una storia ben architettata

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crespi workshop ark + photo/writing – Gamec / 19 giugno 2015 h16.00

L’architetto è interessato allo spazio architettonico come scenario di comunicazione umana;  e ha sempre bisogno di immagini, e di testi, per raccontare il “progetto”.

Un architetto sa immaginare relazioni umane nello spazio costruito (interni/esterni) deve cioè essere in grado di comporre foto-romanzi

Abbiamo a disposizione uno scenario (villaggio operaio crespi d’adda) per creare piccoli racconti testo e immagine, fotoromanzi, ideati e realizzati da coppie creative (fotografo e modello) composte da architetti.

il fotoromanzo nasce come riduzione cinematografica, versione cartacea, stampata, di scene clou di grandi film, di fatto è il film del film, il film povero, per chi non poteva permettersi il biglietto del cinema,

nella nostra testa, sia a livello di aspettativa che di ricordo, conservazione delle esperienze, degli incontri, noi ragioniamo in termini di fotoromanzo, di cinematografia compressa, noi ricordiamo o immaginiamo scene da fotoromanzo, dove un personaggio in uno spazio dice, pensa o ascolta una frase, un contenuto di comunicazione,

ricordiamo qualcuno che dice qualcosa, immaginiamo qualcuno che fa qualcosa,

il fotoromanzo è un format elementare, sintetico, chiaro, e l’unione dei due strumenti base di comunicazione, parola e immagine;

la base del fotoromanzo sono personaggi o anche uno solo che si rivolge all’altro, al lettore; questo personaggio agisce/appare in tre tagli (primo piano, mezzobusto, figura intera) e si colloca in spazi molto normali e urbani: casa, lavoro, per strada, al ristorante/bar, in auto.

il fotoromanzo è ovunque ci sia una descrizione in immagini e parole, ma la parola fotoromanzo è tabù: un servizio di moda è un fotoromanzo senza storia, i blog sono fotoromanzi senza carta,  i giornali on line sono fotoromanzi-verità,

il primo libro stampato, la cosiddetta bibbia dei poveri, testo e immagine fianco a fianco, era già un fotoromanzo; le immaginette (icone+vite dei santi) sono moduli base di fotoromanzo;

il fotoromanzo è tabù in quanto aborrito sia dai romanzieri che dai fotografi, che nel binomio temono l’impoverimento della potenza espressiva del singolo linguaggio, parola o immagine:  in realtà questo atteggiamento indica mancanza di umiltà e di sintonia con il lettore/fruitore,

il fotoromanzo è un linguaggio semplice, ma non è facile fare le cose semplici, è richiesta capacità di mediazione, incontro tra le differenze,

per superare il tabù, la paura del kitch (che spesso è una paura del pop e del proletariato)  possiamo chiamarlo photo-graphic novel, e definire come photo-writing l’attività del fotoromanziere, o meglio ancora propongo di chiamarlo psico/fotoromanzo,

lo psico fotoromanzo è quello che ci facciamo in testa prima, durante e dopo le nostre esperienze esistenziali quotidiane (al bar, per strada, parlando con qualcuno, pensando)

testo e immagine possono avere tanti rapporti quanto quelli che si possono avere tra due amanti; rifiuto, corteggiamento, conquista, sottomissione, fuga, ribaltamento, amplesso, compenetrazione, alienazione,  distacco,

lo psico fotoromanzo è sempre una storia  erotica, quale che sia il tema, con un’aspettativa, uno sviluppo, un climax e uno scioglimento, in questo percorso testo e immagine prendono senso:  una storia con una durata fisiologica minima e massima, che ricalca, compressa in scatti, lo svolgimento di un film,

a Crespi vogliamo realizzare un fotoromanzo corto, che è come un corto cinematografico,

parliamo di16 pagine, con un minimo di 8 scatti e un massimo di 32, impaginati in una gabbia molto semplice, che prevede immagini doppia pagina, a pagina intera, a mezza pagina, e ad ogni immagine una dida-testo di 100-300 battute, per un totale di 1500/3000

per questo esercizio di photo-writing prevediamo un titolo seriale:

una storia architettatagenere: psico fotoromanzo corto (16 pag, 8-32 immagini),

formato: pocket (misura della pag: A5 >15×20)

ambientazione: villaggio operaio di crespi, in funzione di location, scenografia o foto-modello spaziale/architettonico > il paesaggio/ambiente come personaggio che reagisce con il personaggio umano  > il personaggio umano: è il narratore,  questo narratore modello cammina, si ferma, guarda, indica, tocca e di fatto pensa e/o racconta una storia

taglio dell’immagine: verticale (a tutta pagina) orizzontale (a mezza pag, o doppia pagina)

lettering: solo dida al piede, no nuvolette, 100/300 caratteri, testo tot 2/3000 caratteri

qui sotto 4 format “variazioni sul villaggio”, 4 “personal village”, 1 tema libero, 1 archi-testo.

VARIAZIONI VILLAGE

1) il villaggio operaio – viaggio nell’architettura paternalista

modus: testo di critica sociale/storia dell’architettura relativo al concept “villaggio operaio” – genere docu/fotoromanzo – è il format basic, referenziale, dove il villaggio operaio rappresenta sé stesso ed è tema del racconto.

2) il villaggio turistico – racconto di una vacanza organizzata

modus: controcanto al villaggio operaio (luogo di produzione, epoca industriale) il villaggio turistico (luogo di consumo, società dello spettacolo) è il racconto di una vacanza organizzata, delle attività e dei momenti del villaggio turistico raccontati per contrasto o metafora con gli ambienti fotografati

3) il villaggio/outlet centro commerciale – cronaca di un giorno di shopping.

protagonista è la merce, ritualità dell’esperienza shopping, interpretazione dei luoghi/funzione (parcheggio outlet > cimitero villaggio;  insegne/totem adv > chiesa; area vendita > opificio; galleria commerciale > viale centrale)

4) il borgo feudale, curtense, la comunità chiusa, autosufficiente, il villaggio agricolo sostenibile, antesignano del km0 > signore, castello, chiesa, contado, racconto delle relazioni economiche e umane all’interno di un sistema feudale chiuso/gerarchico > in opposizione al villaggio globale aperto/demagogico.

