La freddezza nel lenzuolo

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morti

Ieri mi sei venuto in mente tre volte, e sempre per motivi di donne, e alla fine della giornata grazie a te ho fatto due buone azioni, e ritrovato un ricordo dimenticato.

La prima al semaforo, mentre si avvicinava il lavavetri, e pensando a te devo aver assunto un’espressione così arcigna che quello si è dirottato sull’auto accanto, dove c’era giovane mamma, che poi si stava quasi per mettere a piangere, perchè non aveva soldi per pagare il lavaggio, e allora io, sempre pensando a te, ho abbassato il finestrino, con voce sicura ho detto “ci penso io, signora!” e ho allungato l’euro al lavavetri, e tutto è andato a posto.

La seconda verso sera, al supermercato, scaffale dei vini, una badante non più giovane con in mano una bottiglia di vino rosso da 2 euro mi chiede se me ne intendo, se è buono, e di nuovo mi sei venuto in mente, o per meglio dire ho sentito il tuo spirito entrare in me, diventare me,

e allora ho tirato fuori il cinque euro che avevo in tasca – da dieci minuti mi aggiravo non sapendo cosa prendere –  e le ho detto “prenda questo signora, e lo beva alla salute degli amici lontani” e così dicendo le ho tolto dalle mani il vinaccio, e le ho messo in mano e il 5 euro e un chianti da 7 euro, e le sone scese subito le lacrime, e per un quarto d’ora mi ha spiegato che non potrebbe bere alcolici, perchè prende delle medicine, e  io le ho detto che anche questa medicina, il buon vino, è indispensabile, a volte;

e infine rientrando a casa, nella mia via, mi è tornata in mente quella volta, due o tre anni fa, era estate, stavamo aiutando un amico a fare un trasloco, eravamo su un furgone tenuto insieme a fil di ferro e scotch,

parlavamo di tecniche maschili per sgamare le tipe che fingono gemiti e tensioni che in realtà sono sbadigli, e tu citasti un caso tipico:

hai presente Leone quando risali da sotto le lenzuola con la forza di un vulcano, e sei un eccello infuocato che piomba nel nido, e la scopri, la copri, la scopi, e lei geme e tutto quanto: eppure ha la freddezza, nel groviglio di membra, per afferrare il lenzuolo, e coprire!

 

 

cosa vuol dire nylon

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cosa vuol dire nylon forse lo sai già, intendo dire proprio la parola nylon,

che è una sigla in inglese (tecnicamente: un acronimo anglofono)

che trascritta in estensione diventa “now you lose old nippon”

e tradotta vuol dire “adesso hai perso vecchio giappone”

[…]

la storia è semplice, 75 anni fa

giusto quando tuo nonno era appena nato,

l’america temeva di perdere la guerra nel pacifico,

pensava di vincere facile con invasioni di paracadutisti,

ma per fabbricare i paracadute servivano tonnellate di seta

e i giapponesi avevano chiuso la via della seta, dunque: che fare?

la guerra scatena il genio, questo accade sempre, da Leonardo

a Nobel, l’invenzione stravolgente non è mai per nobili fini,

poi le invenzioni di guerra si affermano in tempo di pace

e questo succede anche con la nuova seta artificiale

sintetizzata nei laboratori Dupont, e chiamata nylon

forse in origine NYL indicava New York + Londra,

e -ON la desinenza della fibra, come rayon, come cotton,

ma poi qualcuno, scherzando, disse: “Now You Lose Old Nippon”

da quel momento, sebbene apocrifo, quello divenne il senso

dell’acronimo di nylon, e segna l’inizio di  un nuovo mondo

di una nuova tecnologia delle fibre sintetiche artificiali

e la fine del mondo antico, elitario, della seta

[…]

c’è un solo modo per distinguere

un filo di nylon da un filo di seta: lo bruci.

Se si condensa in un pallina, è nylon;

se prende fuoco, è seta.

(photo e testi tratti dacosa vuol dire nylon – la luna e le fabbriche”

2014 by Virgilio Fidanza e Leone Belotti, ediz. fuori commercio Radici Group)

il piatto in cui mangio

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a un certo punto della tua vita sai in che piatto vuoi mangiare, in che tazza vuoi bere,

come cani, si desidera la propria ciotola, primo oggetto di benessere personale:

ricorre oggi un anno esatto da che mangio nel mio piatto, una ciotola con piatto, tazza e tazzina realizzata da un architetto che ha chiuso lo studio di architettura e ha aperto un laboratorio di ceramica;

in questo laboratorio ha ritrovato le sue origini, la sua infanzia nella terra “cotta” del Salento, e soprattutto il senso perfetto del progetto che diventa oggetto.

