della guerra.

Lanci la moderna carica di cavalleria (“tutta la forza in una sola carica travolgente”) e con 3000 soldatacci fai a pezzi 18.000 francesi, catturi il grasso delfino, e lo restituisci a peso d’oro (Braveheart).

Crei la scuola dei Bombardieri, fai montare bombarde rotanti su carri completamente corazzati, buoi compresi: hai creato un mostro di grande avvenire, il carro armato (Patton).

Nessuno osa più sfidarti.

Con la pace, ti dedichi alla  wellness: costruisci orfanatrofi, terme, aziende agricole, canali navigabili.

Hai potere assoluto, possedimenti enormi e fortune incalcolabili: ma la tua figlia prediletta, Medea, quattordicenne, muore di difterite.

Per lei, per starle vicino, fai costruire una cappella  fantastica.

Poi prendi carta e penna e lasci tutto il tuo patrimonio (la terraferma) alla Repubblica.

Sei l’uomo più duro del mondo, e te ne vai di crepacuore.

Venezia ti dedica la “più impressionante statua equestre mai realizzata”.

Apparentemente scazzato, e profondamente incazzato, sei l’icona immortale di una specie in via d’estinzione: il maschio antico, il maschio dominante.

Gambe larghe, spalle larghe, vedute larghe.

E i collioni  pieni.

 ColleoniDavinci  

> sulla vera storia della statua del Colleoni a Venezia, vedi lo scoop dell’upperdog sulla paternità dell’opera Verrocchio/Leonardo e sul dna Colleoni/Percassi 6palle 2gay 3verità:

https://calepiopress.it/2013/07/08/6-palle-2-gay-3-verita/

 

quasi catula

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neveUD

…apta amori sine timore effusiones petens

quasi catula omnium subito oblita…

… atta all’amore e desiderosa di effusioni senza timore 

come una gattina capace di dimenticare tutto…

(just like a little kitty able to forget everything:

e dimenticatevi questo post, che pubblichiamo in via del tutto eccezionale,

trattandosi della catula Neve, nostra coinquilina, ultravanitosa, iperdispettosa,

molto sanguinaria, capace di fare fuori un pettirosso e poi venire a fare le fusa,

qui fotogratafa da Jennifer Gandossi in qualità di modella (la catula Neve, non la bipede Jennifer) e musa della next publishing “fabula de amore in vitro/pulcherrima puella erat et pura”

una fabula latina scritta da Leonidas Calepinus e scelta come tema della nuova collezione disegnata da Karim Rashid per Purho,

https://www.facebook.com/purhodesign

cioè ciotole di mega lusso in vetro di Murano, che sarebbero per uso bipede, ma il vostro upperdog in qualità di tester le ha usate per papparsi la sbobba originariamente cucinata per la catula Neve, tutta presa a farsi fotografare,

un fantastico mix bio di  fegato, cuore e polmoni,

una ricetta, una ciotola che potremmo a questo punto battezzare “interiora-design”,

ci aggiungerei anche una presa di cervella tagliuzzate, e rognone a volontà.

 

 

la pubertà in sagrestia dell’intellettuale sovversivo

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Da bambino passavo le estati in mezzo ai vigneti, in valle del Fico,  in una vecchia e grande casa a mezza collina, in via delle Rimembranze, terra battuta, cipressi, destinazione cimitero,

era una casa tetra, buia e silenziosa, che mi faceva paura,

abitata da un orco col bastone, il bisnonno, ex podestà del paese, e da una strega con lo scialle, la zia Tina, la figlia zitella, acida e severa,

ma anche da una fatina con le ali, la nonna Lina, e da un grande mago occhialuto, lo zio Bruno, Don Bruno, il prevosto sovversivo, il mitico Don Bruno,

che durante la guerra, a Schilpario, nascondeva partigiani in sagrestia, e per poco non era stato fucilato dai todesch,

più tardi, negli anni della contestazione, già epurato dalla curia di Bergamo come prete-ribelle,  si era costruito una chiesetta in proprio, in Valle del Fico, la Madonna dei Campi, totalmente abusiva, bellissima, lavorando il sabato  e le domeniche con i muratori-vignaioli-alpini, era una festa continua, il primo acquisto la campana, usata per fare la polenta…

poi al vescovo era toccato venire a benedirla,  col geometra del comune al seguito.