PERSONAL VILLAGE

5) storia di mio nonno/a

modus: scrivere la storia del proprio nonno/a in 2/3000 battute

quindi dividere il testo in 10/30 blocchi e scattare altrettante immagini usando lo scenario Crespi come  foto-modello architettonico nel quale la persona “racconta” la storia del nonno, calata nelle ambientazioni/quinte dello scenario (chiesa > nascita/matrimonio;  scuole – infanzia/apprendimento; opificio > lavoro; case d’abitazione > famiglia; cimitero > morte, mancanza, memoria) > in alternativa, ricerca nell’archivio storico del villaggio, ricostruzione di una storia anonima o ripresa di una storia nota (es: storia del fondatore, storia dell’omicidio/suicidio di Bambina Minelli, etc)

6) il mio paese – descrizione di come era il mio paese

racconto del proprio paese d’origine, racconto topografico e sociologico, usando il villaggio operaio come scenografia simbolica, luoghi e funzioni.

7) la mia casa – ti racconto cosa significa la mia casa, un villaggio fatto di stanze, racconto d’architettura d’interni privata/contemporanea fatto in esterni d’epoca industry

8) Il mio inconscio – la mia psiche è un villaggio d’altri tempi, valori, paure, ricordi, aspettative, sogni, pulsioni ambientate negli spazi/funzioni archeo-industriali

TEMA LIBERO

9) storia libera storia libera d’amore, di vita, di viaggio, psicologica, surreale, etc: racconto breve (2/3000 battute) illustrato/pensato/letto/proiettato nel contesto Crespi

ARCHI-TESTO

10) archi-testo – scelta di un brano 2/3000 battute da un grande maestro, teorico, architetto (o collage citazioni da più autori) e sua versione/scansione foto romanzata.

(photo da  http://www.fotocommunity.it/fotografa/giovanna-s/1064469 )

 

il senso del gelato per Bergamo

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Una mucca che ti guarda è l’icona pop di expo-gelato 2015, mostra-happening  dedicata al gelato artigianale, che si inaugura sabato pomeriggio a Bergamo Centro zona Sentierone (la mostra sarà nel chiostro di S.Marta, il laboratorio/show in Galleria).

Parlare delle delizie del gelato, se il tema è nutrire il pianeta, può sembrare uno snobismo, e solleticare facili ironie storiche in stile Maria Antonietta, ma in realtà la storia del gelato è un perfetto esempio di come funziona realmente (o funzionava) l’evoluzione umana prima e oltre il copyright che oggi le grandi holding piazzano su qualsiasi cosa: in realtà nessuno inventa mai niente, ma tutti collaborano a creare tutto, e insieme è possibile fare qualcosa che nessuno è in grado di fare da solo.

Il gelato nasce da secoli di perfezionamenti apportati dal “fare insieme” di anonimi artigiani provocati alla creatività da alcuni “geni” o “inventori” (molti dei quali italiani): chi inventa e crea è sempre un soggetto plurale, e umano, mai un marchio commerciale.

Una storia per molti aspetti italiana, in momenti cruciali (il passaggio dal sorbetto al gelato, l’apertura di gelaterie pubbliche, l’invenzione della macchina gelatiera) che oggi rappresenta ancora un unicum mondiale: siamo l’unico paese al mondo che consuma più gelato artigianale che industriale.

La differenza è molto semplice (e non la troverai negli spot del gelato industriale): il prodotto artigianale rispetto a quello industriale contiene la metà dei grassi e meno della metà d’aria.

Viene prodotto quotidianamente da piccoli punti vendita (le gelaterie artigianali) con piccole gelatiere, mentre il resto del mondo viaggia a gelato gonfiato, con conservanti, trasportato in container su veicoli diesel, american style.

Dunque un prodotto alimentare da sempre portatore di sostenibilità, genuinità, italianità artigianale, no logo, con ingredienti veraci (e cioè: passione, tecnica, attenzione e un pizzico di follia) per certi versi assimilabile alla pizza, invece di essere uno dei temi forti di Expo Italia, è relegato negli eventi collaterali, fuori expo, a Bergamo (che del resto è uno dei distretti specializzati nella filiera del gelato artigianale, con una miriade di aziende).

L’allestimento è provocatorio, inaspettato, una scenografia irridente, un’irruzione pop nel salotto di Bergamo Centro, il cosiddetto Centro Piacentiniano, con il suo quadriportico falso e pretenzioso, e tutti i falsi problemi di identità urbana del Sentierone,

la verità – una verità che mi ha investito improvvisamente mangiando un gelato –  è che il Centro Piacentiniano andrebbe abbattuto, raso al suolo, orrido Tribunale compreso: allora forse anche la vera piazza moderna della città-libertà avrebbe spazio e senso.

 

non è una città per turisti

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NNcittàturisti

Bergamo non è una città per turisti, nonostante l’apparenza, nonostante la scenografia monumentale di città alta e la scenografia ambientale dei colli, Bergamo è una città geneticamente anti-turistica;

nonostante l’impegno, i programmi, i soldi che si stanno investendo per costruire questa “industria turistica”, l’impresa non decolla, il cittadino, il commerciante, le imprese non hanno la mentalità per fare accoglienza;

non c’è amore per la propria storia, non c’è cultura del territorio, non c’è realmente desiderio di ospitare l’altro, il diverso, lo straniero;

ospitare gente non è come produrre tondini metallici, occorrono materie prime come anima, cultura, cuore;

chi ha queste materie, da sempre è fuggito da questa città; tutti i grandi uomini che oggi si pretende di usare come icone turistiche, Beltrami, Quarenghi, Donizetti, fino a Manzù hanno sempre dovuto andarsene altrove, mai riconosciuti in patria: solo dopo che tutto il mondo celebra un genio, allora lo rivendichiamo, e volgiamo che tutti sappiano: è di Bergamo!   Si, peccato che a Bergamo sarebbe morto di fame!

Per fare un’industria turistica le risorse artistiche-paesaggistiche in realtà sono secondarie, primarie sono competenze come pazienza, elasticità, curiosità, tutte cose contrarie allo spirito del bergamasco introverso, lavoratore, ostico, mugugnante;

per questo, la costruzione di un’industria turistica, dovrebbe essere fatta umilmente, un passo alla volta, non da un giorno all’altro con slogan e iniziative destinate a sicuro fallimento;

per cominciare, si dovrebbe valorizzare l’autenticità, la verità, il carattere profondamente onesto, sincero, modesto, anti-show, della città, e dire questa cosa, usare questo contro-slogan:   “non è una città per turisti”, e valorizzare ciò che realmente può portare uno slogan del genere, e cioè viaggiatori che detestano la città turistiche, ad esempio, ovvero il target molto alto dei ricchi snob, e il target molto pregiato di intellettuali e artisti e viaggiatori no-massa;

lavoriamo sulla qualità, creiamo una mentalità, costruiamo un modello sostenibile di città storica, non risorsa da sfruttare ad esaurimento come un pozzo di petrolio, ma giacimento da mantenere vivo, e tutelare come una fonte sorgiva.