Quello che io ho ritrovato, invece, è il senso basilare del nutrirsi: questa ciotola ruvida, essenziale, imperfetta, con la sua tazza-bicchiere, e il piatto-vassoio, e la tazzina-bicchierino, che un essere umano, e non una macchina, ha creato per me, mi ha fatto cambiare abitudini alimentari;

da almeno dieci anni mi riproponevo di mangiare sano, potevo arrivarci prima che tutto comincia dal piatto, secondo l’unico dogma che mi è rimasto (il mezzo è il messaggio)

come molti individui randagi, nel “logorio della vita moderna” mi ero abituato a nutrirmi in modo nevrotico e anonimo, mangiando roba EsseLunga in stoviglie Ikea, ma più spesso mangiando direttamente dalle confezioni polistiroliche, bevendo dalle bottiglie, dalle lattine…

Avere una mia ciotola, la mia tazza, come da bambino, è stato il primo passo di uno stradello che mi ha portato a preparare sempre il mio pasto, una specie di rito religioso, una piccola liturgia, apparecchiare, servirmi, nutrirmi, sparecchiare, lavare, riporre, tutte operazioni che avevo perduto (usavo tutti i piatti, si accatastavano nel lavello, con grande pena nel cuore poi li dovevo lavare tutti).

Quando ho avuto il mio set, pensavo alla sua funzione estetica, di oggetti bellini, destinati a fare da portafrutta, o portamatite,

invece dopo il primo uso è diventato il mio oggetto-feticcio, transfert, traghetto verso la consapevolezza alimentare: dunque non le fidanzate bio-gas, non gli amici km0, o i soci equo solidali mi hanno portato a mangiare meglio, più sano, più slow, ma è stato il piatto in cui mangio,

è stato un architetto-vasaio (cultura vasai?) che ha messo il suo lavoro, le sue mani, il suo tempo nel cuocere la terra in forma/funzione di piatto per me.

(photo: il set Ciotoleo sul tavolo Calepio Press. Qui sotto trascrizione della conversazione con Luca Pedone un anno fa  – siamo alla slow comunication! –  all’apertura del suo laboratorio ClayLab in Pignolo)

Luca Pedone: “ho fatto il liceo artistico mille anni fa, lì ho iniziato a manipolare argilla. Poi ti ricordi di essere nato in Puglia… e ogni volta che ci vai ritrovi terracotta, piatti, piattini, forni, rimani sempre affascinato, e hai questo tarlo nella testa, come faranno a campare?

Vado avanti, Università, architettura, sia mai che uno può fare l’artista, vado in Finlandia con una borsa di studio, all’Università di Helsinki ci sono tutti i dipartimenti, interior design, fotografia,  pittura, serigrafia, scultura e c’è anche ceramica, proprio accanto a interior design, e pensavo “che bella cosa”, e spiavo dalla porta del laboratorio;

provo tutti i lab ma mi tengo a distanza da ceramica, non sarò mai in grado, troppo rispetto,

torno in Italia, mi laureo, faccio l’architetto, il grafico, i siti internet, dieci anni a impaginare cataloghi e flyer,

arriva la crisi, 2008, trovo un posto da insegnante in un Istituto privato, ma per tenere lo studio lavoravo per poter lavorare, non per vivere, chiudo, insegno dal 2008 ad oggi,

comincio a sentire il bisogno di sporcarmi le mani, cinque anni fa seguo un corso di somelier, tutti e tre i livelli, e penso che si debba cominciare dalla vigna, non so,

finalmente, per caso, per fato, due anni e mezzo fa il primo corso di ceramica raku: trovo il volantino giallo in colorificio, era per me, il raku una cottura che dovevo fare al Liceo e non avevo mai fatta, così vado, il fascino della terra su di me era vero, da allora non ho staccato la mani dalla terra,