Questo succedeva nel 1972, io avevo 6 anni, e nel cantiere della chiesa ho avuto le mie prime sbornie da merlot della bergamasca.

Lo zio Bruno per me bambino era come i supereroi dei cartoni animati.

Aveva il potere di rendere fantastico il mondo.

Era riuscito a trasformare questa comunità di contadini-manovali taciturni e “semper all’ostia” in un collettivo gaudente di catto-buontemponi “sempre alegher”.

Quando andavo al mercato con la nonna Lina, dal momento che l’unica parola che dicevo dai 3 ai 6 anni era “roia”, c’era sempre qualcuno che chiedeva: ma è figlio di chi, quel bambino qui?  Io dicevo: so lo scet del preost, sono il figlio del prevosto, dello zio Bruno.

Così per prima cosa lui mi prendeva a pedate nel sedere, chiamandomi “Sennacherib”,

poi mi metteva addosso una tuta da astronauta, andiamo a trovare le api, mi diceva.

Con addosso quella palandra di juta e rete, venivo ricoperto da milioni di api. Era per insegnarmi “il sangue freddo”, e anche a pregare.

D’estate mi portava in valle di Scalve, guidando pericolosamente lungo la via Mala una vecchissima Topolino senza freni, carica di bottiglioni di valcalepio rosso e grappa di foresto,

zaino in spalla, e schioppettone, ci inerpicavamo nella fitta boscaglia sopra Schilpario, la mia missione erano more e mirtilli, la sua lepri e volatili,

se ti perdi, Sennacherib, mi diceva, ci ritroviamo al passo del Vivione.

L’ultima vacanza con lui in Sardegna, in camper, avevo già quindici anni, ci presentavamo nei villaggi turistici, sacerdote con nipote chierichetto, contrattava, barattava la piazzola e il vitto con il servizio messe, due al giorno, mattina e sera, lui diceva messa, e io servivo.

Avevamo una scorta gigante di vino e ostie per la comunione, che consacrava e sconsacrava a seconda del bisogno, buonissime le ostie col patè di fegato, ma anche col gelato.

In certi orari mi diceva di sparire. Aveva da fare le confessioni. In camper.

Quando gli avevo chiesto come mai fossero sempre donne ad andare a confessarsi in camper, mi aveva risposto:

perché gli uomini, quando vogliono confessarsi, vanno a donne;

invece le donne, quando hanno pensieri peccaminosi, vengono a confessarsi.

(in memoriam di Don Bruno Belotti, pronunciata da Leone Belotti alla messa a 25 anni dalla morte, Madonna dei Campi, Valle del Fico, 22 Luglio 2013)

nulla dies sine linea

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ApelleTepolo

Nulla dies sine linea

Apelles picturae graecus magister dixit

hac sententia intelligenda est sicut monitus

ad  cotidie non interrupta esse  artis opera in fieri

usque perfecta est

Nessun giorno senza (aggiungere) un tratto,

disse il grande pittore greco Apelle;

questa frase è da intendersi come un monito quotidiano

a non interrompere l’opera d’arte in lavorazione

fino a quando non sia “perfetta” (compiuta, finita).

(la frase di Apelle, il più grande pittore greco, autore del ritratto di Alessandro,

è riferita da Plinio il Vecchio in Naturalis Historia, Liber XXXV.

“Nulla dies sine linea”, per estensione “ogni giorno un passo avanti”,  è diventata il motto dell’impegno quotidiano nella realizzazione di un’impresa destinata a durare.

Per ironia della storia, e della sorte, nessuna delle opere di Apelle è giunta a noi.

Imago: G.B Tiepolo, Alessandro e Campaspe nello studio di Apelle, 1725,

Museum of Fine Arts, Montreal)