O davvero vogliamo le piazze di città alta invase da “restaurant” che propongono “lasagne e cappuccino 9 euro”, come a Roma? Seguendo gli esperti in marketing turistico, si finisce lì.

Con tutti i suoi difetti, è ancora una città vera, con un suo carattere, un suo pudore, non facciamo finta di essere bresciani o milanesi, dare spettacolo non sarà mai il nostro forte, troviamo il coraggio di costruire un nostro modello, una nostra prospettiva coerente, pertinente.

 

non parlatemi di calcio

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delotavlliani

Non c’è bisogno di fare nomi, i nomi li sappiamo tutti,

parlo di soggetti violenti e socialmente pericolosi, che sarebbero da rinchiudere subito, e non intendo gli ultras, ma i dirigenti stessi del calcio italiano, i massimi dirigenti, arroganti e ignoranti, ottusi e irresponsabili,

massimi dirigenti delle squadre più potenti che aizzano (e distraggono) le folle con dichiarazioni a caldo e comunicati stampa a freddo che sembrano dichiarazioni di guerra etnica;

massimi dirigenti della federazione calcio che, abituati a usare un linguaggio volgare e razzista, fanno gaffe internazionali imperdonabili, e intanto in patria profittano della loro carica per affari privati con denaro pubblico e spartizioni familiari di poltrone e incarichi: e alla luce del sole! Embè? Che male c’è?

Intorno a loro politici al soldo, giornalisti lustrascarpe e calciatori corrotti, condannati per aver venduto le partite, ma prontamente perdonati e reintegrati (mentre quei pochi coraggiosi che hanno denunciato le combines sono stati emarginati ed esiliati).

Tutti personaggi legati mani e piedi, più che al gioco del calcio, al gioco d’azzardo, o alla finanza grigia, o alle peggiori lobby immaginabili;

chi segue il calcio lo sa, lo vede, ma per diversi motivi non ne parla;

chi non lo segue, non immagina minimamente cosa sia diventato il calcio, il virus che propaga,

e resterebbe allibito anche solo nel sentir parlare questi presidenti-boss (o teste di legno) questi dirigenti-papponi (o teste di legno) spesso impresentabili, spesso indagati, o pregiudicati, ma tutti a piede libero, e tutti in tv in prima serata, ben vestiti e strafottenti: noi siamo i padroni, noi vi facciamo fessi come e quando vogliamo,

è questo che dicono i padroni del calcio ogni giorno, su ogni canale, a un pubblico enorme, ammutolito.

Il calcio italiano è l’immagine del nuovo medioevo, una società padronale, clientelare, feudale, servile, nella quale le regole (e la comunicazione!) sono armi diaboliche, strumenti di sopraffazione del forte sul debole.

Ormai non hanno più nemmeno la decenza di salvare le apparenze, gli scandali sono alla luce del sole, quotidiani;

e se il contrasto tra quello che dicono e quello che fanno è “come niente fosse”  sotto gli occhi di tutti, questo significa che la massa, e prima della massa i mass-media, devono fingere, e fingono, di non vedere, di non sapere che lo sport più amato dagli italiani è diventato una orribile farsa, vetrina di un regime regressivo, reazionario, incivile e ipocrita:

naturalmente l’altro lato della medaglia è un fiorire di propaganda umanitaria, iniziative benefiche, ridicole norme anti-violenza, anti-razzismo, codici etici, spot retorici;

e questa facciata di “bontà” serve a coprire la puzza, il fetore che emanano, la maxi-truffa sociale, economica:

parliamo di società calcistiche di serie A che hanno centinaia di milioni di debiti, che le banche ri-finanziano periodicamente senza problemi;

e centinaia di milioni di evasione fiscale, condonata grazie ad appositi decreti legge (“salva-calcio”) fatti su misura (mentre aziende, artigiani, lavoratori e interi distretti produttivi sono messi in ginocchio dai rigori punitivi di fisco, burocrazia e finanza);

parliamo di squadre che non sono più squadre, ma “piattaforme d’intermediazione finanziaria”, di proprietà oscura, dirette da personaggi oscuri, che hanno sotto contratto non i 20 o 30 calciatori che indossano quella maglia, ma addirittura 200 o 300 atleti, che poi giocano “in prestito” in altre squadre (servire due padroni…)

il risultato di tutto questo sono partite e campionati palesemente falsati, dall’inizio alla fine, da anni, tanto che il vero protagonista e centro d’interesse mediatico non è più il torneo, l’impresa sportiva, ma il calcio-mercato, un vero e proprio spettacolo finanziario.

Il calcio-mercato una volta era limitato alla stagione estiva, tra la fine di un campionato e l’inizio del successivo, mentre oggi è permanente,

per cui se una piccola squadra ottiene grandi risultati e valorizza nuovi giocatori, quella squadra viene immediatamente smantellata, a campionato in corso, e quei giocatori passano alle grandi squadre,

tutto può succedere nel calcio di oggi, tranne una vera impresa sportiva;

in questo modo la passione, il bisogno di catarsi dell’uomo qualunque, è mortificata, svilita; il piacere di vedere giocare ai massimi livelli il gioco più bello del mondo resta un desiderio totalmente insoddisfatto;

le partite noiosamente scontate, gli stadi vuoti, i calciatori depressi, gli allenatori isterici, i presidenti megalomani, i giornalisti asserviti: questo calcio non serve più nemmeno come oppio dei popoli, come strumento di consenso, è solo l’immagine dello sfacelo, della follia conclamata di un regime sclerotizzato, lanciato verso l’autodistruzione.

il modello di business televisione e scommesse sportive, che in Inghilterra funziona, in Italia ha prodotto debiti e corruzione, e il giocattolo si è rotto.

Di fatto da decenni non c’è più competizione sportiva, in seria A, ma solo vassallaggio, e disputa feroce, senza esclusione di colpi, tra quei due o tre club rappresentativi dei poteri forti,

è una disputa a base di scorrettezze e corruzione, una guerra per il controllo e l’asservimento non solo di atleti e arbitri, ma anche dei mass media (in queste settimane lo scontro di potere tra i diversi feudi è sul controllo delle produzioni televisive delle partite).