“mani nella terra e testa tra le nuvole”, non voglio arrivare a seguire solo da pensionato la mia strada: proviamo, mi dico, a trasformare la passione in lavoro, camparci, non diventare ricchi;

dopo il corso avanzato faccio il corso base, cotture antiche, inizio ad allestire un piccolo laboratorio in casa, comprando forno, tornio, inondando la casa di polvere, terra,

poi a Firenze,  Certaldo, Varese, scuole internazionali, e capisco che è una strada percorribile, all’estero si laureano in ceramica, e ne fanno un mestiere,

in Italia siamo fermi a una tradizione, non c’è evoluzione,  nella ceramica tradizionale lo scambio non c’è, c’è chiusura, io faccio un pezzo, trovo uno smalto, e mi tengo il segreto: in Italia è così, ognuno deve cominciare da capo, farsi la sua strada, non c’è trasmissione del sapere, condivisione della ricerca,

le nuove generazioni di “creativi” pensano a fare la videoart, fotografia, performance digitali, nessuno riprende le tecniche della terra,

cerco uno spazio, lo trovo, lo metto a posto, devo inventarmi muratore, piastrellista, imbianchino,

apro il laboratorio, uno spazio microscopico, in una via del borgo storico degli artigiani e degli artisti,

oltre ai pezzi che faccio io, è uno spazio per fare corsi, imparare, insegnare, scambiare esperienza,

voglio mettere il lab a disposizione di chiunque voglia cuocersi la sua terra, come una volta i fornai”.

Toga Nera vs Mulino Bianco

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Cercasi principe del foro per fottere in modo esemplare una multinazionale con un sillogismo; il sillogismo è questo:

a)    tutti noi, signor giudice, abbiamo ben presente la normativa”sanitaria” per cui è vietata nelle scuole e negli asili la somministrazione di alimenti fatti in casa;

b)    tutti noi, signor giudice, vediamo questi spot dove il buon Banderas è testimonial di una grande multinazionale di prodotti da forno che vengono spacciati come fatti in casa, come una volta;

c)    pertanto, signor giudice, chiediamo che sia vietato somministrare nelle scuole i prodotti di suddetta marca, in quanto fatti in casa, come una volta;

in subordine, se ammessi come non veritieri, che sia vietata la trasmissione di suddetti spot.

Al signor Banderas, che nella dichiarazione finale testimonia che la sua merendina è sempre soffice, ribatteremo: dura lex, sed lex!

Accademia Carrara Outing

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Ora che riapre, e ne siamo tutti molti contenti, io voglio sapere perché è stata chiusa.

Si parlava di un restyling funzionale, vale a dire gli impianti, e la libreria (la bookshop) e il caffè-bistrot, come nei musei europei,

ebbene, giovedi 23 aprile 2015, dopo 7 anni, riapre la Carrara, senza bookshop e senza caffè-bistrot;

pareti imbiancate a nuovo, nuovi impianti elettrici, nuovo allestimento:  e noi che siamo bergamaschi sappiamo bene che questi lavori si potevano fare in due-tre mesi, e anche senza mai chiudere la pinacoteca, ma lavorando “a zone” (come fanno nei musei europei…);

noi che siamo il popolo dei magut, tra l’altro, sappiamo bene che se la Carrara fosse stata rasa al suolo da un terremoto, l’avremmo ricostruita così com’era in cinque-sei mesi.

E dunque perché sette anni, quali sono le veri motivazioni, perché non sono rese pubbliche?

Chi è meno serio, in questa vicenda, le istituzioni, i loro dirigenti, il pubblico, gli organi d’informazione?

Io sono disposto ad accettare qualsiasi verità, ma per favore smettiamo questa ipocrisia dei “lavori” che ci rende ridicoli (avremmo anche una reputazione di città dell’edilizia da difendere);

cosa c’è sotto? Ho solo ipotesi romanzesche:

1)    un esperimento di sociologia: “vediamo quanti anni passano prima che qualcuno chieda notizie della Carrara”

2)    una strategia estrema di valorizzazione: “teniamola chiusa il più a lungo possibile per aumentare l’aspettativa”

3)    una banale consorteria di profitto: “mandiamo i quadri all’estero o nei caveau, e facciamo lavorare e guadagnare le assicurazioni e le banche”

4)    una commedia dell’assurdo senza un vero e proprio piano: “proviamo a vedere cosa succede lasciando che i lavori seguano un’inerzia esistenziale stile Salerno-Reggio Calabria”

5)    un’astutissima manovra per trasformare un patrimonio pubblico in una fondazione privata: “tanto ai cittadini non importa niente dell’arte”.

Effettivamente i risultati sono scoraggianti. Se qualcuno toglie agli italiani il segnale televisivo per una mezza serata, scoppia la rivoluzione, e i responsabili si prendono l’ergastolo; se lasci chiusa una delle più importanti pinacoteche  del paese per sette anni, nessuno ti dice niente.

E quindi è puramente per amore di verità, e non per fare scandalo o polemiche, che chiedo a tutti gli enti coinvolti nella gestione dell’Accademia Carrara, e alle persone che li rappresentano, per quale motivo realmente  l’Accademia Carrara sia stata tenuta chiusa per sette anni;

lo chiedo a nome di molti cittadini, e non stupidi: e sarebbe bello avere una risposta “pubblica”, un vero e proprio “outing” dopo sette anni di mistero, magari il giorno stesso dell’inaugurazione.

(Imago: titolo dedicato da CTRL magazine alla riapertura della Carrara)

 

donizetti danger

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Donizzelav La Mia è la più vecchia istituzione della città, fondata nel 1265, al fine di praticare la “misericordia pubblica” “sostenere i bisognosi” e “prevenire l’eresia”. Una volta ci sapevano fare.

Nell’aula magna (ma niente da bere) della sede della Mia, in via Arena (dove c’era il Conservatorio, oggi allocato nell’impoetica città bassa) è stato presentato nei giorni scorsi il Donizetti Pride, denso e simpatico cartellone di diffusione expo-donizettiana in città, spettacoli, incontri, rappresentazioni non solo nei teatri, e non solo di repertorio.

Il Comune, la Mia, il Conservatorio, la Fondazione Donizetti, cioè enti solitamente in sclerosi, hanno preso coraggio e affidato la responsabilità creativa a un vero organizzatore di cultura, che incredibilmente ha meno di settanta anni, forse anche meno di cinquanta, e idee chiare,

niente grandi nomi, niente Bocelli, si spettacoli nuovi, sì spettacoli diffusi nello spazio-città; una ventata d’aria fresca,

lo si vede già dalla grafica della cartella stampa, molto al passo coi temp, nello stile “repetita iuvant” che riprende e omaggia la cover de L’Osservatore Elaviano, la testata più chic nei club di Londra e Berlino (ma qualcuno la trova anche a Bergamo, dove viene creata).

Bravo assessore, bravo direttore, bravo presidente, l’impressione è positiva.

Se proprio vogliamo trovare una pecca, semmai, è nell’anglofilia del naming della manifestazione, Donizetti Pride, articolata in Donizetti Night, Donizetti Off e Donizetti Alive;

cosa che certo non piacerebbe al nostro Gaetano, che insieme a Puccini, Bellini, Rossini e Verdi ha fatto parlare l’italiano in tutto il mondo proprio grazie all’opera lirica.

Negli Stati Uniti probabilmente questa rassegna si sarebbe chiamata “Donizetti Bel Canto”, o qualcosa del genere,

nella patria del bel canto invece l’hanno chiamata Donizetti Pride, che fa anche un pochino Gay Pride: e questo è davvero ingiusto, perchè Donizetti è stato un vorace mangiatore di donne, tanto da creparci. Rispettiamo i morti.

Farlo parlare in inglese, passi, ma farlo passare per gay mi sembra pericoloso.

Rischiamo che durante la messa della domenica in S. Maria Maggiore sorga dal sarcofago e si erga bestemmiando. Conosco il tipo.

 

 

Expo 2015 a Bergamo è già finita

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Expo 2015 a Bergamo è già finita. Vai sul sito dedicato, expo.bergamo, e la prima cosa che leggi in > Expo2015 > sistema Bergamo >  “Sistema Bergamo parteciperà al Padiglione Italia con uno spazio espositivo dedicato per una settimana a cavallo tra settembre e ottobre 2014”.

2014? Se lo correggi subito, un lapsus è solo un lapsus; ma se dopo un anno non l’hai ancora corretto non è più un lapsus: è un requiem, significa che quel sito non lo guarda nessuno, nemmeno chi lo gestisce.