Col pretesto molto ben strumentalizzato della “violenza” degli ultras, hanno svuotato gli stadi di spettatori, e li hanno riempiti di telecamere.

Guardando una partita in tv sei frastornato da replay, minispot, zoom e stop motion, e non vedi, non cogli la cosa importante. Vai a vedere una partita allo stadio, e capisci subito che è irreale.

La crisi del calcio non è solo la crisi del calcio, ma la rappresentazione nuda e cruda, il volto peggiore, paradossale e stomachevole, della crisi del sistema Italia: una crisi totale, economica, etica, politica, mediatica.

L’unico vero decreto “salva-calcio sarebbe sospendere il campionato, sciogliere le federazioni, commissariare le società sovra-indebitate (cioè quasi tutte, escluse alcune provinciali “virtuose”) come si fa con qualsiasi altra azienda, e mettere sotto indagine il management.

Il calcio non è più uno sport, ma una gigantesca truffa, un’azienda totalmente corrotta, che crea solo debiti pubblici. Sarebbe da chiudere subito. Per decreto.

 

il guerriero della luce

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lampada_frontale

(per la rubrica PORNO satiro/maschilista di CTRL magazine “il mondo di Onan”, tema del mese “La Luce”) 

Amano apparire, essere al centro dei riflettori, adorano prendere il sole ma quando si arriva al dunque, alla caverna, vogliono spegnere la luce: non è strano?

Una donna serve proprio a questo, a spegnerti la luce.

Quando hai la testa tra le gambe di una donna, e sei sotto le coperte di una stanza immersa nell’oscurità più totale, sei come un minatore nelle viscere della montagna rocciosa, e come un minatore, oltre alla piccozza, dovresti avere una luce sulla fronte: ti basta montare il faretto della mountain bike su un cerchietto o una fascetta da tennis (brevetto LeccaLux) e avrai risolto metà dei tuoi problemi di roccia e piccozza.

Al contrario di quel che dicono loro, con la luce la libido aumenta, un po’ di luce, non abbagliante, e lo sa bene  la cultura cattolica, a lume di candela. Le nostre nonne lo volevano fare al buio per non lasciarsi prendere dalla libidine, per non essere troppo peccaminose (da una ricerca BaDante Alighieri).

Loro invece, le donne di oggi, credono (sono state indotte a credere) che con la luce tu noteresti le smagliature, la cellulite, i peli sulle gambe.

Stronzate. Le poverette non considerano che al buio gli altri sensi si acuiscono: e percepisci fetori, odori, sudori che, in assenza di una forma femminile visibile, ti sembrano molto simili a quelli di un uomo, ai tuoi, e la cosa è francamente deprimente.

Cose che alla luce del sole ti infiammano, nelle tenebre ti spaventano. Al buio l’ascella della Hunziker ha lo stesso odore di quella di Ibrahimovic. E non parliamo del latoB.

Secondo altri – ipotesi evoluzionista, che pubblichiamo con riserva  – loro vogliono spegnere la luce perchè sono vittime di un retaggio ancestrale, cavernicolo. Stiamo parlando delle donne, specie di scimpanzè che si è evoluta in bipede solo 400.000 anni dopo il maschio, non dimentichiamolo (e con 400g di cervello in meno). Per tutto questo tempo la donna seguiva a quattro zampe il bipede maschio, e lui le gettava qualche avanzo. In seguito questo ruolo fu occupato dal cane.

E con questo rispondiamo anche all’annosa questione: può esistere l’amicizia tra l’uomo e la donna? Sì, ma uno dei due deve fare il cane, e l’altro tenere il guinzaglio.

La donna a quattro zampe, succube del bipede maschio alla luce del sole, nelle tenebre della notte in posizione orizzontale ristabilisce la supremazia della bestia inondando il bipede di libidine con energia inesauribile. A queste condizioni, puoi darle il permesso di spegnere la luce.

 

 

cosa bolle sotto il Sentierone

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exDiurno

I problemi d’identità del Sentierone vengono da lontano, dalla sua origine, dal suo nome:

si chiamava “sentierino”, ed era un piccolo sentiero che traversava il prato di S.Alessandro collegando i borghi storici di Bg bassa, pignolo/palazzo e pontida/s.alessandro, sviluppatisi come promanazioni, germinazioni dalle porte di Bg alta.

Questo “sentierino” diventa “sentierone” quando nel prato di S.Alessandro sorge la Fiera di Bergamo, vero punto di nascita della Bg bassa.

Durante il Ventennio la Fiera viene demolita, al suo posto nasce il centro Piacentiniano, come scenografia con portici neo-classica, e tutta l’area delle Fiera diventa il Sentierone/piazza Dante, con edifici pubblici, il tribunale, le banche, una sorta di centro direzionale.

Pochi anni dopo viene realizzata Piazza della Libertà e il mastodontico Palazzo Littorio, l’edificio pubblico più importante della Bergamo Moderna, lasciato quasi in disuso dopo il regime, per ragioni psico-collettive di rimozione.

I problemi d’identità di tutta questa area, dunque, si accavallano: da un lato le due piazze, Dante e Libertà, pur essendo state costruite a 10 anni di distanza, in realtà sembrano lontane secoli, la prima neo-classica e borghese, la seconda razionalista e futurista, ma con la “macchia” di rappresentare un regime, un periodo rimosso, come un senso di colpa non affrontato, che impedisce di dare nuova anima a una stanza, una persona, una piazza.

Perciò, nel dopoguerra, è stato più facile per la Bergamo bene re-impossessarsi del centro piacentiniano con quella sua aria da pasticceria architettonica che non della più moderna e funzionale piazza e palazzo della Libertà.

Negli anni sessanta e settanta il Sentierone è il vero centro della città. I due locali storici Balzer e Nazionale davano identità di salotto, e sotto piazza Dante c’era il Diurno, una sorta di centro commerciale ante litteram, con negozi, uffici, associazioni.

Oggi abbiamo un fenomeno di desertificazione del Sentierone. Le principali attività commerciali e non dell’area sono chiuse o in chiusura (tribunale, ristorante Ciao, bar Balzer, e altri negozi storici della borghesia berghem, come Pagano) e la sera non esiste un posto dove bere un caffè.