E forse il sistema Bergamo, la Bergamo experience effettivamente è già morta, è già finita prima ancora che Expo apra i battenti. Lo percepisci dai discorsi, dagli atteggiamenti nel mondo dell’expo-business. Fino ad ora abbiamo visto un grandissimo “das de fà”, darsi da fare, e qualsiasi cosa diventava un “lo facciamo in occasione dell’expo!”. Adesso vedo già gente che dice: “Ehh! Adesso c’è l’expo, lasciamo passare l’expo, lo faremo dopo l’expo!”.

Questo “Sistema Bergamo” giusto un anno fa in previsione expo ha prodotto anche un suo logo specifico “Idee per expo” con tanto di manuale per l’utilizzo e invito a tutti gli operatori ad utilizzarlo.

Io me li immagino. Riunioni su riunioni. Ci servono idee? Facciamo un marchio per promuovere le idee! Passato un anno, vedi i risultati. In rete trovi forse un paio di agenzie pubblicitarie che l’hanno adottato.

Ma un’agenzia pubblicitaria, o chiunque, con un logo che certifica “qui si producono idee”, con un marchio “emozioni-entusiasmo-energia”  perde di credibilità, e di fatto asserisce il contrario: mancanza di idee, di emozioni e di energia, e infatti per quanto tu smanetti in rete  cercando “idee per expo bergamo” non trovi uno straccio d’idea.

Non che sia facile tirare fuori idee ai bergamaschi. Tanto più che appena uno ha un’idea viene preso per pazzo. Oggi Arlecchino è diventato a sua volta un logo, un marchio turistico, e così il senso vero, tragico di questa maschera, è del tutto travisato: non siamo una città colorata e vivace, ma una città grigia e morta, nella quale l’individuo “creativo” viene bollato come buffone, pazzo e pezzente, e trasformato in burattino.

Basta guardare le 10 immagini di copertina di questo sito expo/bergamo per deprimersi, e vedere che l’idea che la città proietta di sé stessa  è ferma da decenni, mummificata.

Immagini dapprima pesantemente belle e banali (le mura venete, città alta by night, i monti innevati, i dolci colli) quindi leggermente brutte e venali, con il poker pancetta-aero-papa-talanta, e cioè natura morta di salumeria + grande aereo/salsiccia inquinante al decollo (con sfondo città alta e montagne, che ha tutta l’aria del brutto fotomontaggio) + grande faccione al lardo del papa buono (ma ormai a chi interessa, diciamocelo, oltre a qualche nonna indigena e qualche suora filippina?) + logo iper-commerciale della società Atalanta, che fa molto tristezza-business.

Se poi abbassi lo sguardo, e leggi i testi, e guardi le altre immagini, l’impressione di falsità è totale, quasi di volgarità: Bergamo sembra una città di cartapesta, in mano a venditori group-on “imprestati” al turismo, che non sanno distinguere romano e romanico, e trovano tutto romantico.

Io sono convinto che tutti questi autogol di comunicazione rivelino un inconscio molto lontano dalle intenzioni di facciata, a proposito di Bergamo città d’arte e turismo.

In realtà sappiamo benissimo che Bergamo non è una città per turisti. Non bastano i monumenti giusti, se non c’è lo spirito giusto.  Non bastano i marchi, i concorsi, non basta uno slogan. Uno slogan ha forza solo se ha verità.

Non è una città per turisti. Potrebbe persino funzionare.

viva la pubblicità ignorante

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BGbirraIGN

Come sempre, nessuno inventa niente, e tutti contribuiscono a tutto.

Parliamo dell’origine della PIG, la pubblicità ignorante, il nuovo format di advertising/subvertising di CTRL magazine, riconoscibile da un bollino ovale tipo Pubblicità Progresso con la dicitura PIG.

Come si legge nella pubblicità della Pubblicità Ignorante,

PIG è la pubblicità km0, genuina, come una volta,

1 immagine da “cinema” e 3 promesse “strillo”

obiettivo comunicazionale: strappare un sorriso

obiettivo culturale: diffusione delle coltivazioni di pubblicità autoctona km0 e riduzione dell’inquinamento semiotico causato dalla pubblicità mainstream industriale tossica per la psiche.