L’immobiliare Fiera proprietaria dell’area sta pensando a cosa fare per rivitalizzarla e le associazioni architetti/innovatori che governano la città (Innova Bergamo, Bg 2.035) hanno aperto le loro sedi in piazza Dante,

si parla di restrutturare il Donizetti, ci si chiede cosa fare del Diurno (scartata l’idea del park) se e come riaprirlo,

è evidente che se si vuole dare funzione e senso di centralità occorrerebbe:

1) tenere in vita i locali storici (Il Nazionale è stato rifatto a nuovo ed è un locale-design senza storia, il Balzer pare chiuda senza cedere il marchio, e dunque se riaprirà non riaprirà come Balzer)

2) cogliere l’occasione dell’uscita del Ciao, marchio tipico da non-luoghi, per aprire un ristorante o trattoria vera, bg foods

3) nell’ex diurno, realizzare la discoteca di Bergamo Centro, magari comunale, civica, la discoteca della città, come controcanto del Donizetti: qui la lirica e la borghesia matusa, là la techno e “i giovani”; a far da connessione il quadriportico con 1bar matusa 1bar movida e al posto del Ciao 1 Bg ristorante expo-strategico cucina bg in ambiente moderno e prezzi pop.

La discoteca del centro è la vera soluzione al problema di rivitalizzare l’area, si evitano i problemi guida-alcool, non si disturba nessuno (nessun residente nell’area) e si abituano i ragazzi a venire in centro, magari in bicicletta.

Chiaramente, essendo sotterranea/undergorund, e trovandosi in Piazza Dante, si chiamerà: IL PURGATORIO

(photo: l’ex Diurno sotto Piazza Dante, chiuso da decenni)

suicidarsi a scuola

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controvento

sul pensiero del suicidio e sul suicidio si è sempre dibattuto e discusso, e da parte di tutti e senza eccezioni si è anche continuamente taciuto, 

so di parecchi esequie nel corso delle quali questi allievi – e cioè esseri umani tredicenni o quattordicenni o quindicenni o sedicenni, ammazzati dal loro ambiente – sono stati sotterrati, ma non sepolti, perché in questa città rigidamente cattolica questi giovani suicidi, com’è naturale, non sono stati sepolti, bensì soltanto sotterrati nelle circostanze più deprimenti, più umanamente degradanti.

Un sacerdote non ha nulla da cercare alle esequie di un suicida in una città come questa, totalmente abbandonata all’ottusità del cattolicesimo e totalmente soggiogata da questa cattolica ottusità.

I più esposti al suicidio sono i giovani, gli adolescenti lasciati soli dai loro genitori e dagli altri educatori. Ciascuno di noi avrebbe potuto commettere suicidio, in alcuni si era sempre letto in faccia con chiarezza anche prima, in altri no.

Quando qualcuno preso da improvvisa debolezza non riusciva più a sopportare  né il terribile peso del suo mondo interiore, né quello del mondo intorno a lui, poichè aveva perso l’equilibrio tra questi due pesi che entrambi lo opprimevano senza posa,  e quando poi d’improvviso, da un certo momento in poi, tutto in lui e nel suo aspetto alludeva al suicidio, e la sua decisione di compiere suicidio si poteva notare  e ben presto desumere con spaventosa chiarezza da tutto il suo essere, sempre noi eravamo preparati e mai sorpresi di fronte all’orrore che diventava realtà, di fronte al suicidio che veniva coerentemente attuato dal nostro compagno,

mentre il direttore con i suoi aiutanti non si è mai neanche in un solo caso accorto di una simile fase di preparazione al suicidio, e sempre anzi è stato sgradevolmente sorpreso, e ogni volta inorridito e al tempo stesso ha dato a credere di sentirsi raggirato da colui che altri non era se non un infelice, come se questi fosse invece un impudente truffatore, ed è sempre stato spietato nella sua reazione, disgustosa, di fronte al suicidio dell’allievo, freddo e pronto ad accusare un colpevole che com’è ovvio era innocente, perché la colpa non è mai del suicida ma sempre dell’ambiente, in questo caso dell’ambiente cattolico che aveva schiacciato questo essere umano istigandolo al suicidio.

(brani tratti da: Thomas Bernhardt – L’origine – 1975)

photo by Alessandra Beltrame

 

magenta destra ciano sinistra

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puma-players-tricks

per capire il senso della nuova moda lanciata da Puma al Mondiale con testimonial Balotelli e altri, scarpe di due colori diversi, sinistra ciano, destra magenta,

abbiamo chiesto un parere a Sean Blazer, il grande antropologo esperto di moda, il quale ha detto: basta chiedere a un immigrato extracomunitario, marocchino o algerino, che vi racconterà quanto segue:

in origine chiaramente mettere due scarpe diverse era una soluzione creativa da poveri, avendo magari una scarpa bucata e l’altra no, ci si arrangiava così, scambiandole, anche i nostri nonni lo facevano,

poi, sarà stato 10 anni fa, in Marocco e Algeria è scoppiata la moda delle scarpe bicolori, nike nuove molto costose e introvabili,  facendo il verso ai poveri per significare di essere talmente ricchi da avere non un paio, ma addirittura due di nike nuove;

subito dopo è diventata usanza scambiarsi le scarpe con un amico che avesse lo stesso numero, così da far intendere di averne due paia;

in seguito sono arrivate le nike contraffatte, vendute a ¼ del prezzo ufficiale, già vendute in versione bicolore, e a quel punto la moda bicolore è finita, perché ormai era una cosa da poveri;

a questo punto tutta la storia era pronta per diventare una moda ufficiale, e la Puma ha lanciato la linea bicolore, e tutti i bambini ricchi ora metteranno le Puma bicolore,

questo ti fa capire come funzionano le mode, nascono creative per necessità dalla miseria,  poi diventano esibizione di lusso per insultare i poveri, e infine prodotto ufficiale per tutto il mondo, indossato dai campioni

e comprato in tutto il mondo, senza alcun senso, o forse sempre con lo stesso senso di ogni moda: avere addosso qualcosa che in origine aveva un senso, una storia, senza nemmeno saperlo.

se la Maresana fosse un vulcano

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BgcittàMorta

Solo se messa di fronte alla sua tragica realtà di città morta, sepolta,  Bergamo si darebbe una svegliata e inizierebbe a pensare, progettare e realizzare sul serio il proprio futuro.

Le idee, le possibilità per essere una città sensata, sostenibile e felice, ci sono: quello che manca è il coraggio,  la mentalità, lo spirito e la spinta, l’innesco.