Da qualche parte si trova anche una  normativa PIGright :

CTRLmag, ADVzero, StudioTEMP sono i  coideatori

corealizzatori condivisori e comproprietari del comarchio PIG

chiunque coltiva condivide e applica i principi PIG

è libero di utilizzare il comarchio PIG in modalità PIGright

cioè gratuitamente, ma con la disclamatura speciosa PIG1  PIG2  PIG3

per la tracciabilità del prodotto e la riconoscibilità dei coltivatori diretti.

CTRL è un magazine free press glocale che sta in piedi senza finanziamenti e con la pubblicità locale produce contenuti internazionali e format inediti. ADVzero è l’agenzia sperimentale di sovversione pubblicitaria del centro ricerche Calepio Press. StudioTemp è lo studio che crea la grafica di CTRL (e altre pubblicazioni sperimentali curate da ADVzero, come l’Osservatore Elaviano del birrificio Elav, un cartaceo di contro-subcultura illeggibile on line).

La pubblicità ignorante nasce esattamente alcuni mesi fa, quando i tre soggetti succitati, disgustati dall’idea di pubblicare in quarta di copertina la pagina pubblicitaria istituzionale dell’Università di Bergamo – una cosa vergognosa, brutta copia di banali adv americane nate vecchie –  in preda a questo profondo disgusto (è la qualità, la creatività delle inserzioni a fare la qualità, la creatività di un magazine!) si ribellavano e con incredibile ardire comunicavano all’inserzionista che non potevano pubblicare quell’annuncio, troppo brutto, e al contempo proponevano una adv fatta al momento, sullo spunto del bello dei Temp, che disse “facciamo qualcosa di ignorante!”, e cioè il logo in grande e una frase/claim: di fatto una copy compaign.

Con quella scelta, raggiungevamo una nuova consapevolezza, dovevamo occuparci di qualità, autenticità, appeal della pubblicità locale, spesso un adattamento di format nazionali, o vere e proprie brutture fatte dal tipografo o dal cliente stesso.

Dopo l’Università di Bergamo, le prime prove di PIG sono con BGbirra, per opera di StudioTemp, che trasforma un bastione delle mura in un boccale di birra, con citazione/claim by ADVzero, prendendo in giro le citazione colte con una citazione “ignorante”, e improbabile: Non c’è birra senza spina – Rosa Luxembourg.

Sempre per BGbirra, nasce quello che poi diventa il format basic, con imago da film e 3 frasi-3 strilli, secondo la scuola degli ambulanti-strilloni. Dopo BGbirra, ecco Skandia, e dal n.55 più della metà delle adv è in format PIG, con tanto di bollo.

Un successo, e anche piuttosto strano, considerato che la prima regola dell’adv è distinguersi, mentre la PIG è un format, una gabbia standard, e dunque in un certo senso tecnico/semiotico “non è pubblicità”, o se è pubblicità, è pubblicità dentro uno schema, cioè roba da DDR, da Minculpop, da pubblicità irregimentata.

Eppure funziona, colpisce, anche rinunciando all’unicità, all’impatto visual, all’unicum grafico, o forse proprio in virtù di questa sottrazione, quest’uniformità, riporta l’attenzione sul messaggio, sull’emittente.

E a quel punto convince per il tono leggero, spiritoso, autoironico, e genuinamente “ignorante”.

La parola “ignoranza”, “ignorante” – parola tabù alle opposte estremità del target socioculturale per opposti motivi –  non mi è nuova. Da bambino mia zia iniziava ogni discorso con “io sono ignorante, ma…” (che retoricamente somiglia al “io non sono razzista, ma…”). Recentemente, ai tempi della capitale della cultura, sempre in combutta con CTRL, si era creato il dominio, anzi l’hastag, #pensacheignoranza, a identificare un’agenzia di sondaggi d’opinione a priori, cioè come quelle di regime…

Ma l’idea, la convinzione  che la pubblicità si basi sull’ignoranza, è nel dna della pubblicità. Diceva il mio primo art director (1986): se tutto il target fosse veramente A+, cultura e consapevolezza, la pubblicità non avrebbe alcuna possibilità di esistere. Dovrebbe sparire. Poco per volta, con l’evoluzione del pubblico. Abbassare le luci, la voce.

Una delle prime agenzie in cui ho messo piede ebbe un momento di gloria con lo spot: “Silenzio, parla Agnesi”.