Ma se la Maresana fosse un vulcano, ecco come potrebbe rinascere Bergamo dalle sue ceneri:

1) Bergamo Terrazza dell’Umanità, le mura luogo magico, sospeso, via l’asfalto dal Viale delle Mura, vero luogo d’attrazione, via le auto, via i megabus, corsia o binario per mezzi pubblici non invasivi, più punti di risalita easy (ascensori, scale mobili, scalette), sui bastioni liberati dall’asfalto locali, botteghe, spazi culturali, conviviali, ospitali. Sotto le mura, intorno alle mura: Parco delle Mura Venete e della Rocca: percorso ad anello, valore storico e paesaggistico, pedonale e ciclabile, e contestuale ricostituzione dell’area verde ex bosco faunistico/park-frana, da 5 anni cantiere abbandonato

2) Bergamo Città Aperta, accessibile, accogliente: la piazza della stazione è brutta perchè insensata, rappresenta la chiusura della città, occorre bypassarla sopra o sotto, prolungare, connettere il viale-cardine con aeroporto, autostrada, asse interurbano, e dotare questa nervatura delle infrastrutture logiche necessarie, parcheggi, piste ciclabili (da connettere) aree d’interscambio, percorsi pedonali e negli ex Magazzini Generali la cosa più logica: grande ostello/albergo popolare, per viaggiatori, studenti, famiglie, lavoratori.

3) Bergamo Città Giardino, creazione del “passante verde” pedonale per connettere Accademia Carrara e Sentierone via Parco Suardi e Parco Montelungo (da destinare a verde urbano); apertura delle rogge, dei cortili, piantumazione delle aree dismesse, frutteti e orti pubblici, destinazione del Lazzaretto a mensa popolare – fabbrica delle idee (progetto Mensa te!) trasformazione conventi ed ex caserme e ospedali (Astino, Montelungo, Riuniti)  in cascine urbane, creazione posti lavoro e posti di vita, produzioni alimentari e culturali.

(photo “si sale da bergamo bassa” by A.Corti)

l’eco di rovetta

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fucilatiRovetta

Cari ragazzi “ribelli della montagna”, chi vi scrive è sempre stato un ribelle, un montanaro, un antifascista duro e puro: ma su Rovetta state prendendo un granchio colossale, vi state facendo ingannare e usare da persone ed enti (come l’istituto storico della resistenza, e L’eco di Bergamo) che da 70 anni si guardano bene dal rivelare il segreto orribile dietro a questa vicenda: il vero motivo della strage.

I fatti sono indiscutibili: 43 ragazzini dai 15 ai 17 anni, gli ultimi balilla, volontari della Legione Tagliamento, che non avevano mai partecipato ad alcuna azione di guerra, arruolati da poco, dopo aver consegnato le armi in obbedienza al proclama del Comitato di Liberazione Nazionale (è fatta salva la vita a chi si arrende) vengono messi in fila davanti al muro del cimitero di Rovetta, e trucidati a sangue freddo.

Nessuno ha mai ammesso di aver sbagliato, nessuno ha mai fato un gesto di pentimento, scusa, o detto un parola di pietà, non l’associazione partigiani, non l’istituto storico della resistenza, non la curia (che pure ebbe una parte nella vicenda).

Sarebbe bastato questo, sarebbe stato necessario questo gesto. Invece, il silenzio: di Rovetta non si deve parlare, non si deve capire, non si deve ammettere.

Per anni le mamme di quei ragazzini si sono recate a Rovetta a commemorare i loro figli. E poiché nessuno ha mai avuto il coraggio di chiarire, o anche solo riconoscere quella pagina oscura di storia della resistenza, ecco che quel raduno anno dopo anno è diventato sempre più importante, e più travisato e strumentalizzato da entrambe le parti.

Fino ai giorni nostri, con parlamentari che chiedono al governo di vietare la commemorazione, e gruppi come “I ribelli della montagna” che si appellano a una legge di 60 anni fa (anticostituzionale, perchè contraddice la libertà di opinione ed espressione) per invocare il reato di apologia di fascismo,

e l’Eco di Bergamo che pubblica come oro colato un comunicato irresponsabile nel quale si falsifica la storia e si invitano i lettori a partecipare al presidio antifascista “in concomitanza con il raduno di domenica 25 maggio a Rovetta in commemorazione dei vili assassini della Legione Tagliamento”:

La legione e i suoi partecipanti sono noti per le torture, i massacri e le devastazioni compiute nei nostri paesi” scrive l’eco, e scrive una falsità mostruosa, perchè come è provato dalle carte, da testimonianze scritte dei capi partigiani, quei 43 ragazzini non erano torturatori – alcuni erano fidanzati con ragazze del posto – e tanto meno assassini, non avendo mai sparato un colpo.

E nemmeno vili, dobbiamo ammettere, dal momento che mentre tutti si imboscavano, o si nascondevano sotto le gonne della mamma, loro si erano arruolati volontari, per difendere “la patria”: puoi dirgli ingenui, traviati, illusi, ma non vili.

Il vile assassinio, invece, veramente, vile, è stato quello compiuto da chi gli ha prima promesso salva la vita e poi, una volta arresisi (grazie all’intervento del parroco) li ha messi al muro.

Ancora l’Eco scrive cose come: “cani da guardia di un potere e un sistema economico che affamano con le loro crisi e le loro ingiustizie. Antifascismo significa lottare contro ogni discriminazione e per l’uguaglianza sociale. Significa capire il ruolo di questi servi del potere e contrastarli metro per metro: è giunta l’ora di mobilitarsi per ricacciare fascisti e nazisti fuori dalle nostre Valli, come settant’anni fa!”.

Se domenica a Rovetta ci saranno incidenti, tafferugli, feriti (o peggio ancora) io fin da ora indico L’Eco di Bergamo come corresponsabile di incitamento alla violenza (oltre che di falsa informazione).

Se l’Eco avesse la coscienza pulita, e agisse cristianamente, quello che avrebbe dovuto fare su Rovetta era raccontare la verità e dunque invitare tutti a esprimere pietas, in un contesto di riconciliazione e comunque di rispetto per ragazzi a tutti gli effetti “martiri innocenti”, anche se indossavano la divisa sbagliata, vittime della storia, una storia assurda e crudele, esattamente come molti partigiani fucilati dai fascisti.

A noi interessa individuare le responsabilità, chi ha deciso, e perchè, quell’inutile massacro, e anche chi continua a usarlo (in modo a dir poco disonesto, direi) come strumento di consenso giovanile.