Più avanti, ebbi il trauma di lavorare per un imprenditore vecchio stampo, che si vantava di non aver mai speso 1 lira in pubblicità (e lavorava e prosperava nel settore moda…): ma se io l’avessi eccitato con un’idea, avrebbe cambiato idea e fatto la sua prima campagna. Cosa che naturalmente avvenne, e la campagna “Eroi del nostro tempo” (con testimonial banali, uomini comuni, vestiti da perfect gentleman Boggi, con la body-eroica tipo: impiegato, due figli all’università) vinse qualche premio e convinse l’uomo a dotare l’impresa di un pay-off (Boggi ha solo clienti fedeli a sé stessi).

Mi diceva il vecchio Boggi:  la vera pubblicità è quella che fanno gli strasciuni (straccivendoli) ti sbattono in faccia il tessuto e ti urlano tre frasi, in modalità sillogismo (tesi, antitesi, sintesi)  che a bene vedere è tuttora il perno razionale di ogni televendita.

Poi con gli anni  80 e il made in Italy e le scuole di design e la notte dei pubblivori prende piede l’idea che la pubblicità sia un linguaggio sofisticato, elitario, intelligentissimo. Per gente che non ha mai decifrato una terzina della Divina Commedia, o un passo del Vangelo, o un’affermazione di Wittgenstein, o un paragrafo del Finnegan’s Wake, uno spot con due o tre rimandi in circolo è già un’opera dell’ingegno.

E così arriviamo ai disastri, alle pubblicità difficili, auto-referenziali, e autolesioniste. Vorrebbero essere adv per gente up. Ma sono senz’anima, e deprimono nonostante la sfavillare di luci e luxury.

L’anima della pubblicità, se c’è, è ignorante, possibilmente di una sana ignoranza, sincera, infantile: è lo stupore di un bambino che grida alla sua automobilina: ha il motore!

PS: c’è da dire che il merito conclusivo della PIG è del giovane Postini, l’editore/account di CTRLmag: è lui quello che è andato a faccia tosta dai clienti a vendere pubblicità ignorante (e a un prezzo superiore!). Il  mondo adv è pieno di creativi cattivi e innovativi da sempre castrati e cassati da account “con i piedi per terra”. E non succede niente. Ma se accade che il commerciale è più “fuori” del creativo, allora…

(imago: PIG, pubblicità ignorante per BGbirra su CTRL magazine)

lux in fabula

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sissi

C’era Enel una Miss Sissy tutta Gewiss

tanto che un Tizio di nome Tolomeo,

(d’indole solitamente Luceplan, tra Parentesi)

improvvisamente Duracell, le disse:

Luxottica, sarò l’Arco della tua Artemide!

Che Superpila vuoi per il tuo lato B.Ticino?

Come Osram? Taccia!  Mi carico a luce solare,

nessuno mi può infilare la spina. Watt via!

E il Turciù fu subito Flos.

(fabula Lux per edit di CTRL magazine n55 dedicato alla luce, in distribuzione in questi giorni; un vecchio metodo di esercitazione per copywriter: scrivere un testo usando solo nomi di prodotti o marche, cioè parole in copyright, qui sotto la lista-vocabolario: 

Enel, ente nazionale energia elettrica; Watt, scienziato, unità di misura elettrica; Gewiss e B.Ticino, marchi interruttori elettrici; Duracell e Superpila, marchi pile elettriche;  Luxottica, marchio ottica; Osram, marchio lampadine; Luceplan, Artemide e Flos: marchi luci; Arco, lampada, design Castiglioni bros 1962, produz, Flos; Parentesi, lampada, design Manzù/Castiglioni 1970, produz. Flos;  Miss Sissy, lampada, design P. Starck 1991, produz. Flos;  Taccia, design Castiglioni bros 1962, produz. Flos; Tizo, lampada, design R.Sapper 1972, produz. Artemide;  Tolomeo, lampada, design Fassina/De Lucchi 1987, produz. Artemide;  Turciù, faro/lampada, design e produz Catellani&Smith

 

contropassato prossimo

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Contro

Ok ragazzi, gettiamo la maschera, chi vi scrive è il vecio rimba della redazione e quello che vi dirò vi suonerà pessimo. Voi magari vi sentite delle mezze merdine perchè la famiglia vi mantiene, vi fa l’elemosina, vi compatisce: ma la verità è che i vostri padri, le madri, con i nonni, le nonne, gli zii e le zie vi stanno fottendo alla grande (e sfottendo) da almeno vent’anni, da quando siete venuti al mondo.