Allora, se sei veramente un ribelle, prima di gioire per questa inconsueta uscita “pasdaran” del nostro Eco delle curia, spendi cinque minuti, leggi questa ricostruzione (alla quale ho dedicato anni di ricerche, e una tesi e una laurea in storia che alla fine non ho preso) fai le tue ricerche, e fatti un’idea tua.

Tratto da “Il senso segreto della strage di Rovetta”, by Leone Belotti:

Ultimi giorni di Aprile del 1945, la guerra è finita. Nel fuggi fuggi generale, mentre tutti si imboscano o si travestono, al passo della Presolana, in val Seriana, tagliati fuori da tutti, ci sono 43 balilla che ancora tengono il presidio.

Li comanda un sottotenente di 22 anni, l’età media è di 17 anni, i più giovani non hanno ancora 15 anni. Studenti, si erano arruolati dopo la fuga del re, per salvare l’onore della patria. Nati e cresciuti nella retorica fascista, non c’è da stupirsi che vogliano resistere in armi contro il resto del mondo, fino alla “bella morte”.

Il Comitato di Liberazione ordina: cessare il fuoco, arrendersi, consegnare le armi, è fatta salva la vita. E’ il parroco a convincerli a scendere dai monti, a rassicurarli che la resa sarà onorevole.

Giunti a Rovetta vengono presi in consegna dai partigiani, e dopo due giorni di prigionia quasi familiare (alcuni erano fidanzati con ragazze del posto) la notte del 27 accade qualcosa di poco chiaro, compaiono figure misteriose, agenti segreti, auto lussuose: all’alba del 28 Aprile i 43 balilla vengono picchiati, spogliati e condotti dietro il cimitero, dove vengono fucilati (mitragliati), a gruppi di cinque, e sepolti sommariamente.

Questo episodio, noto (non troppo) come “la strage di Rovetta” è la prima macchia dell’Italia nata dalla Resistenza. Chi diede l’ordine di fucilare prigionieri che si erano arresi conformemente agli ordini del Comitato di Liberazione?

Per quale ragion di stato 43 ragazzini che non erano stati responsabili di violenze, come testimoniato da uno dei capi partigiani, sono stati trucidati a sangue freddo?

Un processo farsa nel dopoguerra ha chiuso la questione (l’esecuzione fu considerata come “azione di guerra”, e dunque non punibile, grazie a un apposito decreto).

Gli esecutori materiali, processati e assolti, portano i cognomi più diffusi della zona, chiunque in Val Seriana conosce un sacco di gente con quei cognomi, Savoldelli, Zanoletti, Balduzzi, Percassi, amici, clienti, soci, collaboratori, gente con cui lavori. Gli ho detto: chiedi ai tuoi, agli zii, ai nonni: dim ergot! Niente. Nessuno sa niente, nessuno dice niente. Curioso come un bergamasco possa somigliare a un calabrese, in certi silenzi. Una pagina rimossa. E che pagina! L’innesco della mattanza!

Il giorno dopo la strage, il 29 Aprile 1945,  l’Unità scriveva: “La peste fascista deve essere annientata. Con risolutezza giacobina il coltello deve essere affondato nella piaga, tutto il marcio deve essere tagliato. Non è l’ora questa di abbandonarsi a indulgenze che sarebbero tradimento della causa…”  E’ il famoso articolo Pietà l’è morta. Firmato: Giorgio Amendola, cioè uno dei  “padri della patria”.

Amendola si riferiva a piazzale Loreto, ma come non leggere in queste parole un’apologia alla pulizia etnica?

Il macello di piazzale Loreto non bastava, qualcuno ha voluto e ordinato un bagno di sangue generale, nazionale, e occorreva un esempio immediato, ecco la strage di Rovetta: l’appello de l’Unità dunque significa “fate come a Rovetta”, trucidate pure chiunque abbia una camicia nera. A rigore: almeno il 90% degi italiani.

Ma proprio nel corso di quella notte, gli italiani, ormai ginnasti esperti del consenso,  si “liberarono”, e divennero tutti antifascisti convinti, e anche assetati di sangue. Nel corso del successivo mese di Maggio, furono uccise oltre 40.000 persone a sangue freddo, senza distinzione, civili, donne, bambini, anziani, per strada, in piazza, in casa, ovunque, per lo più vendette private su persone comuni, con l’alibi di “annientare la peste fascista”, mentre i gerarchi e i servi del regime  si riciclavano in parlamento, nei ministeri, nelle aziende e nelle case editrici.

Dobbiamo capire che dietro la cornice della “Liberazione” c’è un bagno di sangue attuato per occultare la magia del gattopardo, il trasformismo delle elites (non il ricambio).

Cose che un’intera generazione ha visto ma taciuto alla generazione successiva, la mia, la nostra, per cinquant’anni, fino anni Novanta, cioè dopo il crollo del comunismo, quando  giornalisti, storici ed editori hanno preso coraggio (!) e aperto gli archivi dell’orrore.

Torniamo a Rovetta. Nella formazione partigiana responsabile della strage c’erano personaggi noti della resistenza bergamasca, e anche una figura misteriosa,  il Mohicano, che si è poi rivelato essere un agente dei servizi segreti inglesi, il cui anonimato è stato usato fino ai giorni nostri come pretesto/alibi per non dire la verità proprio da parte di coloro che erano incaricati di fare luce (L’istituto storico della resistenza).

Non ci vuole Einstein per capire che se hai un problema non puoi chiedere di risolverlo a chi ci ha basato sopra la sua esistenza (a meno che si abbia a che fare con grandi uomini, se Einstein mi permette la precisazione, a mio parere dovuta, per quanto sperimentalmente improbabile).

Oggi possiamo dire questo: se a livello nazionale ci hanno mentito per quasi 50 anni, a livello locale, sui fatti di Rovetta, siamo già a 70. Perché? Chi c’è dietro, cosa c’è sotto questo segreto di stato? Chi diede l’ordine?

Cose pesanti da digerire per chi è stato allevato nel mito della resistenza e dell’antifascismo. Alle medie ci portavano in gita scolastica a Marzabotto, alle fosse Ardeatine, sapevamo tutto di quei fatti, ma di Rovetta, dove si andava in villeggiatura, non si sapeva niente.

Ma non vorrai paragonare… Si invece, paragoniamo, la barbarie è barbarie.

Sarebbe bello e giusto che finalmente saltasse fuori qualcuno di quelli che a Rovetta (non a Kabul) da 70 anni sanno e tacciono, anche un figlio, un nipote, e ci raccontasse come è andata. A cosa mi serve un prestigioso Istituto Storico della Resistenza e un simpatico Museo Storico della Città se dopo 70 anni non mi hanno ancora spiegato il fatto storico più rilevante accaduto qui dove sono nato e cresciuto, dove vivo e lavoro?

Leggere le carte del processo, con tutti gli omissis e i non ricordo-non so, con le raffinatezze acrobatiche del diritto per assolvere tutti, mette i birividi, perché riconosci la matrice di quella lunga serie di processi farsa che caratterizzerà la storia stragista d’Italia negli anni a seguire e fino ai giorni nostri.

Una grande delusione, una grande rabbia. Aver studiato storia per vent’anni, aver creduto a quei miti, per poi scoprire verità allucinanti, armadi nascosti, scheletri su scheletri.

Il senso, la verità di Rovetta è ancora segreta. Chi diede l’ordine della strage?

Nel 1997, quando la Regina d’Inghilterra ha tolto il segreto di stato dagli archivi del SOE, il secret service inglese che agiva in italia e nei balcani a “supporto” dei partigiani, gli storici hanno iniziato a studiare i documenti, e il quadro che ne esce ci dovrebbe portare a riscrivere alcune pagine di storia della resistenza. In primis quella della strage di Rovetta. Non ho il coraggio di rendere pubblico il sospetto, la possibilità che esce da queste carte.

Mi rivolgo a chi sa. Cos’hai, cos’avete da perdere? Quale era la cifra pagata? Chi era l’eminenza grigia arrivata con un’automobile lussuosa a dare l’ordine della strage, proveniente da Bergamo?

Non è mai troppo tardi per queste cose.

Oggi non abbiamo ancora vista riconosciuta la verità, che pure si intuisce dietro questa storia analizzando con “cinismo da commercialisti” i retroscena, le direttive del SOE, i conti dei servizi segreti inglesi relativi al “teatro di guerra” italiano:

il paragrafo che ti gela il sangue è questo, e ormai lo trovi pure su wikipedia: “il SOE garantisce il suo aiuto a tutti quei gruppi – di qualsiasi ispirazione politica siano – che diano maggiori garanzie di uccidere il maggior numero di tedeschi e/o repubblichini”.

In altre parole, i gruppi partigiani erano finanziati, armati e remunerati dai servizi segreti inglesi in base alla produzione di morte: tot tedeschi/fascisti uccisi, tot finanziamenti.

Dall’analisi dei conti, risulta che i gruppi di ispirazione comunista furono quelli più sostenuti dal SOE.

Mi stai dicendo, facendo 2+2, e “pensando male”, che questo Mohicano ordinò una strage di ragazzini per aumentare il fatturato del suo gruppo, o magari anche suo personale? Dici che in guerra succedono cose del genere? E 70 anni dopo non sono ancora state rivelate?

Basterebbe, sarebbe bastato confessare la terribile verità, i 43 ragazzini uccisi per fare cassa, intascare soldi, ammettere questa pagina nera della resistenza, per evitare l’escalation, la tensione di questo appuntamento.

Invece abbiamo dei ribelli che si appellano a una vecchia legge poliziesca, e deputati di sinistra chiedono l’intervento del governo, della prefettura per vietare una riunione pubblica,

ma quando la politica chiede l’intervento delle forze dell’ordine, sta dichiarando il proprio fallimento, e dei ribelli che invocano la legge per mio conto non sono veri ribelli

Cari ragazzi, i “cani da guardia di un potere e un sistema economico che affamano con le loro ingiustizie”, sono da cercare altrove, da identificare in altri soggetti, non in quei vecchi o nuovi nostalgici che si radunano a Rovetta perchè in qualche modo sentono che a Rovetta “hanno ragione”.

Dovrebbe farvi riflettere il fatto che deputati di sinistra e giornali della chiesa vi diano queste polpette eccitanti per aizzare l’una contro l’altra le fazioni estreme, giovanili e senili, estrema sinistra ed estrema destra, su questioni di 70 anni fa.

In questo modo entrambe le fazioni vengono distratte dalla vera guerra in corso in italia e in europa, tra ricchi e poveri, tra esclusi e privilegiati.

Il rugby è stato inventato per lo steso motivo: “tenere gli energumeni lontani dalla city nei giorni di festa, e farli cozzare tra loro”

Non vi viene il sospetto che chi vi incita a “ripulire le nostre valli dai fascisti come 70 anni fa” in realtà lo faccia perchè terrorizzato all’idea che invece vi mettiate insieme, estrema destra ed estrema sinistra, “per ripulire roma dai porci, dai servi del potere, che non sono mai rossi, o neri, ma sempre grigi, eminenze grigie” e da coloro che veramente ci stanno “affamando con la crisi”?

Non andate a Rovetta, andate all’isrec a chiedere la verità, a l’eco; oppure andate a roma, a bruxelles a fare presidi no global no usa no euro,

oppure, meglio, andate a rovetta, ma non a litigare, a insultare, a menare, ma a fare qualcosa di più difficile, che richiede molto più coraggio:

io immagino questa scena, quattro uomini seduti insieme a un tavolo a parlare, due sono ottantenni, due sono ventenni,

i due veci sono un ex repubblichino “memento audere semper” e un ex partigiano della brigata Garibaldi; i due ventenni sono una testa rasata di casa pound e un rasta del pacì paciana,

bevono insieme una boccia di vino, e i due raga ascoltano i due veci che si confessano tutte le porcate che hanno fatto, o visto fare dalla propria parte, e poi magari lo stesso possono fare tra di loro i due raga, ascoltandosi il battiato di up patriots to arms: “le barricate in pazza le fai per conto della borghesia che crea falsi miti di progresso”.

E invece di passare un pomeriggio di stupida tensione e insensata violenza imparare la ricchezza del confronto, del dialogo con il “soldato nemico” o con il “servo del potere”, in cerca della verità, e del vero nemico di entrambi, che è un altro, ed è altrove.

Sono certo che i veri eroi della resistenza, i giorgio paglia, e i veri intellettuali di sinistra, i gramsci, uomini di statura superiore, che hanno dato la vita nella lotta al fascismo, sarebbero i primi a denunciare questa vergognosa mistificazione storica, che continua ancora oggi, come una tragica commedia ordita da vili burattinai che sull’antifascismo campano da decenni, alla faccia di chi è morto giovane per un ideale.

(photo: due dei 43 balilla fucilati a Rovetta, ancora ieri definiti “cani da spazzare via” da l’eco di bergamo)