Vi racconto com’è andata veramente. Quando loro avevano la vostra età, c’era il boom economico, cioè il contrario esatto della crisi: vuol dire che qualsiasi cazzone (q.ca), aprendo una qualsiasi attività, in pochi anni faceva una palata di soldi; vuol dire che q.ca volesse fare il libero professionista, andava all’università gratis, si laureava col sei politico senza aprire un libro, avviava lo studio coi soldi dello stato e in pochi anni faceva una palata di soldi.

Vuol dire che q.ca privo di iniziativa trovava 3000 posti di lavoro in fabbrica, in banca, in ferrovia, in posta, in comune, in regione, con 3000 stipendi l’anno e mesate di malattia, permessi, vacanze premio e premi di produzione più la casa nuova in affitto quasi gratis e la casa di vacanze al mare o in montagna pagate dall’azienda o dall’ente statale.

Vuol dire che q.ca universitario il giorno dopo la laurea era di ruolo nelle scuole, negli ospedali, nella pubblica amministrazione, con tutti gli scatti, avanzamenti, assegni familiari, sussidi, promozioni automatiche.

Vuol dire che a 35 anni, volendo, q.ca andava già in pensione, le famose pensioni baby, dopo aver lavorato in pratica 5 anni (+ 5 anni di università/assemblea + 5 anni di maternità o malattia professionale o ferie d’aggiornamento).

Voi invece a 35 anni state ancora facendo stage gratis, e se cercate di fare un’attività da morti di fame in proprio siete assaliti dall’asl o dall’inps o da tutte e due che a prescindere vi chiedono subito 3 o 5 o 7mila euro l’anno (per pagare le pensioni a genitori, nonni, zie, invalidi, cioè a tutta la famiglia, che poi vi fa l’elemosina)

Non parliamo della classe creativa, della bufala grassa di nome made in italy, moda e design, advertising e mass media: qui vi stanno stra-fottendo! La verità è che voi avete studiato, fatto esperienza, gavetta, e siete davvero dei creativi, ma siete dannati a essere dei poveri falliti, mentre loro, i q.ca 68ottini sono ingrassati sentendosi dei geni.

Naturalmente questo quadro è ipebolico e generalizzante: accanto ai q.ca in ogni settore abbiamo tantissimi b.ti – bravi tipi – che nelle scuole, aziende o in proprio hanno dato tanto e tenuto in piedi il paese, mentre i q.ca ingrassavano e dissipavano.

Ma la grande verità è che un’intera generazione di q.ca ha fatto un po’ di casino per alcuni anni, dal 68 al 78, facendo collettivi, assemblee, occupazioni, espropri proletari, manifestazioni, e poi anche tirando le bombe, in ogni senso: viene da lì il boom economico, dal cambiare tutto, con le buone o le cattive.

E a un certo punto le aziende, o lo stato hanno cominciato a comprare, cooptare, finanziare questi q.ca perchè creassero le loro aziende creative e ad assumere questi q.ca nei giornali e nelle televisioni e nelle case editrici o in qualche ente inutile dedito alla cultura o al turismo.

Quando siete nati voi, negli anni ottanta e novanta, crollato il comunismo, è finita la dinamica sociale, e i q.ca della boom generation si sono compattati, omogeneizzati, destra e sinistra si sono unite per fottere insieme le nuove generazioni.

Vi accusano di non avere identità. Vi chiamano x e y generation. Ricevete solo critiche, non vi fanno fare niente, non mollano niente, non cambia niente: e questa è l’origine e la statica della crisi.

Si sono presi il migliore dei mondi possibili, e se lo sono mangiato. Adesso vi lasciano un mondo invivibile. E vi accusano di non essere capaci di stare al mondo.

Oggi gli ex 68ottini non hanno alcuna intenzione di farsi da parte – come hanno fatto i loro veci! – ma avvinghiati alla cassa e alle poltrone hanno in testa una sola cosa: tenere da parte i soldi per trapianti e staminali, per ringiovanire! Cioè per rubarvi ruolo, posto e futuro.

Sean Blazer

cover story per CTRL magazine n.53; da stasera in distribuzione, versione on line su >

http://www.ctrlmagazine.it/2014/ctrl-magazine-53/